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Vuoto dentro
Non riesco a realizzare.
Mentre vago a piedi scalzi lungo tutto il perimetro del salotto, con la bocca piena di un muffin ai mirtilli e cioccolato bianco, bagnati di una deliziosa aggiunta sapida di lacrime, cerco di realizzare – più che altro metabolizzare – quanto ho scoperto.
Un gigolò… praticamente è un puttano ! Le donne sborsano sonanti dollari per poterlo avere nel loro letto o come protagonista di chissà quale perversa fantasia.
Un conato mi stringe lo stomaco, costringendomi a sputare parte del dolce sul palmo della mano. Che schifo.
Getto tutto nel pattume e mi sciacquo, mi passo le dita tra i capelli annodati e poi, rendendomi conto che non riesco a farle scorrere nemmeno di mezzo centimetro prima di trovare un nodo, torno verso il tavolino da fumo che staziona in mezzo alla stanza oppressa dall’odore di chiuso e fisso il cellulare con lo schermo annerito.
«Dovrei accenderlo?» Guardo Nanà, mi osserva di rimando regalmente seduta su una pila di riviste affiancate alla poltroncina, ma non ottengo alcuna risposta se non un paio di orecchie dritte.
So che dovrei decidermi a premere quel piccolo tasto laterale, in fondo potrebbero cercarmi dal lavoro anche se, in questo momento, non sono granché interessata alle dinamiche del ristorante e degli appuntamenti da prendere al call center. Tutto ciò su cui la mia mente provata si concentra è Kilian, nient’altro. Dilaniata dalla sua mancanza e dalla repulsione. Due stati d’animo che cazzottano tra loro, eppure coesistono in uno spazio così ristretto.
«‘Fanculo» sbotto, allungandomi per prendere l’apparecchio e accenderlo. Non faccio che battere il piede nervosa, dopo che ho inserito il pin e l’impronta digitale passa qualche momento, prima che lo smartphone inizi la sinfonia di notifiche. Un concerto che: “Beethoven, scansati proprio”. Una valanga di messaggi si accavallano uno sull’altro e appartengono quasi tutti alla stessa persona: Kilian.
«No, no, non ce la posso fare!» Poso il telefono come se mi scottasse la pelle e mi accuccio per terra, indecisa sul da farsi. Sono donna e sono curiosa per antonomasia, ma d’altra parte, leggere quei messaggi, potrebbe farmi solo male o, peggio, indurmi a soprassedere su ciò che fa Kilian. Ciò che davvero non riesco a perdonare è la sua menzogna, il suo celarmi la verità, ingannandomi con bugie e sotterfugi; lui che è sempre stato baluardo della schiettezza. Non che immaginarlo a soddisfare donne vogliose sia tutta questa gioia.
Torturo l’indice con gli incisivi, il nervosismo mi assale e caccio un urlo quando, improvvisamente, qualcuno bussa alla mia porta.
«Chi è?» grido e il cuore tamburella nel petto, mi aspetto di sentire una voce, un nome preciso.
«Posta» sento rispondere, invece. Non è Kilian, è venuto sotto casa mia stamattina presto e non ho mai aperto, non posso fare a meno di sentirmi, in modo del tutto ingiustificato, delusa dallo scoprire che al di là dell’uscio non c’è altri che Willy.
«Che brutta cera…» commenta appena apro, aspirando l’aria tra le labbra strette che producono un sibilo aspro.
«Grazie, anche io ti trovo bene.» Gli strappo dalle mani le buste e chiudo la porta, senza nemmeno fargli finire di augurarmi una buona giornata; il mal d’amore mi rende estremamente maleducata.
«Pubblicità, bollette, bollette, pubblicità… la solita tiritera.» Sbuffo annoiata, mi sento gli occhi pesanti, ma noto una busta strana. «Nanà, è di un notaio» commento alla mia gatta, il che la dice lunga sulla mia condizione psicologica.
Perché diavolo un notaio dell’Oregon dovrebbe scrivermi? Strappo il bordo e tiro fuori la lettera ufficiale, divorando le parole:
Egr.ia Sig.na Murphy,
La presente per informarla che lei, Renée Murphy nata a Chicago il 14 novembre 1990, è stata nominata nel testamento della Sig.na Rose Caroline Harris. Come espresso da sua zia, nel pieno possesso delle sue capacità fisiche e mentali, eredita la somma di $20.000,00 (ventimila dollari US) a patto che si prenda cura del suo gatto Bartolomeow, come desiderato dalla defunta Rose Caroline Harris, la quale è deceduta per cause naturali la notte del 26 maggio 2020.
La invito pertanto a compilare il modulo allegato e firmare il documento per l’accettazione dell’eredità. In caso desiderasse rinunciare alle ultime volontà di sua zia Rose Caroline Harris, la prego di riempire il documento apposito allegato con la presente. In ogni caso, mi contatti così da poter definire i dettagli.
P.S.: nella Pec inviatole troverà in allegato la copia della lettera scritta di proprio pugno da sua zia Rose Caroline Harris.
In fede,
Notaio Jhon J. Almond
Sbatto le palpebre più volte, mi stropiccio gli occhi col pugno e poi corro verso il cellulare e ricerco in rubrica il numero di mia sorella Hellen.
«Renée, che succede?»
«Chi diavolo è zia Rose Caroline Harris?» parto in quinta, mi odio per non riuscire a ricordare questa parente che mi sta beneficiando di ventimila dollari.
«Oddio, non te la ricordi perché eri piccola l’ultima volta che l’abbiamo vista.» Sospira. «Ti ha inserita nel testamento?»
«Sì, ventimila dollari a patto che mi prenda carico del suo gatto Bartolomeow.» Nome strano per un gatto.
«A me ha lasciato dei gioielli e la sua vecchia auto.» Schiocca la lingua.
«Sono lieta di cotanta generosità, ma vorrei almeno capire chi sia.»
«La sorellastra di papà. Ha sempre vissuto in Oregon, ogni tanto veniva a farci visita finché non si ruppe l’anca e, da allora, ha sempre detto di non sopportare i lunghi viaggi. Credo che non si sia mai sposata, era sola» spiega.
«Beh, che fosse sola sembra scontato dal momento che ha scelto due nipoti che non vede da anni come beneficiare del suo patrimonio.»
«Già, povera zia Rose. Lei era strana, a dire il vero sembra fosse sotto psicofarmaci.» Fa una pausa.
«Almeno tu te la ricordi…»
«Dai, quella zia che strizzava la guancia come una morsa d’acciaio, ogni volta che veniva ci portava un pacchetto di caramelle all’orzo e al miele.»
«Ah! Oddio, ora mi ricordo di lei. Odiavo quelle caramelle.»
«Ora devo lasciarti, scusami, ma ho in ambulatorio un tizio con un cotton fioc incastrato nell’uretra. Dio solo sa che diamine volesse farci.»
«Oh, che schifo.»
Quando metto giù guardo Nanà, mi osserva sospettosa e le faccio un accenno di sorriso. «Mi sa che avrai un fratellino» le rivelo e chiamo il notaio per accordarmi sulle modalità per prendere il gatto e i soldi. Non avrei lasciato quell’animale in mezzo alla strada nemmeno senza il benefit monetario, ma di certo non mi lamenterò per questo inaspettato colpo di fortuna. Ventimila dollari piovuti dal cielo, mi sembra ancora incredibile e mi auguro di non veder sbucare fuori il testone di un presentatore che mi urla: “scherzi a parte”.
Mi lascio andare a un balletto in mezzo alla stanza per qualche momento, dopo aver parlato col notaio e aver appurato che è tutto vero, ma una volta risolto le questioni legali, mi rattristo di nuovo. Terminato questo turbinio burocratico e aver metabolizzato che presto il mio conto corrente tirerà un bel sospiro di sollievo, il cervello torna a problemi assai meno terreni e più astratti. Merda! Non posso nemmeno godermi la gioia di potermi rasserenare da quest’entrata inattesa, che dev’essere inquinata da Kilian e mi domando quante prestazioni potrei acquistare, da lui, con ventimila dollari.
Il cellulare prende a vibrare furioso e mi balza il cuore in gola quando leggo il nome di Kilian nella chiamata in entrata.
Gli occhi si riempiono di lacrime all’istante, vorrei poter affermare che queste stille siano dedicate alla memoria di una zia dimenticata che, per fortuna al contrario di me, non si è scordata della nipote che sta in Illinois. Invece sono dedicate allo stronzo che mi ha spezzato il cuore, che mi ha portata in paradiso per poi lasciarmi cadere nel baratro dell’inferno. Un impatto nient’affatto morbido o indolore.
Stringo le palpebre, come a voler cacciar via il pensiero, ma anziché sparire si fa più robusto. Per l’ennesima volta mi ritrovo a singhiozzare, rannicchiata all’angolo del divano, a chiedermi dove abbia sbagliato. Probabilmente finirò come questa famigerata zia Rose, sola, circondata dai gatti e impasticcata di Xanax , e morirò in solitudine, lasciando ogni mio possedimento a parenti improbabili di cui non saprò assolutamente niente e che nemmeno si ricordano di me.
*
Tre giorni.
Sono tre giorni che non mi presento a lavoro, a nessuno dei due, e via via che resto qui a macerare nel dolore della perdita, accarezzando lo snob Bartolomeow, prende sempre più piede l’idea di non tornare mai più né al ristorante né al call center. Nanà, in verità, non pare molto entusiasta di questo nuovo arrivo, un bellissimo Siamese con il pelo lungo e gli occhi celesti. In effetti è stata una distrazione occuparmi del suo inserimento e, anche se talvolta ancora gonfiano il pelo quando incrociano i loro cammini, le cose stanno andando per il verso giusto e io riesco a non pensare a Kilian 24 ore su 24, ma solo 23 su 24.
Chiudo il portatile, salvando le poche righe che ho scritto del mio romanzo, e mi infilo le Converse ai piedi, pronta per affrontare la gente di cui in questo periodo sono allergica. Tutto ciò che vorrei è stare in eremitaggio nel mio appartamento, ma Nanà e Bartolomeow non caldeggiano affatto questa mia aspirazione, non se il prezzo da pagare è la carenza dei loro croccantini preferiti.
«Lo faccio per voi» pigolo, indossando pigramente la borsa. «Fate i bravi.» Mi raccomando come una madre farebbe con i figli litigiosi.
Scendo le scale, lasciandomi scappare un timido sorriso al suono melodioso del sax di Luke e la voce di Dot che lo accompagna in una jam-session casalinga. Almeno qualche coppia felice a questo mondo c’è, di certo non sono io.
Sono così di fretta quando oltrepasso il portone del mio palazzo, tanto è il desiderio di rincasare quanto prima, che nemmeno mi rendo conto di essere andata contro qualcosa o qualcuno, ritrovandomi balzata un metro indietro e col naso dolorante.
«Ahio» mormoro, massaggiando il setto nasale. Alzo lo sguardo verso l’ostacolo improvviso e sbianco. Il dolore al naso passa in secondo piano quando mi ritrovo abbagliata dagli occhi ghiaccio di Kilian che, in piedi, si china verso di me.
«Stai bene?»
Con un brusco gesto delle braccia allontano da me le sue mani e lo fulmino. «Che diavolo ci fai sotto casa mia?» sibilo.
«Non rispondi al telefono e non leggi i messaggi, in qualche modo dovevo pur cercare di risolvere il problema.» Butta fuori tutto in modo concitato e mi mordo l’interno della guancia per impedirmi di crollare in un pianto senza freni.
«Ti è balenata l’idea che, se non rispondo, è perché a me non va affatto di parlarti?!»
«Posso spiegarti, vorrei solo aver l’occasione di farlo» insiste, seguendo i miei passi che cercano di distanziarsi da lui e dal suo odore che mi solletica mille ricordi.
«Non c’è granché da spiegare.» Mi blocco quando lui mi si para davanti ancora. «Kilian, devo andare! Vattene!»
«No, Renée, non me ne andrò finché non avremo parlato.»
«Di che cavolo vuoi parlare? Vuoi dirmi se accetti bonifico o contanti?» Sarcastica lo colpisco impietosa, lui sbatte gli occhi sorpreso, ma non demorde.
«Renée posso smettere di farlo, era solo un modo per guadagnare dei soldi in fretta e rilevare il bar.»
«Tu mi hai mentito! Mi hai rifilato mille balle in tutto questo tempo, a partire dalla crociera!»
«Che avrei potuto dirti?!» Allarga le braccia.
«La verità, per quanto penosa potesse essere.»
«Non mi presento di certo agli estranei esordendo con: “piacere, sono Kilian Hoffman, di mestiere gestisco un bar e, oh, faccio il gigolò”.»
«Ah-ah, molto divertente!» replico spinosa. «Avresti potuto, e dovuto, dirmelo dopo, quando avevamo preso la giusta confidenza e io ti tempestavo di domande. Ora mi è chiaro il motivo di tanta evasività.»
«Renée, io ti amo.» A queste parole dette con veemenza sento il cuore esplodere.
«No! No!» urlo. Mi fermo e piroetto verso di lui con occhi fiammeggianti. «Non ti permettere di dirmi che mi ami!»
«Non fare così…»
«No, tu mi fai schifo, io non posso fidarmi di te, Kilian, non posso!»
«Posso riguadagnarmi la tua fiducia, farò qualsiasi cosa tu vorrai.»
«Non funziona così!» sbraito. «Anzi, dimmi una cosa, l’editrice che pubblicherà il mio romanzo…» Non c’è bisogno che concluda la domanda, lui ha già capito e abbassa lo sguardo sulla punta delle scarpe sportive che indossa.
«Sì… è una mia cliente.» Resto basita a fissarlo, quando mi riscuoto apro la borsa alla ricerca del biglietto da visita. «Ma ha letto la bozza che le ho inviato, non è per fare un favore a me che ti pubblica, ma perché hai talento!»
«Non mi interessa!» esclamo sicura, lanciandogli contro i coriandoli del cartoncino che componeva il biglietto. «Non intendo averla come editrice.»
«Renée, questi sono affari, capisco il tuo stato d’animo, ma lavora per una delle più importanti case editrice della nazione, non puoi perdere quest’occasione.»
«No, tu non capisci, non sai un bel niente!» Gli punto contro l’indice, ferita a morte. «Dovrei stare seduta davanti a lei a parlarle del mio libro che parla di noi, sapendo che lei conosce i particolari del tuo corpo? Che sa come sono i tuoi baci, i tuoi tocchi, che le hai dato un orgasmo e lei lo ha dato a te?» Gli occhi si sono colmati di lacrime ancora una volta e una riesce a rotolare giù per la gota.
Le sue dita mi sfiorano la pelle accaldata della guancia, una scossa elettrica mi attraversa per intero e, anche se non vorrei altro che incunearmi nel suo abbraccio, mi ritraggo, schiaffeggiandogli via la mano.
«Devo andare.»
«Renée.»
«Kilian, se mi vuoi un po’ di bene, lasciami in pace» ringhio lui si ferma e affondo il colpo. «Per favore, lasciami andare e permettimi di guarire.» Non ribatte, mi guarda immobile all’ombra di una betulla e, forse la vista mi inganna, giurerei che anche i suoi occhi sono umidi.
Riprendo il cammino, pronta a raggiungere il mini-market, con l’intenzione di far tutto ciò che ho in programma. Aggiungo due tappe al mio itinerario: il call center e il ristorante, devo consegnare le mie dimissioni.