Viaggiatore in terra

Nulla è più avvincente

delle immaginazioni malinconiche.

Malherbe

Pochi anni fa, l’autore della traduzione che siete in procinto di leggere si trovava in una città degli Stati Uniti quando l’occasione di una piccola ricerca letteraria gli fece mettere le mani su alcuni documenti dal carattere così particolare che si appassionò a ricopiarli interamente; ma poiché sono legati a eventi già lontani e quasi dimenticati persino nel luogo dove avvennero, sarà bene non presentarli al lettore senza prima risalire alle origini e ricordare un avvenimento che nel 1895 turbò la città universitaria di Fairfax.

Verso il 10 settembre di quell’anno riemerse dal fiume il corpo di un ragazzo di diciassette o diciotto anni. Gli arti fratturati in più punti indicavano che era caduto e poi rotolato lungo un declivio molto ripido, sbattendo contro pietre appuntite.

Poco prima di attraversare la città, il fiume procede tra due muraglioni scoscesi, irti di pietre, sempre più elevati a mano a mano che rimontano la corrente e che si perdono nella campagna. Non si ha dunque difficoltà a immaginare la scena dell’incidente. Il ragazzo passeggiava, forse di notte, nei dintorni della città. Non vede dove sta andando, arriva in prossimità del fiume nascosto dall’oscurità. La terra è impregnata d’acqua per via di un recente temporale. Scivola improvvisamente e, prima di potersi aggrappare, precipita sulle rocce che lo dilacerano e capitombola nel fiume dove annega.

Tuttavia era così luminosa la notte della sua morte che molte persone si rifiutarono di credere che fosse potuto giungere alle sponde del fiume senza vederlo sotto di sé e, ritenendo che per una ragione o per l’altra avesse in maniera colpevole voluto porre fine ai suoi giorni, proposero di seppellirlo in un settore riservato del cimitero e senza le abituali cerimonie.

L’inchiesta stabilì che si chiamava Daniel O’Donovan e che si trovava da qualche giorno in città, dove contava di seguire i suoi studi. Nel corso di queste indagini ci fu chi scoprì alcuni fogli di mano del defunto che consentivano di ritenere che si era stati un po’ troppo frettolosi e che c’erano circostanze molto singolari che non erano state messe in conto perché nessuno le conosceva ma che dovevano condurre a una conclusione completamente differente da quella che si era stati sul punto di adottare. La sepoltura fu dunque rimandata all’indomani del giorno in cui le carte erano state ritrovate; in seguito si esaminarono scrupolosamente questi manoscritti e si ascoltarono le testimonianze di persone che avevano conosciuto Daniel O’Donovan. Alla fine, poiché il dubbio sussisteva, si decise che era meglio ingannarsi eccedendo nella carità che nel rigore. Si scrissero dunque sui registri, accanto al nome di Daniel O’Donovan, le parole di un’antica formula che viene a proposito in casi simili: morto per la visitazione di Dio e si convenne di seppellire dignitosamente il ragazzo, facendo incidere sulla lapide che lo ricopriva questo versetto ripreso dal libro dei Salmi:

Come purificherà il giovane la sua condotta?

Quasi nello stesso tempo, il direttore di un giornale cittadino s’incaricò di produrre al pubblico il manoscritto che era stato ritrovato e scelse come titolo il versetto che era servito da epitaffio. Questa pubblicazione incuriosì molti lettori e, poiché il manoscritto s’interrompe in un punto cruciale, ci furono alcuni che tentarono di completare la singolare narrazione che la compone, aiutandosi con quanto già sapevano sul carattere del suo autore.

Si ebbe dunque un seguito al manoscritto, ma non ha che l’interesse di una storia di fantasia, e ho creduto bene ignorarlo. L’ho sostituito con alcune lettere che mi sono parse più interessanti perché i fatti che riportano sono veri e completano alcune lacune molto rilevanti. Per quel che riguarda la relazione di Daniel O’Donovan, non ho, naturalmente, voluto correggere nessuna delle sue lungaggini, né le sue numerose ingenuità. Aggiungo che in questa relazione, così come nelle lettere, come ci si aspetterebbe, tutti i nomi sono di fantasia.

Di seguito, la traduzione di questi documenti.

MANOSCRITTO DI DANIEL O’DONOVAN

Fairfax, 6 settembre 1895

Non scrivo in previsione di un lettore. Farò per me solo la storia della mia infanzia e distruggerò questo manoscritto quando l’avrò finito. Mi trovo in un frangente difficile e mi sembra che per uscirne devo mettere per iscritto molte cose che fino a oggi non mi erano mai passate per la mente.

Avevo undici anni quando ho perduto, quasi contemporaneamente, mio padre e mia madre. Le disposizioni testamentarie stabilivano che mio zio mi prendesse con sé. Lo fece a malincuore e mi destinò la stanza peggiore della sua casa. Troppo grande perché la si potesse riscaldare facilmente in inverno, mentre d’estate quasi non vi si respirava. Inoltre, era situata all’ultimo piano, tra due stanze una delle quali era infestata e, per tale ragione, adibita a sgabuzzino. L’altra era occupata da un vecchio scontroso, il suocero dello zio. Nei tempi andati aveva combattuto sotto la bandiera del Sud e ripeteva di continuo che era una fortuna e un onore per lo zio condividere il medesimo tetto con un vecchio capitano del generale Jackson. Mio zio al contrario era dell’opinione che fosse il capitano a doversi rallegrare d’avere un posto alla tavola di un onest’uomo e un letto dove poter terminare i suoi giorni in pace. Da questo malinteso risultava che i due non si parlavano mai.

Andavo a letto alle nove di sera, ma non mi addormentavo mai subito e aspettavo che verso le dieci terminasse l’abituale vociare di casa, il rumore delle porte che si chiudevano una dopo l’altra. Durante i mesi estivi, ascoltavo dapprima la voce del capitano che tornava dalla sua passeggiata serale e importunava lo zio e la zia seduti sotto il porticato. Questo porticato era troppo angusto; bastava sistemarvi due poltrone per bloccare la porta d’ingresso. Immaginavo la zia alzarsi e spostare la poltrona con zelo rispettoso, perché venerava il padre. Era allora che il capitano diceva: “Buonasera, figlia mia”. Poi, uno stridio particolare mi avvertiva che passava vicino allo zio e lo obbligava a retrocedere un poco, strusciando la poltrona sul pavimento. Mai che venisse scambiata una parola tra suocero e genero.

Il capitano passava poi nella sala da pranzo, dove apriva le credenze, tagliava il pane, sbatteva i bicchieri uno contro l’altro. Dopo pochi minuti, si dirigeva verso la scala e, dopo aver urtato il piede sul primo gradino, la cui esistenza sembrava sorprenderlo sempre, cominciava a salire. Questo procedere era per me causa di spavento. Il capitano possedeva un passo tonante e cadenzato che invadeva la casa. Fino a quando non aveva raggiunto il primo piano, trovavo il coraggio di ascoltarlo; amavo figurarmi il capitano come un’apparizione ghignante. Per quanto potesse essere terribile, in effetti, un piano intero mi separava ancora da lui e provavo una sorta di piacere nella mia apprensione, ma, quando lo sentivo raggiungere il pianerottolo del primo piano e inciampare nel primo gradino della rampa successiva, che conduceva al mio piano, alzavo le lenzuola sopra la testa con un gesto convulso. Mi veniva sempre da pensare che potesse anche non essere il capitano, ma un’altra persona, venuta espressamente per tagliarmi la gola. Nel mio turbamento avvicinavo alle labbra un piccolo crocifisso di piombo che la zia mi faceva portare al collo. A quel punto, mi addormentavo.

Al mattino, il capitano entrava all’improvviso in camera, gridando: “In piedi!”. Era un vecchio alto e rigido con le spalle troppo larghe. I lunghi capelli bianchi scendevano in boccoli lungo i lati del viso austero. Gli occhi azzurri squadravano il mondo con uno sguardo di disprezzo. Un’antica ferita al collo gli impediva di parlare come avrebbe desiderato, così che non diceva pressoché nulla. Prima di gridare: “In piedi!” faceva un involontario movimento della mascella, come se avesse voluto mordere quella parola che non poteva articolare: ma non mi sognavo di riderne.

I suoi modi un poco mi spaventavano. Conservava, di giorno, qualcosa dell’aspetto fantastico che gli attribuivo la notte, perché il mio cervello deformava i suoi tratti appena aspri, e vi scorgevo crudeltà dove non rimaneva, forse, che un residuo della brutalità della sua professione. Spesso lo sentivo camminare in camera sua con lo stesso passo pesante e cadenzato che m’incuteva timore quando si faceva sera. Quando arrivava il caldo si sedeva di fronte alla finestra, su una poltrona di vimini, e si faceva vento lentamente con un giornale, emettendo di tanto in tanto esclamazioni così forti da distoglierlo dalle fantasticherie nelle quali si perdeva. Si alzava allora, tossendo in un modo tanto poco naturale da farmi sorridere, nonostante il mio turbamento. Sapeva che potevo sentirlo, e la cosa lo irritava. Un giorno, venne davanti alla porta della mia camera e gridò: “Daniel”. La paura mi paralizzò. Non risposi anche se mi alzai spostando la sedia. “Vattene”, gridò ancora. Uscii. Questa scena si ripeté così spesso che finii per abbandonare la stanza per tutta la giornata, e andai a leggere da un’altra parte.

La vista, dalla mia finestra, era oscurata dalla chiesa presbiteriana separata da casa nostra soltanto da un cortile e una viuzza. Mi sembrava che fosse ancora più vicina quando la vedevo dal mio letto, perché allora mi nascondeva completamente il cielo. Era costruita sul modello delle chiese di Londra. Notavo perfettamente, sotto il tetto in ardesia, le alte finestre ogivali, le imposte bianche socchiuse d’inverno, e la base del campanile, ingentilita da colonne corinzie, due per ciascun angolo. Questa chiesa m’intristiva e le sue pietre nere mi sembravano sinistre. Mi avevano raccontato di quando era stata distrutta parzialmente da un incendio nel corso del quale la guglia, a lungo consunta dalle fiamme, era infine rovinata, tutta fumante, sul tetto di una casa vicina. Incendiata a sua volta, questa casa era bruciata completamente nello spazio di poche ore; noi abitavamo quella costruita al suo posto. Così non osservavo mai la nuova guglia della chiesa senza terrore; se fosse precipitata a sua volta, sarebbe stato proprio in corrispondenza della mia stanza.

L’ultimo giorno dell’anno, a mezzanotte precisa, un fracasso straordinario mi destò di soprassalto. Si levavano canti, sommersi dal frastuono delle campane. Vidi allora la chiesa fiammeggiare. Una luce raggiante l’avvolgeva come una nuvola e la faceva sembrare tutta bianca e meravigliosa. Temetti allora che fosse improvvisamente avvolta dal fuoco e, nell’orribile terrore di morire di morte violenta, m’inginocchiai davanti alla porta e pregai con fervore perché mi fosse risparmiata la vita.

Poiché parlo della porta, aggiungerò senza alcuna ironia che si trattava della parte della camera che amavo di più. Dipendeva da due ragioni. La prima, perché secondo il desiderio della zia che era stata allevata a Providence e manteneva alcune superstizioni di quella zona dell’America, la porta della mia camera era divisa in quattro pannelli di grandezza diseguale e disposti in maniera tale che gli spazi che li separavano ricreavano la forma di una croce latina. La seconda, perché era sormontata da un’iscrizione in lettere gotiche decorate di rovi, che diceva, più o meno: Ricordati che in questa stanza c’è qualcuno che ti vede e ti ascolta in silenzio. Trovavo un singolare conforto in quelle parole dense di mistero.

La camera mi sembrava immensa. Ed era ancor più vasta per la monacale semplicità che regnava nell’arredamento. Un letto da campo, con la coperta grigia, una stuoia scolorita, un tavolo rotondo su cui la zia aveva posto una grossa Bibbia cattolica; poi, vicino alla finestra, una commode sormontata da uno specchio ovale, e nient’altro. Il parquet verniciato sembrava di marmo; le pareti erano intonacate a calce. Non aveva il camino ma durante le feste di Natale sistemavano un fornello a petrolio che emanava un odore disgustoso.

Lo zio non si occupava mai di me. Chiuso nel suo egoismo, viveva in una specie di adorazione perpetua di sé e trascorreva il tempo in quella che chiamava la sua biblioteca. Aveva battezzato così una piccola stanza confortevole ricavata in un angolo del mezzanino. Cespugli di oleandri la riparavano dai raggi del sole. Cataste di ciocchi si consumavano senza fine quando la temperatura diventava rigida. Mi fu concesso qualche volta di penetrare in quel luogo di delizie. Ricordo ancora che i piedi calpestavano un soffice tappeto scuro molto diverso dalla stuoia sfrangiata della mia camera. A destra e a sinistra del camino alla tedesca svettavano alte étagères dove schieramenti di libri antichi offrivano alla mia ammirazione lucide rilegature. Al centro della stanza, un grande tavolo rotondo di mogano sosteneva una lampada a sfera e un servizio da scrittoio che si riflettevano perfettamente sulle sue luminose venature.

In quell’ambiente che così tanto gli si confaceva, rivedo un ometto seduto su una grande poltrona capitonné, il viso rivolto verso di me, ma lo sguardo indirizzato verso i suoi libri: mio zio. Nel viso scarno e invecchiato non trovo nulla che rimandi a uno spirito generoso, niente che appartenga a un cuore caritatevole; ogni cosa esprime la diffidenza, la noia e l’amarezza di un solitario che detesta la sua solitudine. Il suo sguardo non si sofferma su nulla. Le sue labbra sottili sono sempre socchiuse come per lasciar spazio a qualche parola che non pronuncerà mai quando lo osservo, perché è incredibilmente timido. Spesso mette le mani sulle guance come per nascondere le sue profonde rughe parallele. I capelli ingrigiscono appena, ma i sopraccigli restano neri e ispidi. Si veste con cura e secondo la moda della sua giovinezza.

C’è stato un tempo in cui mi rivolgeva di buon grado parole pompose di cui non comprendevo il senso, sebbene le pronunciasse con una voce lenta ed enfatica. Posava il palmo della mano sul mio capo e mi diceva, dopo un lunghissimo discorso di cui mi sfuggiva la gran parte: “Magari, qui dentro c’è qualcosa per cui è valsa la pena allevarti seguendo buoni principi”. Mi congedava qualche minuto più tardi, interrompendosi nel mezzo di un periodo complesso, come se lo annoiasse troppo per dedicarsi a completarne il senso. Ignoravo sempre per quali ragioni mi facesse venire nel suo studio, non ne uscivo mai più istruito. Immaginavo che quell’uomo talvolta si stancasse dei suoi libri e delle carte che distribuiva sul tavolo rotondo, e che facendomi quelle prediche, si riposasse da un lavoro faticoso. Mi sbagliavo solo per quel che riguardava il lavoro. Lo zio, in effetti, si faceva un singolare puntiglio di non uscire mai dalla biblioteca, ma vi si annoiava a morte, e non lavorava affatto, se s’intende per lavoro uno sforzo continuativo. Percorreva la biblioteca in ogni direzione, fumando sigari; oppure si sedeva sulla poltrona capitonné, le gambe accavallate, un libro in mano, lo sguardo perduto oltre le pagine; potevo scorgerlo così dal giardino, nascosto dietro gli oleandri che crescevano davanti alla finestra. Poi, scarabocchiava a volte su una quantità di foglietti che gettava sul tavolo o lasciava cadere distrattamente a terra, attorno alla poltrona.

Appresi quest’ultimo dettaglio dalla zia, un giorno che ero andato a trovarla in camera sua. Andavo spesso a trovarla e credo che amasse quelle visite; io stesso mi trovavo bene in sua compagnia, anche se non nutrivo per lei alcun sentimento di vero affetto. Ero sempre certo di trovarla a ricamare accanto alla finestra, con un grande cestino rotondo, pieno di gomitoli di lana grigi e bianchi, sistemato accanto alla sua poltrona. Appena arrivavo, si metteva a parlare. Mi chiedeva come passavo il tempo e, senza attendere che rispondessi, si lanciava in un monologo interminabile. Quando le mancava il fiato, si sforzava di parlare mentre inspirava. Bassa di statura, sistemava uno sgabello sotto i piedi quando si sedeva. Immersi nel volto, rubizzo e paffuto, i piccoli occhi grigio chiaro non trasmettevano altra espressione che quella di un’avida curiosità. A volte passava il dorso della mano sulle labbra in un gesto rapido e guardando irrequieta attorno a sé, come per assicurarsi che nessuno l’avesse vista. Spesso affondava uno dei suoi lunghi spilloni nei capelli che portava raccolti in uno chignon sulla sommità del capo. Un paio di occhiali con la montatura d’argento segnavano le guance rotonde con le loro strette stanghette che la infastidivano e si riprometteva spesso, ad alta voce, di portarli dall’ottico. Quando li levava, abbassavo gli occhi, in un moto d’inspiegabile pudore. I suoi abiti erano di un tessuto scuro e troppo inamidato. Il corpetto strettissimo sembrava renderle difficile la respirazione; la gonna si spandeva tutt’intorno alla vita, solcata da piccole pieghe dai riflessi lucidi.

Ascoltavo senza annoiarmi la sua voce ciarliera che riversava nelle mie orecchie confidenze di ogni genere. La zia probabilmente dimenticava che non avevo che dodici anni e che la maggior parte di quello che mi diceva rimaneva per me quasi incomprensibile. Forse persino non mi chiedeva di comprendere, ma semplicemente di ascoltarla, e io l’ascoltavo volentieri. L’indifferenza di suo marito e la tetraggine di suo padre la condannavano a una solitudine che la faceva soffrire, ma che offriva al Creatore come la maggior mortificazione della sua vita, come diceva lei stessa reclinando la testa e abbassando le palpebre. Dubito tuttavia che sapesse in cosa questa solitudine le risultasse così faticosa, ma soffriva enormemente di non poter parlare quanto avrebbe desiderato.

Parlava di tutto, senza ordine né moderazione. Le parole le suggerivano idee, e i suoi discorsi erano così sconclusionati che non capivo mai a che punto fossimo, anche quando raccontava storie che potevo comprendere e che m’interessavano, pur se trattenevo piccoli dettagli che m’incantavano. Mi raccontava spesso alcune leggende irlandesi che mi colpivano per il loro carattere strano. Erano un miscuglio di stregoneria e di religiosità e facevo parecchia fatica a comprenderle, anche se mi riempivano di paura e mi procuravano brutti sogni. Di queste, una mi sembrava più curiosa e più terrificante delle altre. Era la storia di Frank Mac Kenna.

Questo Frank Mac Kenna voleva a ogni modo andare a cacciare la lepre una domenica mattina. Suo padre glielo aveva vietato, poi, siccome persisteva nel suo progetto, lo aveva maledetto in maniera spaventosa: “Voglia il Cielo che tu non torni vivo da noi, se vai a caccia il giorno del Signore”. Ma Frank non lo ascoltò e se ne partì con i suoi compagni. La zia mi spiegava che era stato fey, vale a dire spinto a morire da qualcosa d’inarrestabile.

Braccarono una grossa lepre nera che seguirono per tutto il giorno senza poterla raggiungere, perché la lepre era certamente d’origine satanica, e verso sera tutti i ragazzi abbandonarono la caccia e ritornarono alle loro case con l’eccezione di Frank Mac Kenna che scomparve tra le montagne sulle tracce della lepre.

Sempre speravo che Frank Mac Kenna venisse salvato alla fine, ma sempre moriva della medesima morte misteriosa e sempre lo ritrovavano in montagna steso a terra, al centro di un cerchio che aveva tracciato col suo bastone. E la zia aggiungeva che aveva il cappello calato sugli occhi e il messale aperto e posato sulla bocca. Lo riportavano a casa in barella. In tal modo le parole del padre erano state esaudite.

La zia mi parlava spesso dell’Antico e del Nuovo Testamento che aveva letto e riletto molte volte. Mostrava una predilezione molto marcata per i passi più spaventosi delle Scritture. Dall’Antico Testamento per esempio sceglieva la storia dei bambini che un orso aveva divorato perché si erano burlati di Eliseo; dal Nuovo la storia di Anania e Saffira.

Leggeva molto i giornali e senza considerare la mia estrema giovinezza mi parlava di tutti i governanti d’Europa e mi diceva quello che pensava di ciascuno di loro. Mi stupivo allora che potesse pronunciare così tante parole che per me non avevano alcun senso compiuto. Talvolta parlava degli Stati Uniti, ma molto raramente, e rimarcavo che non diceva mai niente a proposito della guerra tra gli Stati del Nord e del Sud. Un giorno comunque mi raccontò che pochi mesi dopo la fine della guerra, quando le famiglie più ragguardevoli della città si trovavano in rovina, vide le signore mettersi a fare dolci nelle loro cucine e venderli ai passanti attraverso le grate delle finestre. Ma, di solito, taceva a proposito di tutta quell’epoca di cui si parlava così tanto per ogni dove. Non osavo domandarle la ragione del suo silenzio, ma mi colpiva molto, e ricordo che provavo a spiegarmelo in mille maniere. Più tardi capii, o credetti di capire.

La parte più rilevante di quello che diceva mia zia verteva attorno ai difetti dello zio e all’estrema pazienza che bisognava sviluppare per vivere cristianamente con lui.

Era ossessionata da quell’argomento. Non ho più, sfortunatamente, il ricordo distinto di quello che mi riferiva riguardo al carattere dello zio, perché, a quell’età, non ritenevo nulla delle osservazioni d’ordine morale e soltanto i fatti concreti si fissavano nella mia memoria.

La zia amava la precisione fino alla pignoleria, e si applicava a offrire del suo soggetto un ritratto di una rigorosa verità, ma ignorava le leggi della composizione e mescolava tra loro gli elementi più disparati. Si beava nel dire che lo zio era molto cambiato dai tempi del suo matrimonio, e il ritratto di suo marito venticinquenne serviva da sfondo a una descrizione severa della realtà presente. Non era che la caricatura di sé stesso e lei non aveva mai visto un altro uomo diventare così brutto nello spazio di una dozzina d’anni appena. Detestava ogni cosa che rendeva mio zio mio zio: la sua faccia itterica, le mani tremolanti, il modo di tossire prima di parlare ai domestici, l’abitudine di passare la mano sul dorso di un libro prima di aprirlo e, a proposito di libri, domandava ironicamente a una figura immaginaria – perché sembrava dimenticare la mia presenza – dove poteva procurarsi il famoso libro che lo zio s’era ripromesso un tempo di scrivere. Raccontava che il mattino, quando lo zio dormiva ancora (dormiva fino a tardi), lei penetrava con una domestica nella sua biblioteca. Lì raccoglieva tutti i fogli di carta che lui ammonticchiava sul tavolo e intorno alla poltrona, e tutto quello che lei non poteva leggere o che le sembrava di carattere malsano lo metteva da parte. Immagino che lo portasse nella sua stanza e che lo bruciasse col rancore di sentirsi, in qualche modo, esclusa dalla vita e dalla confidenza dello zio. Aggiungeva ancora che, protestante quale era, e dei peggiori (lei invece era cattolica), non poteva scrivere nulla di edificante. Un’altra volta, arrivò a dire che in politica, non più che in materia di religione, non era stato dalla parte giusta, e stava per dire di più, quando improvvisamente si rese conto che l’ascoltavo; si morse le labbra e si tacque immediatamente. Poi, diceva molto spesso che le bastava vederlo entrare in una stanza perché venisse presa dalla tentazione di schiaffeggiarlo, e che si costringeva a recitare mentalmente gli atti d’amore e di carità.

Questo discorrere disordinato e composto da tante cose diverse mi sorprendeva molto. Io ragionavo poco riguardo al carattere delle persone, ma sentivo confusamente che quello della zia aveva qualcosa di strano, e facevo fatica a evitare una certa diffidenza nei suoi confronti.

Non diffidavo meno di mio zio; in lui, come nella zia, c’erano troppi segreti e avevo paura, soprattutto, di quel che lei non mi diceva su di lui. Il suo linguaggio, difficile a intendersi, mi rendeva inquieto, e inoltre aveva una voce nasale molto sgradevole.

I pasti ci riunivano due volte al giorno. Lo zio, che non sembrava apprezzare nessuna pietanza, rimaneva con noi pochi minuti e tornava ai suoi libri dopo aver bevuto un bicchiere di latte e aver spilluzzicato da uno o due piatti con un’espressione di disgusto.

La zia parlava e mangiava con pari piacere. Si sedeva a un lato del tavolo, di fronte al padre che inghiottiva il cibo senza pronunciare una parola e, con ogni evidenza, senza ascoltare.

Sono cresciuto in mezzo a queste tre persone senza che nessuna di loro si prendesse la briga di mandarmi a scuola, ma la solitudine mi aveva donato l’amore per i libri e bene o male imparavo tutto quello che oggi so. La zia, che mi vedeva sempre con un libro in mano, lodava il mio essere tanto studioso, ma non si sognava mai di chiedermi cosa leggessi. Incontravo qualche volta lo zio nel salone dove amavo leggere. Non si tratteneva mai dal prendere in mano il libro che tenevo, per restituirmelo, dopo aver esaminato la rilegatura e il frontespizio, dicendo: “Tutti i libri sono buoni”. Queste parole m’incantavano e seguitavo serenamente le più disparate letture.

Verso la fine del mio quindicesimo anno, la zia morì. Non la piansi, ma improvvisamente mi mancò. Il pomeriggio stesso della morte mi recai nella camera dove abitualmente lavorava e mi sedetti sulla sua poltrona. Vidi gli oleandri che facevano ombra alla finestra dello zio, poi il cancello del giardino e al di sopra del muro di mattoni i sicomori della piazza. Rialzandomi, rovesciai il cestino dove la zia metteva la lana: provai un po’ di tristezza nel vedere rotolare tra i miei piedi i gomitoli grigi che conoscevo così bene e li osservai qualche minuto senza potermi risolvere a rimetterli a posto.

Il capitano non andò al funerale della figlia, e il giorno successivo dormii fino a tardi senza che mi svegliasse. Qualche tempo dopo venne nella mia camera dove avevo preso l’abitudine di leggere dopo la morte della zia. Sembrava contrariato nel vedermi e si ritirò immediatamente. La sera, prima di addormentarmi, cercai la Bibbia per leggere un capitolo com’era mia abitudine, la cercai invano e, senza osare chiederlo al capitano, sospettai che me l’avesse presa. Era appartenuta a lungo alla zia.

Lo zio non aveva per nulla mutato maniera di vivere e si comprendeva, nel vedere la persistenza di tutte le sue piccole manie, quale posto insignificante la moglie avesse occupato nella sua vita. Dal salone dove leggevo, lo sentivo camminare da un capo all’altro della sua biblioteca, come aveva fatto per anni. Adesso ne usciva talvolta per venirmi a parlare e notai che diventava più cordiale. Un giorno mi fece venire nella sua biblioteca dove non ero più entrato dalla morte della zia. Ci sedemmo al tavolo rotondo e mi mostrò alcune incisioni che gli avevano spedito dall’Europa. M’incantavano tutte, ma ce n’erano alcune più belle delle altre: vedute ottiche dai colori vividi si alternavano alle Carceri del Piranesi; queste ultime mi colpivano enormemente e lo zio me ne regalò una. Infine si alzò ed estrasse dalla tasca un biglietto che aprì guardandomi. Capii il senso della sua affabilità; voleva leggermi qualcosa; era l’epitaffio della tomba della zia. Era stato concepito come segue:

ELIZABETH DRAYTON,

MOGLIE DI

CHARLES-EDWARD DRAYTON,

NATA L’8 OTTOBRE 1833

MORTA IL 15 AGOSTO 1894

IN QUESTA CITTÀ CHE NON ABBANDONÒ MAI

Sotto l’ombra ella dorme,

nel segreto dei canneti

(Giobbe, XL, 16).

Lo zio sembrava fiero della citazione: “L’ho riferita a una ‘lei’ e non a un ‘lui’, ma non importa”, spiegò. “La frase descrive alla lettera il cimitero dove riposa tua zia”. Era vero; il cimitero di Bonadventure era in effetti affacciato sull’acqua, in più era molto ombreggiato; eppure, quanto poco il versetto della Bibbia era nello spirito della povera donna! L’ombra, il segreto! Non si poteva sceglier peggio.

Adesso andavo tutti i giorni dallo zio. Mi mostrava i suoi libri e m’insegnava a distinguere le edizioni pregiate da quelle dozzinali; senza rendermene conto, prendevo gusto alla bella carta, alle legature decorate, a ogni aspetto esteriore dei libri. Nel giro di una mezz’ora lo zio finiva sempre per estrarre dalle tasche qualche piccolo manoscritto di cui mi leggeva dei frammenti. Il più delle volte si trattava di lunghe e bizzarre riflessioni su quel che chiamava la follia delle religioni, e traduzioni di poesie francesi ove era trattata la disperazione della terra e l’indifferenza del Cielo. Ascoltavo senza dir nulla queste frasi, scosso dalla loro ironia violenta e blasfema, perché ero religioso per natura, ma lo zio non sembrava accorgersi per nulla del mio dispiacere e continuava la lettura con un’aria estasiata. S’interrompeva a volte per spiegarmi quelli che altro non erano che frammenti di un’opera imponente che si proponeva di scrivere un giorno. Mi sembrava allora di scorgere la zia che cercava a terra e sulla scrivania i pezzetti di carta che lo zio imbrattava con le sue empietà per gettarli nel fuoco, al mattino presto prima che lui scendesse dalla sua camera.

Il capitano non mangiava più con noi. Appresi che frequentava un ristorante gestito da una famiglia di cattolici dove non si beveva che vino annacquato. Non mi svegliava più come un tempo, e poco alla volta arrivai a dimenticarmi della sua esistenza.

Era passato un mese dalla morte della zia quando ricevei un giorno un biglietto portato a mano. Conteneva due righe di una scrittura che non conoscevo: Ho vissuto felice nella casa di mia figlia. Me ne vado ora per non vivere in quella di tuo zio. Diglielo.

Non lo dissi allo zio che sembrava non rammentarsi più del capitano e non si stupì una sola volta della sua assenza, ma infilai il biglietto in uno dei miei libri.

Vissi un anno ancora in una solitudine quasi totale, a parte i brevi momenti che passavo con lo zio. Questi non vedeva nessun altro all’infuori di me e, poco alla volta, con la sua presenza e il suo conversare, mi comunicava qualcosa della sua natura selvaggia e cupa. Ho già detto che non andavo a scuola, perché mio zio aveva teorie particolari su questo argomento, così come su molto altro. Uscivo poco; la cittadina dove abitavamo non mi sembrava interessante, forse perché non ero capace di scoprirne la bellezza e perché non avevo l’opportunità di paragonarla ad altre città. Tutto il mio universo si limitava così a pochi luoghi ombrosi davanti a un piccolo porto abbandonato. Mi rendevo conto comunque di quanto la mia vita fosse noiosa e deludente e l’epitaffio che lo zio mi aveva letto trovava in me una strana eco. Mi sembrava, in qualche modo, che riposassi anch’io all’ombra e nel segreto, e diventavo sempre più triste mentre questa idea si radicava nella mia mente.

Il mio sedicesimo anno passò in un’inquietudine che non faceva che crescere. Le conversazioni con lo zio mi sembravano insulse e avevo orrore per i piccoli fogli che estraeva dalle tasche per leggermeli. Riflettendo molto io stesso, mi sentivo capace di oppormi a questo ometto vecchio prima del tempo, e mal sopportavo la lettura delle sue dissertazioni. Per evitarlo, mi misi a fare lunghe passeggiate. Andavo, preferibilmente, ai margini della città, oltre i giardini pubblici, fino al porto ove nessuno si spingeva. Si vedevano sempre le stesse barche da pesca oscillare sull’acqua inquieta che faceva stridere le loro gomene. Mi sedevo su un blocco di pietra all’ombra di un muro coronato d’arbusti e guardavo tra gli alberi il moto dell’acqua sotto il cielo. Cento domande si affacciavano alla mia mente. Mi chiedevo che cosa sarebbe stato di me, dove mi avrebbero condotto le mie predilezioni per la lettura e la solitudine, di cosa sarei stato capace, una volta morto lo zio lasciandomi solo a cavarmela. Sapevo che non era ricco e che mi aveva accolto malvolentieri; avevo per lui una specie di riconoscenza, ma era una riconoscenza forzata che mi era molto sgradita. Allora mi tornavano alla mente le parole che avevo sentito pronunciare una volta da un ecclesiastico inglese. Stava conversando con la zia e disse, carezzandomi i capelli: “Credetemi. Amerà la teologia, e lo sapete”, aggiunse ridendo, “la nostra è la più bella professione del mondo”. Queste parole mi sembravano dolci anche a un’età nella quale le potevo capire a stento, e ancora adesso hanno per me una specie di fascino inesprimibile.

Di ritorno da una delle mie passeggiate, ricevetti un giorno un secondo biglietto del capitano. Vienimi a trovare, questo pomeriggio, scriveva. Ho qualcosa da dirti. E m’indicava una strada situata all’altro capo della città. Ci andai. Il capitano aveva una camera al primo piano di una piccola abitazione dipinta di grigio e ornata, su tutta la lunghezza della facciata, di edera e di vite americana. La camera era grande e arredata in maniera spartana con un letto a colonne, una seggiola in legno chiaro e un tavolo rotondo simile a quello che aveva lo zio. Su questo tavolo riconobbi la mia Bibbia, posata accanto a una lampada. Un’altra seggiola era sistemata in un angolo del balcone al quale si accedeva direttamente da una grande porta finestra. Era lì che il capitano sedeva quando entrai.

Mi fece piacere vederlo e tuttavia non lo amavo affatto. Era irascibile e la sua voce autoritaria mi dispiaceva. A ogni modo, non aveva lo sguardo inquieto dello zio. Quando mi vide, venne verso di me e mi disse bruscamente, mostrandomi la camera con un gesto teatrale: “Vedi questa camera. Do cinque dollari al mese a mia cugina Middleton, per avere il diritto di chiamarla la mia camera”. Si fermò un istante e riprese: “Do altri dieci dollari all’oste dal quale mangio tutti i giorni. In tre anni non mi resterà più niente del denaro che avevo messo da parte, ma spero di essermene andato molto prima di allora”.

Non sapevo che cosa pensare di quel discorso e cercai qualcosa da dire quando mi prese la mano e mi domandò: “E te? Tu vivi sempre da tuo zio?”. Mi sentii arrossire e risposi: “Sì” con una voce appena percepibile. Il vecchio mi guardava senza lasciarmi la mano; mai uno sguardo più duro e freddo s’era posato sul mio viso. “Ascolta”, mi disse infine, “se vuoi lasciare la casa di tuo zio, io ti aiuterò. Andrai a trascorrere tre anni all’università di Fairfax dove sono stato allievo. Vuoi?”. Rimasi imbambolato dallo stupore. Attese un istante la mia risposta, poi, senza permettermi di riflettere più a lungo, concluse rapidamente: “Faccio conto che dici di sì”.

Pronunciando queste parole mi mise in mano un piccolo rotolo di banconote che aveva fermato con uno spago. “Questi, spiegò, ti basteranno per un anno. Prenderai il treno del mattino e non porterai con te che l’indispensabile. Mi sembra che mia figlia ti abbia fornito di tutto quello che ti bisogna. Non prendere nient’altro”. Con la forza mi ripiegò le dita sui biglietti che tenevo sul palmo aperto, poi mi batté sulla spalla con un gesto amichevole cercando di sorridere e mi spinse verso la porta. Uscii.

Presi una strada, poi un’altra. In fondo a questa m’inoltrai in una via che seguii per buon tratto. Suonarono le undici. Eravamo a settembre e il vento di mare aveva ingiallito le foglie. Faceva freddo. Volevo passeggiare per riflettere meglio. Stringevo il denaro dentro la tasca dei pantaloni. Lo dovevo tenere? Dovevo restituirlo? Dovevo restare o partire?

Il caso della passeggiata mi condusse infine ai cancelli di Bonadventure. Il cimitero è situato lungo il fiume, molto prossimo all’imboccatura dell’estuario dove si ascolta il monotono rumore delle onde in lotta contro la corrente. Querce giganti intrecciano i loro rami sopra i viali silenziosi. Scoiattoli giocano sulle tombe e lungo le liane che scendono fino a terra. Non esiste luogo più dolce e lontano da ogni pensiero malinconico.

Senza riflettere sulla via che stavo prendendo, mi spinsi lungo uno dei sentieri che portavano al fiume. I pensieri mi occupavano completamente. Non sapevo cosa dovevo fare. Sicuramente ero tentato di partire, ma lasciare la casa dello zio senza il suo permesso non mi condannava forse a non poterci rimettere più piede? Su chi potevo contare allora, se lo zio mi abbandonava a me stesso? Sul capitano? Ero certo che mi aveva donato gran parte dei suoi averi e che alla fine del mio primo anno mi avrebbe detto di guadagnare da me il denaro che mi serviva per completare gli studi. Sapevo bene che molti ragazzi poveri, nelle università del Nord, si dedicavano fuori dal loro orario di studio a piccoli mestieri per mantenersi. Avrei dunque dovuto contare su di me, ma che avrei fatto? Impartire lezioni private? Sorrisi solo all’idea. Non sapevo quasi nulla e tutto il mio sapere si riduceva a una conoscenza molto precisa delle Scritture e a qualche nozione generale di letteratura. Tuttavia bisognava che prendessi una decisione e subito; quest’idea mi si presentò con tale forza che mi fermai. Mi resi conto che la mia distrazione mi aveva condotto in un boschetto deserto dove si vedevano, attraverso gli alberi, i grandi canneti neri che si chinavano sull’acqua fangosa. Nel silenzio risuonava il canto variato di un tordo che s’interrompeva tutto a un tratto, deluso dai suoi inutili richiami. Non mi ero mai inoltrato in quel luogo; ignoravo persino che vi fosse tanta tranquillità e tanta bellezza in quel grande cimitero. Rimasi un istante incantato da quella solitudine e formulai mentalmente il progetto di ritornarvi, quando mi sorpresi a dire a voce alta, e quasi mio malgrado: “Non ritornerò più perché io domani parto”.

In quel preciso momento, vidi qualcuno che si dirigeva verso di me. Uscii subito dal boschetto e, seguendo un’altra via, raggiunsi ben presto il viale principale del cimitero.

Rientrato a casa, salii in camera mia. Prendere una decisione era qualcosa di totalmente nuovo per me e preparai il mio viaggio con grande eccitazione. Riempii la valigia di tutto quello che possedevo; una cosa rapida, perché non avevo che pochi effetti personali e qualche libro; poi scrissi a mio zio per avvisarlo che abbandonavo la casa e che lo ringraziavo, come si conveniva, di tutte le sue premure. Chiusi la lettera e la misi subito nella buca della posta.

Rividi lo zio a cena qualche ora più tardi. Era come al solito silenzioso e mi divertii a fantasticare il breve viaggio della mia lettera che passava di mano in mano per giungere fino a lui, proprio quando, seduto di fronte a me, assaggiava disgustato una pietanza. Se ne andò poco dopo e rimasi solo, ma non appena mi alzai da tavola, tornò verso di me e mi pregò di trascorrere qualche istante con lui nella biblioteca. Lo seguii.

Sembrava più pensieroso del solito e il suo sguardo era più assorto. Subito estrasse un foglio dalla tasca e si mise a leggere senza alzare gli occhi verso di me. Era vicino alla lampada che aveva sistemato su un angolo del caminetto. Io ero seduto al tavolo, era il mio posto assegnato. Leggeva rapido e indistinto, ma c’era nelle sue frasi un suono più armonioso che mi sorprese e mi fece credere che avesse copiato da un libro il brano di cui mi dava lettura. Dopo un istante estrasse un fazzoletto dalla tasca e si deterse la fronte borbottando qualche cosa che non compresi. Me ne scusai. Allora disse a voce più alta, e voltandosi un poco: “Puoi scrivere qualche appunto che voglio dettarti?”. Feci per chiedergli carta e penna, quando lo sguardo cadde su un grande foglio sistemato davanti a me tra una penna nuova e un calamaio.

Mi rallegrai allora dell’imminenza della mia partenza. Lo zio s’era messo a dettarmi una frase molto lunga che scrivevo senza comprenderne il senso. Alcuni ricordi mi tornavano alla memoria. Mi rammentai la voce e lo sguardo dello zio quando mi parlava dell’opera importante che meditava di scrivere più tardi, la sua maniera di dirmi che più tardi mi sarei potuto servire di tutti i suoi libri, perché sino ad allora non mi aveva permesso di leggere che quelli del salone. Che progetto stava dunque tramando? Perché non me lo svelava se dovevo svolgervi qualche ruolo? Detestavo la sua timidezza che interpretavo volentieri per ipocrisia. In quel medesimo istante mi sembrava del tutto odiosa e, mosso dal rancore e dal disprezzo, scrissi nel mezzo di una frase: No, zio; io non sarò mai il vostro segretario.

Infine si fermò e mi pregò di leggere quel che avevo scritto. Sin dal primo paragrafo, fui bloccato dalla sorpresa e domandai allo zio che cosa mi stava facendo leggere. Mi rispose, con una semplicità che incrementò il mio stupore, che si trattava delle prime parole della prefazione alla sua opera. Gli credei appena, perché quei periodi mi sembravano eccellenti, e non si conciliavano in alcun modo con le miserie che generalmente mi leggeva. Ancor oggi sospetto che avesse semplicemente plagiato qualche autore famoso. Che bella pennellata si aggiungeva al suo ritratto.

Lessi il foglio sino alla fine, omettendo, ben inteso, la piccola frase che io stesso avevo inserito. Lo zio mi ascoltava con un’aria estasiata, e quando ebbi finito la lettura, mi pregò di chiudere il manoscritto in un cassetto che m’indicò. “È lì che metto le pagine definitive del mio lavoro”, disse come per farmi apprendere da subito ogni dettaglio del mio nuovo incarico. Il cassetto era pieno per metà, in effetti, di carte coperte da una scrittura incerta. Quella che aggiunsi era, non per vantarmi, di una mano più precisa e più ferma.

Lo zio non mi trattenne. Dopo avermi ringraziato mi augurò la buona notte, ma lo fece con un tono così austero che sembrava quasi un addio e mi domandai con inquietudine se fosse a conoscenza del mio progetto. Riflettendoci, era impossibile, ma non accade di notare un’aria d’intesa tra persone che non possono sapere quel che succede attorno a loro e che agiscono e parlano tuttavia come se ne fossero consapevoli? Pronunciano alla leggera parole che credono senza importanza e si scopre che quelle parole vanno al cuore stesso della questione che esse ignorano. Nel momento in cui aprii la porta, lo zio disse con voce seria: “Spero che tu sia felice con me, Daniel”.

Mi voltai di scatto e vidi che sorrideva, ma non trovai nulla da replicare. Fece un gesto con la mano e si sedette al tavolo. Uscii.

Di buon’ora, l’indomani, chiusi la valigia e partii. Lo zio dormiva ancora. Era il momento che avevo stabilito, anche se il treno che dovevo prendere non era previsto che molto più tardi. Calcolai che la mia lettera sarebbe giunta allo zio pressappoco all’ora della mia partenza. Quest’idea che mi aveva mosso alla vigilia mi rendeva ora pensieroso, e mi rimproverai alcuni particolari della mia condotta. Non avevo forse ingannato lo zio? Si ha un bel dire, una persona a cui si mente, e io avevo mentito, diviene una specie di giudice e ingigantisce agli occhi del mentitore. Lo avvertii molto vivamente, ma il viaggio dissipò subito quella tristezza e mi abbandonai completamente al piacere di sognare una felicità sconosciuta guardando dal finestrino paesaggi che osservavo per la prima volta. Nel pomeriggio dell’indomani, raggiunsi la città di Fairfax.

È costruita nel fondo di una vallata e appare all’improvviso, dietro una catena di colline che la nasconde come un sipario. L’attraversa un fiume profondamente incassato. Tutte le strade sono ornate di alberi e lastricate di mattoni rosa, ma le case si nascondono dietro piccoli giardini con piante di bosso. È una città severa e silenziosa, molto diversa dalla mia natale. Non si vede nessuno riposarsi sotto i portici, a farsi vento nella calura del pomeriggio. Si direbbe che gli abitanti non escono mai e che i viali sono sempre deserti.

Presi una vettura che faceva servizio tra la stazione e l’università. Attraversò la città e si fermò ai margini di un grande parco cinto da alberi. Sopra il cancello lessi un’iscrizione in lettere di ferro: Apprenderete la verità e la verità vi renderà liberi. Presi la valigia e scesi.

Con l’estremità della frusta il cocchiere m’indicò un edificio di cui si scorgeva la sommità tra gli alberi, in fondo al parco. “Non avete che da spingere il cancello e andare sempre dritto”, disse, “ma se venite per seguire i corsi, ne avete di tempo. Non riprendono che tra due settimane”.

Mi sentii arrossire. Non era valsa la pena di far così in fretta per arrivare quindici giorni prima di tutti. Che avrei fatto durante quei quindici giorni? Senza dubbio il mio viso tradiva la mia confusione, perché il vetturino, un ragazzo vestito pressappoco come un contadino, mi gridò nel rumore della vettura che già ripartiva: “Volevo mica offendervi!”.

Gli voltai la schiena e superando il cancello, imboccai un viale. Alcuni scoiattoli vennero saltellando fino ai miei piedi, e mi guardarono senza paura, nell’attesa, immagino, delle leccornie che si era usi gettare loro. Sopra la mia testa, a un’altezza vertiginosa il vento soffiava con violenza attraverso i rami. Camminavo in fretta. Avevo l’impressione d’essere spiato dalle case ai bordi del parco, dall’altro lato della via. Raggiunsi infine l’edificio che il vetturino m’aveva mostrato da lontano.

Pochi minuti di passeggiata bastarono per farmi conoscere l’intera università. Si sviluppa in due grandi edifici costrui­ti nel gusto dell’antichità e sistemati uno di fronte all’altro, alle due estremità di un immenso spiazzo erboso di forma rettangolare. Due file di piccole case si allineano parallelamente a questo prato e sono separate da una galleria coperta. Infine, grandi alberi di diverse specie crescono un po’ per caso, all’interno della zona recintata.

Feci il giro del prato e tornai verso il più grande dei due edifici, quello che avevo scorto dal cancello. Era una copia del Pantheon di Roma, ma costruito in mattoni, a eccezione delle colonne che erano di marmo bianco. Una larga terrazza lo circondava da ogni parte e dominava, da un lato, la città che s’intravedeva tra gli alberi, dall’altra una vasta distesa di prati e boschetti, percorsa da una strada che portava alle colline. Mi sedetti sulla balaustra che dava verso la città e mi misi a riflettere. Dovevo passare quindici giorni in una città dove non conoscevo nessuno. Che avrei fatto? Non dovevo per prima cosa impegnarmi a trovare una camera? Ma il pensiero di andare bussando alla porta di una casa sconosciuta non mi piaceva e però sapevo che avrei finito per farlo. Tuttavia il desiderio di ritardare quanto più possibile quel momento spiacevole mi suggerì un’idea che trovai eccellente. Avrei passato la notte in un albergo che avevo visto vicino alla stazione, in modo che non avrei più pensato alla mia camera fino all’indomani. Poi, poco alla volta, avrei preso informazioni sulle molte pensioni attive in città. Feci dunque per andarmene quando vidi qualcuno che si avvicinava a me. Misi la mano sulla valigia e rimasi immobile.

Lo sconosciuto mi salutò chinando il capo. Era alto e vestito con molta semplicità di un abito blu scuro, fuori moda. Il viso era duro e volitivo. Appariva più anziano di me, e sulle prime credetti di conoscerlo senza potermi ricordare dove l’avessi visto.

Mi stupii di non averlo sentito arrivare. Ero inquieto e felice al tempo stesso. Sebbene il sole picchiasse sulla terrazza, c’era qualcosa di misterioso nel silenzio di quel luogo solitario. Io sono portato alle fantasticherie più singolari. Per un istante pensai d’essermi sbagliato, e che non ci fosse nessuno di fronte a me.

Tuttavia chinai il capo, anch’io. Quando mi fu vicino, il giovane si fermò e mi disse:

“Immagino che voi siate qui in anticipo di due settimane e che l’avete appena saputo. Forse mi sbaglio?”.

Feci un cenno col capo.

“L’ho compreso senza difficoltà”, riprese, “perché sono nella medesima situazione. Ma vedo che voi non avete nemmeno trovato una camera”, disse guardando la mia valigia. “Neanch’io. Volete che ne cerchiamo una assieme?”.

Non risposi; e lui continuò:

“Siamo arrivati così in anticipo che dovremmo trovare le più belle della città. Vi consiglierei di sceglierne una vicino all’università”.

Esitai un istante. Mi sembrava di colpo che molte cose dipendessero dalla mia risposta, ma lo sconosciuto aveva uno sguardo sincero, che mi convinse. Per di più, ero felice di trovare qualcuno tanto gentile in un luogo dove non conoscevo nessuno. Lo ringraziai e, prendendo la valigia nella destra, saltai a terra.

Speravo segretamente che s’incaricasse di tutti i piccoli negozi che io detestavo e gli domandai se conoscesse bene la città, se avesse idea di qualche alloggio. Mi rispose di no.

Ridiscendemmo verso il cancello dove lesse l’iscrizione ad alta voce, aggiungendo, come se quel che diceva fosse il seguito del versetto che aveva letto: “E tale verità non si trova così facilmente come voi sembrate credere, e neppure nella maniera nella quale l’intendete”. Non dissi nulla; temevo che si mettesse ad affermare cose spiacevoli riguardo a una parola che amavo molto e che mi avrebbero allontanato da lui. Ma tacque e risalimmo in silenzio un viale dove erano allineate piccole case grigie che s’intravedevano dietro i giardini. Molte recavano un cartello su una delle colonne del portico. C’era scritto: Camere in affitto.

Spinsi il cancello di uno di quei giardini dopo aver discusso qualche minuto col mio compagno. Il problema di prendere una decisione nell’immediato non si poneva, tutte le case del viale erano costruite secondo uno stesso modello. Lo dissi ad alta voce, forse per guadagnare tempo. Poi cercai di far sì che il mio compagno entrasse per primo e mi misi a camminare dietro di lui, ma sembrò comprendere i miei maneggi e mi disse, in maniera abbastanza brusca: “Sarete voi a parlare, naturalmente, perché si tratta della vostra camera. Quanto a me, ne prenderò una in città”. Queste parole mi offesero. Vidi che aveva compreso la debolezza del mio carattere e che era deciso a non curarsene.

Suonai. Ci aprì, dopo una lunga attesa, una donna anziana, molto rigida e imponente, vestita di un abito di tessuto nero e che portava sul capo una cuffia dai lunghi nastri. Il suo aspetto era così severo che fui preso dalla timidezza e le parlai con voce impercettibile. Mi ascoltò senza interrompermi, poi, dolcemente, mi disse: “Devo intendere che siete studente e che volete una camera?”. Arrossii e risposi: “Sì”. Che cosa pensava il mio compagno della mia audacia? Non osavo guardarlo e lui non diceva nulla.

L’anziana signora ci condusse al primo piano ed entrò per prima in una grande camera dove aprì subito le persiane. I platani nascondevano la strada; una luce incerta batteva sul parquet annerito e lucido. Si vedeva in un angolo un letto a colonne e in un altro un tavolo molto semplice e una sedia impagliata. Ogni cosa sembrava di una pulizia meticolosa, ma l’avrei presa comunque anche se non fosse stata così ben tenuta. Avevo voglia di concludere. “Molto bene”, dissi a mezza voce. “Non le manca nulla”, rispose la vecchia signora che rimaneva al centro della stanza, con le mani giunte. “Questa camera andrà benissimo”, le dissi dopo un istante di silenzio. Lei annuì: “Il prezzo è di dieci dollari, più quindici dollari per i pasti”. Feci a mia volta un cenno d’assenso, e posai la valigia sulla sedia.

“Ceniamo alle sei del pomeriggio”, riprese la vecchia signora, “colazione alle otto, pranzo alle due. Al mattino sarete svegliato alle sette”. Uscì senza aspettare la mia risposta e chiuse la porta con eccessive precauzioni.

“Allora”, disse il mio compagno che non aveva mai aperto bocca durante tutta la breve scena nella quale avevo mostrato tanta poca decisione, “siete soddisfatto?”.

Ero molto contento, ma ero sbalordito che tutto si fosse svolto così rapidamente, e malgrado il mio grande esitare, in maniera tanto semplice. Del resto, da quando avevo abbandonato la casa dello zio, non avevo incontrato un solo ostacolo ai miei progetti. E invece mi aspettavo molte difficoltà perché mi sembrava normale che ne dovessi incontrare. Rimasi molto stupito che bastasse così poco per cambiare del tutto il corso della mia vita e darle un barlume d’indipendenza. Non avevo forse ora una camera tutta per me?

Rimanemmo in quella camera fino all’ora di cena. Disfeci la valigia mentre il mio compagno, seduto sulla sedia, mi osservava. Di tanto in tanto mi faceva domande sui miei gusti e le mie occupazioni, ma in una maniera così franca e discreta, che mi sarei sentito maleducato a non rispondergli. Spesso quel che mi chiedeva mi sembrava futile, e mi trattenevo dal sorridere di quel che consideravo una grande ingenuità. A mano a mano che li estraevo, mi domandava di tutti gli oggetti che si trovavano nella valigia e voleva sapere se li avevo da molto tempo, se vi ero affezionato, se preferivo questo o quello. Il suo tono non mi dispiaceva. Ero sorpreso e colpito che s’interessasse così tanto a me, e mi piaceva indugiare in particolari anche quando non me li aveva chiesti.

Quando tutto fu sistemato (dopo che, con un gesto d’istintiva prudenza, avevo fatto scivolare in una tasca della giacca il rotolo di banconote) mi accorsi che cominciava a imbrunire e che non si vedeva quasi più nulla. Feci per accendere una lampada posata sul tavolo, ma era vuota, e non trovai che una candela su un candeliere di stagno. Il mio compagno non diceva più nulla, ma indovinavo che mi osservava; provai una sorta di imbarazzo e non mi sentii a mio agio che quando la luce, per quanto flebile fosse, si mise a splendere tra di noi. Infine, si alzò e disse: “Non vi è passato per la mente di chiedere il mio nome, ma poiché mi rivedrete spesso ed è bene che sappiate quale nome attribuirmi, chiamatemi Paul”. Pronunciando queste parole mi strinse la mano e se ne andò. Lo vidi andarsene senza rimpianti perché avevo desiderio di rimanere solo e mi dedicai a sistemare sul caminetto i libri che avevo portato con me. C’era il Frankenstein di Mary Shelley, Il vampiro di Byron, alcuni romanzi di Hawthorne e qualche traduzione di testi francesi, ma questi ultimi appartenevano a mio zio e contavo di restituirglieli un giorno. Ero molto affezionato a quei libri. Li avevo letti una quantità di volte e molti di loro erano in cattivo stato, ma li amavo ancor di più per questa ragione. Mi capitava spesso di metterne uno in tasca quando dovevo uscire; pensavo di frequente a quei quindici o venti volumi logorati da un lungo uso come più importanti di qualunque altra cosa della mia vita. Mi sembrava che non avrei mai trovato lo stesso piacere a sistemarli sul caminetto se Paul, perché questo era il suo nome, fosse stato presente. Avevo anche notato che, quando li avevo estratti dalla valigia, li aveva osservati senza indulgenza; in ogni caso, non aveva detto quasi niente, e non mi aveva chiesto di mostrarglieli, cosa che mi sembrava una straordinaria mancanza di curiosità.

Qualcuno dalle scale agitò all’improvviso una campanella. Spensi la candela e scesi nella sala da pranzo. Era una stanza molto piccola, triste e poco illuminata. Un lungo tavolo privo di tovaglia ne occupava la maggior parte e occorreva rasentare il muro per girarci intorno. Era ingombro di piatti grandi e grandi cestini ricolmi di pane. Appesi al muro, un ritratto a colori del generale Lee e una riproduzione di una scena di storia. Mi sedetti. Dopo qualche minuto, poiché non veniva nessuno, mi misi a mangiare il pane, ma senza appetito e, per così dire, per vincere la noia. Sono soggetto a improvvisi accessi di tristezza che attribuisco alla mia vita solitaria. Li supero con difficoltà perché non ne conosco bene la ragione e ne soffro molto. Generalmente è di sera che questa tristezza compare e mi sembra allora che la notte che scende sulla terra non se ne andrà mai via. In situazioni come questa la ragione non mi è di alcun giovamento e tutti i miei pensieri non fanno che rafforzare lo sconforto che s’impadronisce di me. La mia salvezza è cercare di leggere.

Mi trovai all’improvviso nello stato d’animo che ho appena descritto quando presi a mangiare il pane, in attesa che mi servissero la cena. Rimpiansi improvvisamente quel che avevo fatto; vidi tutti i vantaggi della mia vita passata, la completa assenza di preoccupazioni reali; la libertà che possedevo d’impiegare il mio tempo come desideravo. Perché avevo abbandonato tutto questo? Perché lo zio mi faceva trascorrere ogni giorno una mezz’ora noiosa nella biblioteca!

Ebbi l’impressione che il pane che avevo inghiottito mi soffocasse. Infine una giovane negra aprì la porta e la richiuse con un piede. Recava un piatto che posò a tavola osservandomi con un’aria diffidente. Era vestita con un abito di tela a righe e camminava strascinando le ciabatte. Nel momento di andarsene, portò la mano alla bocca per smorzare una risata improvvisa e chiuse con energia la porta dietro di sé. Sentii una voce che la rimproverava.

Non mangiai quasi nulla e risalii in camera mia il prima possibile. Era stato acceso un falò di sterpi durante la mia assenza, perché la notte era fredda. Avevano anche sostituito la candela con una lampada con un gran globo di vetro opaco. Avvicinai la sedia al fuoco ed estrassi dalla tasca un libretto che aprii a caso; poi mi misi a leggere mangiando le due mele che costituivano il mio dessert.

Leggevo da più di un’ora quando il mio nuovo amico entrò in camera. Non lo avevo inteso salire e mi meravigliai nel vederlo improvvisamente davanti a me a chiedermi se mi aveva fatto paura. Poi mi domandò che cosa stessi leggendo: gli porsi il libro: era la traduzione di un romanzo francese. Alzò le spalle e lo restituì subito. Me lo rimisi in tasca.

Il suo viso aveva un’espressione così calma e decisa che fui contento di osservarlo in quel momento d’incertezza. Mi resi conto che la mia tristezza di poco prima era forse dovuta alla sua assenza, perché ripresi coraggio vedendolo e lo ringraziai d’esser venuto. Anche lui sembrava felice d’essere con me e desideroso di discorrere. Mi spiegò che aveva cenato in città e che aveva intenzione di cercare una camera l’indomani mattina, poi mi chiese con grande interesse che cosa contavo di studiare quell’anno. Risposi tanto più volentieri perché mi sentivo meno timido con lui e lo misi al corrente in maniera molto dettagliata dei miei progetti, in gran parte formulati in quell’istante e quasi per caso. Senza rendermene conto finii per raccontare della mia fuga e, con grande naturalezza, gli riferii i più diversi casi della mia vita passata. Se ne stava davanti a me, appoggiato al tavolo, e ascoltava attentamente. Di tanto in tanto m’interrompeva e chiedeva di spiegargli alcuni particolari sui quali sorvolavo troppo velocemente. Alla fine vidi che seguiva il mio racconto con interesse. Trovai molto conforto in questa confessione che facevo a uno sconosciuto e mi sembrava che mi liberassi del peso d’una infinità d’affanni. Mi sembrava anche che la mia vita, o piuttosto una parte noiosa e insignificante della mia vita, stesse terminando e che un’altra, più felice e più attiva, andasse a cominciare quella sera stessa. Nondimeno non mi potevo accusare di nessuna colpa grave, ma era precisamente questo ad apparirmi come una colpa, come una specie di peccato d’omissione. Mi domandai per la prima volta come fosse stato possibile che non avessi sofferto delle misteriose tentazioni di cui parlavano le Scritture e mi sembrò che qualcosa di sconosciuto, benefico quanto temibile, fosse mancato alla mia giovinezza. Avrei voluto avere peccati umilianti da confessare e credo che solo un naturale rispetto della verità m’impedisse d’inventarli.

Quando tacqui, Paul si alzò e mi osservò in silenzio. Guardando i suoi occhi fissi su di me pensai, tanta era la severità che vi metteva: “Non vorrei mai avere questioni con te”. Ma sostenevo quello sguardo con una quiete interiore che mi sorprendeva. “Mostratemi dunque i vostri libri”, mi disse infine. Infatti gliene avevo parlato a lungo. “Eccoli”, risposi indicandoglieli sul caminetto. E perché li osservasse meglio mi alzai e li illuminai con la lampada.

Li guardò un istante, ma non lessi nel suo viso il minimo cenno di piacere. Me ne rallegrai, quasi fosse un vantaggio che scoprivo su di lui. “È tutto?”, domandò appena ebbe finito la sua ispezione. Feci un cenno col capo. “Dimenticate quello che avete messo in tasca”. “È vero”, risposi, “possiamo metterlo con gli altri”. E lo sistemai, ultimo della fila. Ci lasciammo poco dopo, non senza aver stabilito di rivederci l’indomani.

Sogno

Quella notte e la notte successiva ho fatto molte volte lo stesso sogno. Dormivo profondamente, ma vedevo le cose attorno a me tanto distinte come se fossi sveglio. Una luce bianca disegnava sul pavimento il rettangolo della finestra. Le tende di tulle erano mosse dalla brezza e sembravano vive.

Sentivo il respiro regolare di un dormiente: era il mio e mi vedevo nel mio letto, grazie a un inspiegabile sdoppiamento. Il mio volto era bianco, a volte le labbra si schiudevano e sentivo allora un gemito che mi faceva paura. Le mani erano distese sulla coperta.

Il mio respiro, sempre più affannoso, aveva adesso un suono roco che non mi apparteneva. Ero io che dormivo? M’inchinai sul mio viso nella speranza d’essermi ingannato. Ero proprio io.

Allora feci per scostare le ciocche che ricadevano sulla fronte del dormiente e detergere il sudore delle sue gote, ma avvertii subito un gran peso alle mani e le vidi distese sulla coperta. Le dita si dimenavano impercettibilmente e quello sforzo faceva colare il sudore sulle gote dell’uomo che dormiva.

Tuttavia gli occhi erano aperti e guardavano il soffitto. Mi chinai su di essi, ma non mi videro. Le labbra tremavano come se provassero a emettere un suono. All’improvviso si separarono e vidi i denti, e poi la lingua: mi scaturì un grido dal petto. Mi sembrò d’essermi liberato e precipitandomi verso la porta abbandonai il corpo steso sul letto.

La porta si spalancò violentemente prima che l’avessi toccata e Paul entrò nella stanza. Era a capo scoperto e i capelli gli ricadevano sul viso. Gli abiti erano laceri e coperti di fango. Volevo parlargli ma le parole non ce la facevano a uscire dalla bocca. Si avvicinò al letto. Vidi allora il corpo irrigidirsi e afferrare le coperte con tutte e due le mani. Un fremito orribile lo attraversò dalla testa ai piedi e gli occhi si rovesciavano nelle orbite. Infine ricadde sul letto.

Adesso eravamo fuori e andavamo veloci. Tornavamo verso l’università, il terreno scivoloso sotto i nostri passi, perché aveva piovuto dal calar del sole. Mi sembra che camminassimo per ore. Non sapevo dove andavo, ma Paul era davanti a me e di tanto in tanto si girava e mi guardava con uno sguardo fisso.

Avevamo preso una strada che attraversava un campo e poi s’inoltrava nel bosco, ed è stato attraversando questo bosco che mi sono accorto che salivamo. Salimmo per molto tempo e d’un tratto Paul si mise a correre alzando le braccia e gridando: Fine della corsa!

Allora feci un altro sforzo e corsi dietro la mia guida. Dopo un po’ si fermò in cima a una vetta boscosa e quando l’ebbi raggiunto vidi che ci trovavamo su una lunga strada di cui non potevamo vedere la fine. Ma Paul mi prese per mano e arrivammo sino al termine di questa strada. Non c’erano più alberi e vidi che ci trovavamo su un pianoro che costeggiava un abisso. Fu qui che ci fermammo. Dal fondo dell’abisso giungeva sino a noi un mormorio assordante. Ebbi paura, ma guardai. L’alba rischiarava il cielo e vidi grandi cascate ribollenti che precipitavano con violenza tra due muraglie di rocce. A volte l’acqua si apriva nel mezzo della corrente e scorgevo un abisso da cui risalivano grida lontane, ma le onde impetuose le ricoprivano subito. Fu allora che udii la voce di Paul che gridava: La fonte delle acque di vita! Caddi a terra in quello stesso istante.

Quando tornai in me, mi ritrovai nuovamente nella mia camera, vicino al letto. Ero solo. Sul letto il mio corpo disteso, ma non come l’avevo lasciato. Gli arti erano fratturati e sanguinanti dappertutto, come se la pelle fosse stata strappata. Il volto era mutato ma in maniera che non potrei risolvermi a descrivere. Un tale terrore allora mi assalì che mi misi a soffiare come fanno gli animali quando s’impauriscono e vidi in quell’istante le labbra dischiudersi e la bocca aprirsi sempre di più per gridare, e fu il grido che scaturiva da quel viso a svegliarmi.

Ho fatto questo sogno tre volte e ogni volta mi sono svegliato in un terrore crescente, perché mi sembrava che diventasse sempre più preciso e che si avvicinasse sempre più alla realtà, ma a quale realtà? Conoscevo adesso tutti i particolari di quella corsa notturna, sapevo che dopo aver oltrepassato l’università avrei preso la strada che conduceva al bosco, e avrei attraversato il bosco, e sarei arrivato alla strada che dovevo percorrere sino in fondo. Qui, avrei sentito il mormorio delle grandi cascate, avrei avuto paura e sarei svenuto, ma questa paura non era niente. La vera paura m’attendeva nella mia camera ed era abominevole al punto da strapparmi dal mio incubo.

Quando mi fui svegliato per la terza volta, il cielo impallidiva e un lucore grigio penetrava dalla finestra. Tuttavia era ancora molto buio e avevo paura a riaddormentarmi. Mi alzai e accesi la lampada, poi chiusi la finestra e mi sedetti al tavolo. La testa ricadeva sul petto, e non riuscivo a tenere gli occhi aperti. Allora, per non cadere di nuovo in un sonno orribile, mi feci forza e scrissi.

Sulle prime tracciai a fatica qualche parola senza molto riflettere su quel che facevo. E vidi quel che avevo scritto: La fonte delle acque di vita! Ma improvvisamente la penna divenne leggera e cominciai a scrivere come se qualcuno mi guidasse la mano.

Credo che una mezz’ora abbondante dovette trascorrere così. Mi ricordo che il grattare della penna sul foglio occupava tutta la mia attenzione. Infine apparve l’alba e la testa mi ricadde sul tavolo. Dormii senza sogni sino al mattino.

Quando aprii gli occhi, il mio primo pensiero fu di bruciare quel che avevo scritto, perché non riuscivo a comprenderne il senso. Provavo vergogna per essermi lasciato andare a questa sorta di ridicolo passatempo.

Dopo la colazione, indossai il mio abito migliore per recarmi nell’ufficio del segretario dove dovevo registrare la mia iscrizione. Sperai che Paul m’accompagnasse, ma non venne, e verso le dieci uscii. Era bello; tutto era quieto e mi sentii più calmo del primo giorno.

Appresi che l’ufficio non apriva che la settimana successiva e, poiché mi rimanevano tre ore prima di pranzo, decisi di fare una passeggiata.

Lasciai l’università per la strada opposta a quella che avevo seguito prima. Non so perché nel giro di un istante mi misi a camminare veloce e poi sempre più veloce, tanto che ben presto mi venne il fiatone. Avevo preso un sentiero infossato, disseminato di grosse pietre sulle quali inciampavo continuamente.

Ero di nuovo in ansia e mi sembrò improvvisamente che fuggissi da qualcuno. Ma ho detto d’essere soggetto ad accessi di terrore di cui non riesco a comprendere né l’origine né la ragione? È questo il mio male, è questo che c’è di triste e vergognoso nella mia vita ed è per non potermelo spiegare che soffro così. Perché non sono come tutti? A volte ho la sensazione che dietro tutto quel che faccio, dietro tutto quel che penso c’è una quantità di cose che non comprenderò mai. Non provengono queste da me, dal mio cervello? E se provengono da me, perché rimangono estranee? Forse io non mi appartengo? C’è una parte di me che è fuori dalla mia portata?

Questi pensieri che scrivo a caso e che non oso rileggere m’invadono sempre, almeno da quando mi sono messo a riflettere su me stesso. A volte, nel mio spirito, assumono un aspetto terrificante e, in una maniera che posso descrivere con esattezza, sembrano rivestire un’apparenza fisica e diventare ostili. In quei momenti, a quali atteggiamenti infantili la mia miseria mi spinge: mi tappo le orecchie! (Non scriverei tutto questo se pensassi che qualcuno dovesse leggerlo).

Nel mezzo del sentiero infossato fui infine assalito da questo strano terrore e credetti d’essere seguito. Chiusi gli occhi in una specie di vertigine e presi a correre spedito gridando fin quando una fitta improvvisa mi trafisse il capo e mi costrinse a fermarmi. Per qualche minuto rimasi stordito.

Quando riaprii gli occhi, mi resi conto d’essere al limitare di un bosco che saliva in ripido pendio. Come potevo non averlo visto se si trovava davanti a me? Lo credevo molto più distante. I miei terrori erano cessati (cessano sempre quando mi metto a correre), ma ero inquieto e tornai sui miei passi.

Mi sforzai di camminare lentamente e di tornare in me, di camminare come tutti. Presto raggiunsi la strada principale che gira intorno all’università. Vi passeggiavano diverse persone e alcune mi salutavano come se mi conoscessero. Rimasi molto colpito da quella gentilezza. Un ecclesiastico, tra gli altri, si fermò e si mise a parlare con me. Credo che fosse il cappellano dell’università, perché sembrava conoscere tutti i professori e mi parlò dei corsi che teneva ciascuno di loro. Mi consigliò di studiare matematica e mi domandò se leggessi assiduamente la Bibbia. Facemmo allora qualche passo assieme. Parlava con una voce dolce e ferma e mi domandò tutto quello che un uomo che porta il suo abito chiede abitualmente. La domanda sulla Bibbia ci portò a parlare di preghiera e poi di purezza. Sfiorando quest’ultima, gli dissi, poiché m’indirizzava un po’ su questo terreno, che mi guardavo come dal fuoco dal leggere libri eretici e che di certo non ne avevo in camera mia, perché l’impurità è in tale abominio nella Bibbia che sembra risultare la colpa più difficile da perdonare. Mi disse allora che non bisognava confondere le cose e mi lasciò dopo qualche minuto. Avevo parlato con lui con grande piacere.

Tornai in camera mia dopo due ore. Trovai Paul seduto davanti alle ceneri ancora rosse di quel che aveva dovuto essere un gran falò. Il mio sguardo si diresse immediatamente al camino. Era vuoto. “Cercate i vostri libri”, disse Paul che aveva seguito la direzione dei miei occhi. “Ve li ho comprati in ragione di venticinque cents a volume. Erano quattordici. Calcolate voi stesso”. Lo guardai senza dir nulla. Estrasse dalla tasca qualche banconota e una moneta d’argento che mi mise in mano. “Contate questo denaro”, disse. Ero troppo sorpreso per non obbedire e contai soprappensiero le banconote. Improvvisamente domandai: “Ma dove sono i libri?”. “Li ho bruciati”, disse.

Mi resi conto in quel momento che non avevo mai assaporato la tristezza in quel che ha di più amaro, e quelle semplici parole mi spalancarono un mondo sconosciuto. Lasciai cadere il denaro dalle mani. Non mi sognai di domandare a Paul perché avesse distrutto i miei libri, pensai che neppure ce l’avevo con lui, pensai semplicemente che non rimanevano che ceneri. Raccolse il denaro e lo mise in una tasca della mia giacca. “Tenete qui”, disse. “Ne avrete bisogno”. Nel guardarlo mi ricordai improvvisamente che era lui che avevo visto nel cimitero di Bonadventure, quando passeggiavo nel boschetto.

Mi prese per un braccio e mi costrinse a sedermi sulla sedia.

(La prima parte del manoscritto s’interrompe qui. La seconda è datata tre giorni dopo).

9 settembre

Così tanti ricordi tornano alla memoria, ma bisogna che m’affretti. Dopo che Paul m’ebbe raccomandato di badare al mio denaro, si alzò e uscì, e quel giorno non lo rividi. Fu allora, per distrarmi dal mio tedio, che mi risolsi a scrivere il resoconto di tutto quello che m’era successo nel corso della mia infanzia e più tardi, fino adesso. In realtà mi sembrava che vi fosse qualcosa di straordinario nella mia vita e che avrei compreso meglio di cosa si trattava quando avessi messo per iscritto i miei ricordi. Lavorai dunque tutto il giorno e, non avendo voglia di dormire, tutta la notte. Presi gusto a questo compito a mano a mano che procedeva. La mattina del giorno successivo avevo scritto quella che pensavo fosse l’ultima riga del mio manoscritto, perché non volevo aggiungere altro, quando feci una scoperta che mi costernò.

Il giorno stesso del mio arrivo, avevo fatto portare a una lavandaia un piccolo involto di biancheria. Me l’aveva riportata, lavata, due giorni più tardi e cercai in tasca il portafoglio con il mio denaro: non c’era più. Lo cercai ovunque, ma senza maggior successo e non trovai che la misera somma che Paul m’aveva dato. La lavandaia che assisteva a questa scena e che vedeva l’affanno nel quale ero precipitato mi disse che poteva aspettare qualche giorno e se ne andò. Avrei potuto pagarla con il denaro che ancora mi rimaneva, ma le forze mi mancarono e rimasi qualche tempo in una specie di stupore.

In questo frangente, Paul tornò a farmi visita. Mi ero appena ripreso dalla sorpresa e mi chiesi cosa dovevo fare. Veniva dunque a proposito per consigliarmi. Ma vi sono strane contraddizioni in me. Lo sospettavo seriamente d’avermi rubato il denaro lo stesso giorno in cui aveva bruciato i miei libri. (Mi ricordai in effetti che avevo dimenticato il portafoglio nella tasca dell’abito che avevo smesso per indossarne uno migliore). Perché non provavo nessuna indignazione? Perché, al contrario, provavo una sincera gioia nel rivederlo? Arrivai persino a dirgli il mio imbarazzo, come se l’ironia della situazione non fosse evidente ai miei occhi. Avevo davanti a me il ladro, ne ero sicuro, e tuttavia che cosa mi dicevo? Più o meno questo: “È onesto, ed è a lui che devi chiedere di venirti in aiuto. Quel che ha fatto non ha importanza”. Queste idee si accalcavano nel mio cervello con tanta forza che rimanevo stordito come potevo essere stordito nel mezzo di un tumulto.

“Che devo fare?”, gli domandai.

“Ci sono dozzine di maniere per guadagnarsi denaro”, rispose. “I vostri libri non vi hanno insegnato nulla?”.

La domanda mi sembrò crudele, ma così appropriata che non potei evitare di riflettere un istante. Illuminava l’intera mia vita. Non sapevo fare niente, avevo perso tempo a leggere e non ne avevo ricavato alcun profitto. Erano trascorsi anni interi e avevo vissuto come se lo zio dovesse vivere in eterno e occuparsi del mio sostentamento fino alla fine dei miei giorni. Fui spaventato dell’irresolutezza che scoprivo in me e fui tentato di gridare a Paul: “Non abbandonatemi. Mi rimetto a voi in ogni cosa. Voi comanderete, e io andrò dove vorrete”. Ma l’orgoglio mi trattenne. Nella mia disperazione presi a guardarmi intorno e d’un tratto mi vidi, in uno specchio appeso al muro, come mai m’ero visto sino a quel momento. Ero l’immagine dell’incertezza e del timore. Gli occhi sbarrati, la bocca semiaperta, e il petto che si sollevava nello sforzo di una difficile respirazione. Volevo girare il capo, ma sembrava come immobilizzato in direzione dello specchio e mio malgrado guardai quel viso che non voleva né abbassarsi né chiudere gli occhi. Non mi ero dunque mai accorto che avevo le labbra livide, prive di forza, senza spessore? Le guance pallide; gli occhi, troppo distanti tra loro, mi davano un’aria strana che in quel momento m’atterriva. Non avevo dunque mai osservato il mio viso? Ebbi allora improvviso orrore di me e mi misi le mani sugli occhi.

Paul era seduto davanti a me. Quando lasciai cadere le mani, lo vidi con la medesima lucidità che avevo provato poco prima guardandomi allo specchio. Ma non riesco a descriverla e tutte le parole che mi vengono alla mente mi sembrano imperfette o insufficienti quando cerco di applicarle a lui. I suoi tratti sono irregolari e grevi; tuttavia c’è qualcosa di così singolare nel suo sguardo, qualcosa di tanto calmo e di tanto terribile, che il suo viso sembra risplendere. Sento che non può sbagliare, né fare il male. Sento poi che, senza disprezzarmi, vede tutta la fragilità che è in me, e che è il solo a potermi guidare.

Con un violento sforzo, gli dissi: “Farò quel che vorrete se accettate di venirmi in aiuto”. Allora si mise a riflettere e rimasi qualche minuto davanti a lui. Il cuore mi batteva orribilmente e pensai: “Mi rimetto a te riguardo a tutti i miei progetti. Farò quel che tu mi dirai di fare”. Infine alzò gli occhi verso di me e rispose: “Penso che dovrete togliervi d’impaccio da solo”. Mantenni il silenzio e quasi subito Paul se ne andò.

Rimasto solo, per qualche minuto mi abbandonai a un’orribile disperazione. Mi ero dunque sbagliato e l’unica persona in cui avevo confidato si liberava di me. Il mio orgoglio soffriva crudelmente perché mi ero umiliato davanti a uno sconosciuto privo a tal punto della più elementare carità. Ma esiste una specie d’abitudine alla disperazione che si chiama rassegnazione e questa rassegnazione venne molto presto. Mi dissi che avevo meritato le umiliazioni che avevo subito e che ne avrei subite altre e d’ogni genere fin quando non avessi calpestato il mio amor proprio e la mia presunzione. Avvertii una gioia amara nel ripetermi queste cose e, per così dire, nel percorrere il mio malessere in tutta la sua estensione.

Improvvisamente, mi sembrò che la mia tristezza fosse immotivata perché l’oggetto stesso di questa tristezza era illusorio. Non riesco a dire con quale violenza questa idea mi si presentò, era come se una luce abbagliante irrompesse nell’animo e sconvolgesse la mia vita. Come avevo potuto ingannarmi così a lungo e affidarmi ai libri, al denaro, a me stesso, alla mia tranquillità? La vera tristezza non era stata nell’essere preda di tutti i beni che avevo desiderato? Fui così scosso da questa specie di rivelazione che mi stesi sul letto per non cadere. In quell’istante il mondo poteva finire e la vita allontanarsi da me. Ogni cosa visibile non esisteva che per tentarmi e, per un moto dell’anima che mi schiantò, rinunciai in un attimo al possesso di tutte quelle cose, a ogni bene terreno, a ogni speranza di felicità in terra. Ebbi l’impressione che la mia mente si separasse allora dalla carne e che fossi strappato da me stesso. Le mani presero a tremare e il sudore colava dalla fronte. Lanciai un grido e mi alzai, ma subito ricaddi come se fossi stato gettato a terra.

Non so quanto tempo rimasi così, ma quando mi svegliai era buio e la pioggia batteva sui vetri. Sentii un dolore acuto alla base della testa e una grande debolezza in tutto il corpo. Accendendo la lampada trovai un biglietto a firma di Paul. Lo lessi, lo lasciai subito cadere. C’erano scritte queste parole: Verrà qualcuno, potente, che ti prenderà sotto la sua protezione e ti condurrà lungo tutti i sentieri della vita, se tu non gli resisterai.

Restai sveglio tutta la notte. All’alba scrissi la relazione che avete appena letta.

(Il manoscritto termina su queste parole. Qui di seguito alcune lettere o frammenti di lettere che metteranno in luce, forse, alcune parti oscure del racconto di Daniel O’Donovan).

I

IL DIRETTORE DELLA RIVISTA DI FAIRFAX

A MR CHARLES DRAYTON

Fairfax, settembre 1895

Egregio Signore,

non vi sorprenderò dicendovi che la tragica fine di Mr Daniel O’Donovan ha causato qui un’emozione fortissima e insieme destato la più viva curiosità. Si vuole sapere tutto quel che riguarda vostro nipote. Un grandissimo numero di persone chiede di visitare la sua camera e qualcuno sostiene che è infestata. Vi chiedo perdono se v’intrattengo con questi dettagli che non possono che affliggervi, ma comprenderete quale importanza hanno per voi e per me.

La mia professione mi obbliga a tenermi al corrente di quel che accade nella nostra città, e io stesso sono stato nella camera di Mr O’Donovan all’indomani della sua morte. Miss Smyth, a cui appartiene la casa, mi ha accompagnato e nessuno prima di noi era penetrato in quella stanza da quando Mr O’Donovan l’aveva lasciata. È stato allora che abbiamo trovato nel cassetto del tavolo un manoscritto molto lungo di cui immediatamente ho preso conoscenza e che non poteva che appartenere all’ultimo occupante della camera. Miss Smyth ha cominciato la lettura con me, ma l’ha abbandonata subito ed è uscita, lasciandomi solo in quella stanza. È tornata dopo qualche minuto con un quaderno nel quale si chiede a tutti i suoi ospiti d’apporre la loro firma e dare per iscritto le consuete informazioni. Mr O’Donovan aveva adempiuto a queste formalità e il suo nome era l’ultimo del quaderno. È stato dunque con l’aiuto di tale autografo che abbiamo potuto assicurarci che il manoscritto trovato nel cassetto era di sua mano, come avevamo presunto.

Miss Smyth mi ha permesso di portar via questo documento con la condizione di rimetterlo alle autorità quando avessi finito di leggerlo interamente. Non ho esitato; l’ho affidato all’istante al tipografo. Credo che voi mi approverete, signore, quando saprete che si accusa vostro nipote d’aver volontariamente posto fine ai suoi giorni. Questa atroce opinione tende a diffondersi e diventerà una certezza nel pensiero di molti, se qualcuno non si oppone adesso contro un equivoco così ingiurioso verso la memoria del morto e la dignità della sua famiglia. Ora, io sono il solo a poter stabilire che Mr O’Donovan non ha mai avuto intenzione di darsi la morte, come appare chiaramente nel suo manoscritto. Questo manoscritto è ora in stampa. Le bozze vi saranno inviate questa sera stessa. Spero, signore, che voi comprenderete le ragioni… ecc.

II

CHARLES DRAYTON AL DIRETTORE

Savannah, settembre 1895

Egregio Signore,

avete la completa libertà di pubblicare il manoscritto di cui mi parlate e le vostre ragioni mi sembrano ben fondate. È increscioso, tuttavia, che voi non abbiate potuto inviarmi questo manoscritto prima d’aver stampato le bozze (attendo sempre quelle che voi mi avete annunciato) e c’è qualcosa d’ironico nel domandarmi il permesso di stampa quando le vostre macchine sono in funzione.

Resta inteso che vi assumete la responsabilità di tutte le piccole calunnie che potrebbero essersi insinuate nella penna di mio nipote. Io gliele perdono, se si trovassero nel suo manoscritto, perché senza volerlo snaturava i fatti che raccontava; ho avuto più d’una volta l’occasione di verificarlo. Ma il pubblico ignora questa manchevolezza della sua natura e può ben prendere per verità, nelle pagine che gli offrite, quel che non è altro che finzione. Credo dunque assolutamente necessario che voi pubblichiate come seguito di quelle pagine la relazione che oggi vi sottopongo. Essa riguarda me, così come mio nipote. Rimedierà agli errori che ha potuto commettere e al tempo stesso completerà il suo racconto là dove esso potrà sembrare lacunoso.

Martedì prossimo sarò a Fairfax. Avrò dunque l’occasione d’intrattenervi più a lungo su tutta questa faccenda. Nell’attesa, ecco il mio manoscritto.

Sapete forse che sono vedovo. Di mia moglie non dirò niente, se non che non c’intendevamo affatto e che sei mesi dopo il matrimonio compresi l’errore che avevo commesso sposandola. Mi risolsi di vederla il meno possibile e, poiché le circostanze ci obbligavano a vivere sotto lo stesso tetto, di trascorrere tutta la giornata nella mia biblioteca, dove mi chiudevo a doppia mandata. Non crediate che questa vita claustrale mi fosse penosa. Amo i libri e lo studio al di sopra di tutto.

La mia solitudine era perfetta. Non rispondevo mai quando bussavano alla porta e uscivo dalla biblioteca solo per prendere i pasti. Immaginate le situazioni che potevano derivarne.

Non ve le racconterò perché non attengono direttamente al mio argomentare. Passarono alcuni anni. Mia moglie era ciarliera per natura e soffriva nel non potermi parlare. Usciva poco, per ragioni che è inutile spiegare. Leggeva molto.

D’un tratto mi resi conto che era diventata vecchia. Non si nota l’invecchiare di qualcuno che si vede ogni giorno e non ci si rende conto della devastazione finché non è compiuta, se mi è concesso dirlo, e balza agli occhi. Adesso, mia moglie lavorava a maglia parte della giornata e andava alle funzioni il resto del tempo, perché s’era messa a praticare la religione di Roma con pignoleria. Si vestiva di nero come una vedova, e mi odiava, come si odia un marito che dovrebbe essere morto e non lo è.

Indirizzava il suo affetto sul padre che avevo visto sistemarsi in casa la settimana successiva al mio matrimonio. Una vecchia cariatide che mi disprezza perché non ho prestato servizio, come lui, per quattro anni presso un generale del Sud. Ha lasciato la casa dopo la morte della figlia.

Nove anni dopo il mio matrimonio, mio cognato, che non vedevo mai, morì a causa di una malattia assai misteriosa, una sorta di malinconia cronica che combatté o cercò di combattere con le droghe. Ignoro a quali eccessi giunse, ma so che morì appena quarantenne. Sua moglie impazzì poco dopo; adesso, vive con i suoi genitori.

Mio cognato aveva un figlio di dieci anni e si dette il caso che fossi il solo a poter accogliere quel bambino e occuparmi di lui. Volevo evitarlo, ma intervenne la legge e mi forzò la mano.

Quando lo mandarono da me, Daniel era un ragazzino gracile, dall’aria malinconica e infida. Era vestito poveramente e teneva in mano un’enorme valigia che conteneva, mi ricordo, qualche indumento di ricambio e qualche libro illustrato. Vi avverto che non amo i bambini. Notai in lui cose che trovavo singolari e molto sgradevoli. Non parlava quasi mai quando ero presente e sembrava per natura sospettoso. Quando si credeva solo, guardava intorno a sé con un’aria inquieta cantilenando a mezza voce. A volte usciva all’improvviso dalla stanza dove si trovava e correva in giardino gridando. Sua zia lo redarguiva, allora; lui si zittiva, e diventava rosso. L’osservavo a lungo, senza che se ne accorgesse, volendo vedere fino a che punto avesse ereditato l’indole dei suoi genitori.

Sembrava molto incline a perdersi nella religione e nelle pratiche superstiziose di sua zia e sospettavo che lei lo mandasse in segreto al catechismo. Cercavo di sottrarlo a questa influenza e, quando potevo, d’inculcargli poche idee corrette. Lo facevo venire nel mio studio, diverse volte al mese e lo istruivo un po’ parlandogli soprattutto dei doveri che aveva in quanto essere dotato di raziocinio, dei suoi obblighi verso il prossimo e verso sé stesso. Tuttavia mi guardavo dall’esagerare, per la paura di fare violenza a quel che la natura gli aveva donato. Infatti, ho una teoria particolare sull’educazione dei bambini. Sono dell’avviso che si debba lasciarli sviluppare liberamente e, per così dire, come essi stessi desiderano. Che giochino, se amano giocare, e se amano leggere, che leggano quel che a loro piace. Finiranno comunque per distinguere il bene dal male e scoprire quel che a loro conviene. Così non mandai Daniel a scuola. Lo abbandonai a sé stesso, riservandomi solamente di correggere in lui quel che mi sembrava artificioso e contrario alla ragione. Gli vietai d’andare in chiesa ma gli lasciai completa libertà per il resto. Amava i libri; gli permisi di scegliere nella biblioteca del salotto tutti quelli che potevano interessarlo.

Intanto cresceva sotto i miei occhi e cominciai a formulare per lui ogni genere di progetti. Parlava sempre meno e non si apriva appena che a mia moglie. Aveva un aspetto gracile e rimaneva spesso lunghe ore seduto in giardino, a volte con un libro, ma più spesso senza un’occupazione, con le mani giunte sulle ginocchia. Quando ebbe compiuti diciassette anni, mi risolsi d’impiegarlo a mio servizio e di utilizzare, sviluppandolo, il gusto che in lui intuivo per le questioni della letteratura. Io stesso mi occupo di ricerche d’ordine filosofico… ecc.

(Il seguito di questa lettera è privo d’interesse e non apporta alcun elemento nuovo al memoriale di Daniel O’Donovan. Il suo autore sembra non averla scritta che per il piacere di raccontarsi).

III

MISS SMYTH AL DIRETTORE

DELLA RIVISTA DI FAIRFAX

Fairfax, settembre 1895

Egregio Signore,

ecco il resoconto di quel che è accaduto tra il 2 e il 6 settembre scorso, vale a dire dall’arrivo di Daniel O’Donovan in questa casa sino al momento in cui quel ragazzo l’ha lasciata. La gente comincia a riferire fatti inesatti. Non credete, vi supplico, che a quello che mi pregio di dirvi io stessa.

Il 2 settembre fui dunque chiamata alla porta d’ingresso da un colpo di campanello molto timido e pensai, prima di aprire, che si trattasse di un mendicante, così provai una certa sorpresa nel vedere sulla soglia un ragazzo, vestito ammodo e con una valigia. Era uno studente, ma sapete che non arrivano mai prima della seconda settimana di settembre. Mi stupii che si fosse messo così per tempo alla ricerca di una camera. Era pallido e si teneva un po’ curvo come se fosse stanco. Non mi piaceva molto il suo sguardo, ma sembrava ben educato e gli mostrai una camera che prese all’istante. Era solo.

L’indomani mattina, mentre faceva colazione, salii in camera sua assieme a una serva, volendo rendermi conto di persona se egli avesse tutte le qualità d’ordine e di pulizia che esigo dai miei ospiti. Rimasi sulle prime molto soddisfatta. Aveva appeso i suoi abiti nell’armadio e sistemato con molta cura i suoi libri sul caminetto, ma quando esaminai questi libri, scoprii cose che non mi piacquero. Erano quasi tutti romanzi e alcuni, persino, mi sembravano traduzioni di opere straniere. Infine deplorai l’assenza delle Scritture. La scelta di questi libri mi fece venire un brutto presentimento e mi risolsi a sorvegliare il mio ospite senza farmene accorgere. Risalì alla camera qualche minuto dopo che l’avevo lasciata e non ne uscì fino all’indomani, fatta eccezione per il pranzo e per la cena.

Nel corso del pomeriggio ebbi l’occasione di salire al secondo piano e mentre passavo davanti alla porta di Mr O’Donovan un brusio di voci mi fece fermare. Vi ho detto che, d’abitudine, mi trattengo in una piccola stanza al piano rialzato dove mi dedico a lavori di cucito? Dalla finestra vicino alla quale sono seduta vedo perfettamente il cancello del giardino e, di conseguenza, le persone che entrano ed escono. Ora, siccome quel giorno non era entrato nessuno, conclusi che Mr O’Donovan parlava da solo, e lo ascoltai. Parlava troppo basso perché potessi cogliere tutto quel che diceva, ma a giudicare dal tono col quale pronunciava certe frasi, si rimproverava con molta amarezza un certo errore che aveva commesso. Notai che non si muoveva dal luogo dove si trovava, cosa che non è comune per le persone che parlano da sole. Non è forse vero che amano camminare in lungo e in largo, mentre monologano? In capo a pochi minuti si tacque, e salii silenziosamente al secondo piano, non senza rimpiangere d’aver accolto in casa mia uno sconosciuto le cui maniere mi sembravano strane.

L’indomani uscì molto presto, vestito con più ricercatezza del primo giorno. Scelsi quel momento per salire di nuovo in camera sua. Premetto che sopra ogni cosa ho paura di tutto quel che può, per imprudenza, dar fuoco alla mia casa. Questa paura non mi abbandona mai ed è diventata una specie di ossessione da quando affitto alcune camere agli studenti. Di lui diffidavo di più che di tutti quelli che avevo ospitato fino ad allora. Ma la sua camera era in ordine; vidi anche, con mia grande sorpresa, che aveva rifatto il letto, cosa che non gli avevo richiesto. Non sentii odore di fumo e stavo per ritirarmi quando, guardando intorno un’ultima volta, mi accorsi che i libri non erano più sul caminetto. Non erano neppure sul tavolo, né dentro l’armadio che dischiusi e mi domandai che cosa quel ragazzo ne avesse potuto fare quando improvvisamente li vidi, accatastati sulla pietra del camino. Rimasi un istante stupefatta. Evidentemente l’intenzione di Mr O’Donovan era di disfarsi dei suoi libri bruciandoli, ma perché allora li aveva portati da me se era per distruggerli all’indomani del suo arrivo? Tuttavia, avevo troppi pregiudizi verso quei libri per non approvare una tale risoluzione e, dopo un momento di riflessione, mi risolsi a prestargli aiuto. Andai dunque a cercare io stessa una fascina di sterpi che sistemai sotto la griglia e, aperta la finestra, diedi fuoco ai ramoscelli. Quasi immediatamente tutto si mise a bruciare. Tolsi la griglia e tornai al mio lavoro dopo aver mandato la serva a spazzare la camera.

Mezz’ora dopo vidi ritornare Mr O’Donovan. Camminava svelto ed entrò in casa quasi correndo.

Quand’ebbe chiuso la porta della camera dietro di sé, non resistetti alla tentazione di salire dopo di lui le scale e, appostandomi come il giorno prima, mi misi a origliare. Con mia grande sorpresa il ragazzo non disse nulla per molto tempo. Lo sentivo soltanto fare qualche passo, poi si fermava e rimaneva immobile. Temevo io stessa di fare qualche movimento per paura che mi sentisse, quando pronunciò poche parole che non compresi e con una voce così singolare, così alterata, che mi sentii invadere da una strana inquietudine, e ridiscesi il più silenziosamente possibile. Riprendendo le mie faccende, mi accorsi che le mie mani tremavano.

A quel punto, tutto mi portava a ritenere folle quel ragazzo. Ne provai subito una paura orribile che dominai e che non lasciai trasparire in alcun modo, ma quello stesso pomeriggio andai da mio cugino Thomas Thornton. Sapete che egli insegna diritto e che sarebbe difficile trovare consigliere migliore. Gli esposi tutta la faccenda. Mi ascoltò senza interrompermi, poi dedusse dal racconto che, senza poter dire che il giovane O’Donovan avesse davvero perduto la ragione, era lecito ritenere che soffriva di un grande disagio morale e che in tutti i casi conveniva sorvegliarlo. Gli domandai allora sull’istante di venire a passare la sera da me e di osservare Daniel O’Donovan quando fosse stato a tavola, cosa che non avevo potuto fare io stessa perché mi occupo della cucina quando i miei ospiti cenano. Mio cugino esitò un poco, poi accettò e decidemmo…

(Interrompiamo qui il manoscritto di Eliza Smyth per offrire il racconto del dottor Thornton che ci pare più completo e preciso).

Fairfax, settembre 1895

Non appena mia cugina m’ebbe spiegato il motivo della sua visita, mi domandai se il caso fosse veramente tanto grave quanto ella riteneva e se valesse la pena di disturbare il mio amico dottor Dashwood, come lei domandava. Per tranquillizzarla comunque, visto che sembrava nervosa, l’accompagnai a casa sua e le promisi di passarvi l’intera serata allo scopo di osservare io stesso il giovane Daniel O’Donovan. Ho avuto a che fare con molte persone nel corso della mia carriera e m’illudevo di scoprire senza difficoltà il germe della malattia morale di cui soffriva questo ragazzo. Si vedrà se ci sono riuscito.

Erano quasi le cinque quando arrivammo da mia cugina. Volle subito farmi salire le scale per origliare alla porta di Daniel O’Donovan. Non amo questo genere di pratiche, ma mia cugina insistette al punto che dovetti cedere e salimmo assieme sino alla porta che si trova al primo piano. Rimasi immobile qualche minuto senza sentire nulla e, supponendo che il ragazzo fosse occupato a leggere o scrivere, dissi a mia cugina che ridiscendevo e che mi preparasse del tè. Lei mi seguì.

Quando fu in cucina, presi posto nella sala da pranzo ed estraendo un libro dalla tasca mi misi a leggere vicino alla stufa. Miss Smyth riapparve nel giro di un quarto d’ora portando un vassoio che posò sul tavolo. Aveva l’aria inquieta e mi disse a mezza voce: “Mi sembra di sentir scendere qualcuno. Se è lui, e se vuole parlarmi, bisogna che voi siate presente”. Le spiegai che la sua non mi sembrava una buona idea. Non si sarebbe forse agitato vedendomi? Era dunque necessario che la vedesse da solo, ma anche che ascoltassi quel che aveva da dirle. Fece un cenno col capo e uscì rapidamente, senza chiudere la porta, in maniera che nulla di quel che si sarebbero detti nella camera contigua mi potesse sfuggire. Avrei dovuto spiegare che questa stanza dà sul giardino ed è comunicante sia con la sala da pranzo dove mi trovavo, che con l’anticamera. È lì che mia cugina lavora e riceve le persone che desiderano parlarle. Non è proprio un salotto, ma, come potete vedere, svolge quella funzione. Non appena ella vi entrò, udii i passi che il suo orecchio più fine aveva percepito qualche istante prima, ma passarono senza indugiare davanti alla stanza dove si trovava mia cugina e si diressero verso il portico. Immediatamente guardai dalla finestra, dove potevo scorgere il cancello e il viale del giardino, e vidi apparire il ragazzo in questione. Era molto alto e malfermo. Percorreva il viale fino alla cancellata, camminando con la testa bassa e le mani in tasca, quando improvvisamente tornò verso la casa. Potei allora finalmente osservare il suo volto. Mi turbò, direi più precisamente che mi scosse come se fosse stato di una bruttezza insopportabile. Tuttavia non era brutto, aveva soltanto un’aria molto inquieta. Neppure posso spiegarvi la mia sorpresa e il mio turbamento quando lo vidi voltarsi verso di noi. Forse era qualcosa nel suo sguardo. Sentii mia cugina lanciare un grido: “Dio mio, Tom, disse, guardate quel viso!”.

Daniel tornò sui suoi passi. Poi lo sentii salire i gradini del portico e bussare un attimo dopo alla porta di mia cugina. Entrò. Senza far rumore ripresi il mio posto vicino alla stufa e ascoltai la conversazione che segue. Daniel O’Donovan parlava con una voce decisa, ma si capiva che quel tono non gli era abituale e che doveva costargli un certo sforzo.

Cominciò con lo spiegare che in seguito a una sfortunata circostanza aveva perduto il suo denaro, poi si fermò. Ci fu un istante di silenzio e intesi mia cugina dirgli:

“Spero che non abbiate perduto quel denaro al gioco, signore”.

Rispose subito:

“No, signorina, non ho mai giocato in vita mia. Me l’hanno rubato”.

“Ve l’hanno rubato? Ne siete sicuro?”.

“Sì, ne sono sicuro”.

“Conoscete il ladro?”.

“Sì, signorina, ma preferirei non parlare di lui, se permettete”.

“E allora, signore”, disse mia cugina con un tono un poco più freddo, “che avete dunque da comunicarmi?”.

Allora si mise a parlare con toni così rapidi e indistinti che mia cugina dovette interromperlo e fargli ripetere alcune frasi, che forse temeva non avessi compreso, e in effetti non capivo nulla di quel che diceva. Infine intesi dalle risposte di mia cugina che lui le chiedeva di tenerlo non come studente a cui affittare una camera, ma come domestico a cui corrispondere vitto e alloggio. Questa proposta mi parve così singolare che non potei più trattenere un’esclamazione, ma credo che non mi sentirono. Mia cugina taceva. Immaginai che fosse preda del mio medesimo stupore e che non sapesse cosa rispondere.

Infine disse rapidamente a Daniel O’Donovan che avrebbe riflettuto sulla sua richiesta, e lui si ritirò. Aveva appena chiuso la porta dietro di sé che mia cugina mi era già di fronte. “Ebbene, cugino, avete inteso?”, domandò. “Che devo fare?”.

Discutemmo la questione per qualche tempo. Esaminandola più dappresso la richiesta di Daniel O’Donovan sembrava abbastanza ragionevole. Mia cugina era la sola persona che conosceva qui. Non era naturale che lui le confidasse le sue difficoltà? Le feci notare, inoltre, che probabilmente avrebbe potuto scrivere ai suoi genitori ma che preferiva, evidentemente, fare a meno del loro aiuto. Era un punto a suo favore. La sua ingenuità consisteva nel credere che avrebbe potuto unire i doveri di domestico e di studente. Sembrava opportuno non scoraggiarlo subito. Era così giovane: si sarebbe disilluso molto in fretta.

Mia cugina si arrese alle mie ragioni, ma sentivo che c’era in lei qualcosa che si opponeva al mio consiglio. Non le piaceva O’Donovan. E neanche a me. Non mi piacevano i suoi occhi e un certo bagliore che vi avevo intravisto. Aveva l’aria furba e ingannatrice di una persona che sta per commettere un’azione malvagia. Tuttavia temevo d’essere ingiusto. Se non l’avessi visto in giardino, se avessi soltanto ascoltato la sua conversazione con mia cugina, avrei avuto di lui una buona impressione, perché la sua voce m’ispirava fiducia. Non dissi nulla di questa sensazione e consigliai a mia cugina di rispondere al ragazzo che lo avrebbe impiegato, per esempio, nel servizio a tavola e che non avrebbe dovuto pagare nulla, né per i pasti, ne per la camera. Inutile dire che mia cugina non aveva affatto bisogno di un altro domestico, perché aveva già due ragazze che l’aiutavano nel lavoro, ma acconsentì per carità a mettere Daniel alla prova. M’impegnai a procurargli un piccolo impiego in città, da un amico notaio. Nell’attesa, ero curioso di vedere come avrebbe svolto l’incarico che assumeva quel giorno.

Mia cugina gli scrisse un biglietto che fece scivolare sotto la sua porta. Quella sera stessa Daniel scese in cucina.

Ho omesso di dirvi che il giorno precedente erano arrivati tre pensionanti. Erano tutti ragazzi dell’età di Daniel, ma tanto spensierati quanto lui era serio. Uno di essi spiccava sugli altri per quella specie di spirito facile e scanzonato che si riscontra spesso tra i ragazzi di questa parte del paese. Era più grande dei suoi compagni e parlava loro con una falsa aria d’autorità che finiva lui stesso per prendere sul serio, perché vedeva che lo ascoltavano con una certa ammirazione e che non mancavano mai di fare eco alle sue risate e alle sue burle. Ebbi modo di accorgermene il giorno del mio arrivo, quando eravamo tutti a tavola in attesa che ci servissero la cena.

Avevo dunque lo sbruffone alla mia destra. Alla mia sinistra si trovava una signora vestita di nero con le spalle coperte da un grande scialle di cui teneva i lembi incrociati sul petto. I capelli grigi erano divisi in ciocche sulla fronte. Una grande severità marcava i tratti del suo viso; non diceva una parola, ma vedevo le sue labbra muoversi in silenzio.

Al suo fianco sedeva una donna molto più giovane e che sembrava esserle parente, sua figlia forse o sua nipote. Aveva la medesima aria seria della donna più anziana malgrado la grazia e la dolcezza che trasparivano dal suo volto. Aveva una pettinatura molto semplice e modesta ma non poteva impedire che i suoi fitti boccoli ricadessero attorno alle tempie quando inclinava la testa, cosa che accadeva spesso, perché sembrava timida.

In tutto eravamo sei il giorno che Daniel cominciò il servizio. Entrò dopo una giovane negra che portava un enorme vassoio e che sembrava fare uno sforzo considerevole per non ridere. Notai che era più pallido di quanto non avessi notato in precedenza. Aveva le braccia cariche di piatti che si mise a disporre davanti a noi, ma con le mani che tremavano e come se le forze non gli bastassero.

A un certo punto la servetta si ritirò. Daniel, che aveva fatto il giro del tavolo, tornò verso di me e mi servì il piatto della carne. Ammetto che ebbi un gesto di stizza. Non potevo sopportare lo sguardo che il ragazzo indirizzava intorno a sé. Aveva l’aria sconvolta e i tre studenti cominciarono a ridere. Gli dissi a bassa voce mentre prendevo il piatto in mano: “Andate a sedervi. Ci passeremo il vassoio da noi”.

Obbedì senza dir nulla e andò a sedersi su una sedia vicino alla porta dove potevo osservarlo a mio agio. Sembrava così scosso che mi trattenevo a stento dal provare pietà. Dopotutto faceva forse qualcosa di tanto umiliante? Io stesso avevo lavorato come valletto di sala al collegio di Haymarket. Ed era una situazione ben peggiore.

Mi soffermerò rapidamente sui due giorni che seguirono. Adesso prendevo tutti i pasti da mia cugina. Daniel sembrava abituarsi alle sue mansioni ma era distratto e quando non era impegnato guardava dalla finestra come se spiasse l’arrivo di qualcuno. Ero l’unico che facesse attenzione a lui. Intuii che agli studenti non piaceva; evitavano a bella posta di guardarlo quando gli chiedevano il pane o l’acqua. Quanto alle due donne, avevano quasi sempre lo sguardo basso e non scambiavano mai una parola.

Ma eccoci alla parte più interessante di tutta questa vicenda. La sera del terzo giorno, Daniel appariva inquieto. Lo vedevo aggrottare le sopracciglia guardando fuori dalla finestra, anche se era buio. La luna non si era ancora levata.

Il mio vicino rideva meno del primo giorno; i suoi due amici sembrava avessero perso la loro allegrezza e io ero felice per Daniel, perché avrebbero potuto facilmente burlarsi della sua aria strana e di quello sguardo assente che ci rivolgeva quando gli chiedevamo qualcosa.

Avevamo quasi finito di mangiare e Daniel era seduto su una sedia vicino alla porta della cucina. Era il suo posto abituale.

Non lo perdevo mai di vista, ma sembrava non rendersi conto che lo osservavo. Il suo sguardo era fisso in direzione della porta di quella cameretta di cui vi ho detto, quella che comunica con l’anticamera. Stavo quasi per domandargli che cosa osservasse con tanta attenzione, quando mi accorsi che parlava da solo. Le labbra si muovevano molto veloci e sentivo una specie di mormorio. Ma non ero il solo ad averlo sentito. Il mio vicino guardò Daniel con un’espressione impaurita. La più giovane delle due donne lo osservava anche lei, ma con il viso sereno e privo della minima sorpresa. Aveva due occhi neri pieni di dolcezza e di calma.

All’improvviso Daniel si alzò e si diresse verso la porta che non aveva smesso di fissare. Camminava lentamente e come se ogni passo gli costasse fatica. Non capivo perché mi sentivo così turbato. Mi sembrava che Daniel non sarebbe mai arrivato a quella porta e che sarebbe caduto. Infine posò la mano sulla maniglia che girò con decisione. Uscì. Arrivato al portico si mise a correre. Sentii il cancello che sbatteva.

Credo d’essermi alzato. Per un istante, la sorpresa m’impedì di parlare. Guardando la mia vicina, la più anziana delle due donne, vidi che sul suo viso era dipinto il medesimo stato d’animo.

“Che pensate stia passando nella mente di quel ragazzo?”, le chiesi infine.

“Se non avesse avuto un’espressione così strana mentre usciva”, rispose, “avrei creduto che avesse sbagliato porta. Ma è uscito dal giardino”.

“È pazzo”, disse allora il mio vicino, arrossendo. “Ne sono certo”.

“Allora bisognerebbe corrergli dietro e fermarlo”, disse la signora anziana, alzandosi.

Anche la donna più giovane s’era alzata. Era diventata tutta paonazza e pronunciò qualche parola a mezza voce.

“Credo che sia inutile corrergli dietro”, disse.

“Perché?”, domandai assieme alla mia vicina.

Ella disse allora queste parole sbalorditive.

“Perché è preda di mani più potenti delle nostre. È già lontano e voi non lo riprenderete mai”.

Mi risedetti tremante. Sapevo sin troppo bene che quella donna non s’ingannava e che Daniel stava correndo verso la sua rovina o la sua salvezza senza che alcuna potenza terrena potesse distoglierlo dal suo intento. Non pioveva più e la luna s’era levata. Una luce incerta illuminava la strada. I ragazzi erano usciti all’inizio di questa conversazione affermando che avrebbero ripreso Daniel facilmente. In quel momento apparve mia cugina, attirata dal rumore di quella scena concitata. Le spiegai in poche parole quel che era accaduto. Ci guardò per un istante senza dir nulla, poi si mise uno scialle e uscì. La vidi che attraversava il giardino e apriva il cancello. Si trattenne un momento sulla strada, ecc.

FRAMMENTO DI UNA LETTERA DI MISS G.

(pubblicata in seguito)

…E con l’occasione v’invio l’ultimo numero della Rivista di Fairfax che non mancherà d’interessarvi. Ditemi se conoscete una storia più singolare di quella del giovane O’Donovan. Mi sembra che si sarebbe potuto risparmiargli l’orribile fine che ha subito e non sono certo tra chi crede alle spiegazioni soprannaturali che sono state date. Penso molto semplicemente che è stato vittima di un accesso di febbre della specie più comune e che è stato criminoso non averlo sorvegliato meglio. Mio fratello non è dello stesso avviso. Si è tenuto al corrente su tutto questo affare e la sua opinione è che Daniel O’Donovan è stato, così dice, toccato dalla grazia: ma, aggiunge, questa grazia agisce spesso assecondando il carattere della persona che la riceve. Converte i miti con la persuasione, precipita i violenti e gli orgogliosi. Nell’anima di questo folle potrebbe aver agito, io appena oserei scriverlo ma è lui che lo dice, potrebbe aver agito follemente, o saggiamente, a seconda che si vede la cosa dal punto di vista terreno, o dal punto di vista della provvidenza. Dice ancora che questa morte precoce è una benedizione e che pone fine al momento più opportuno a una vita d’incertezza e di miseria spirituale. Dio mio, come sono feroci questi uomini di pensiero! Questo è un ragionamento che vi farà fremere, ma voi lo sapete, mio fratello è un ‘latitudinario’ tollerante e, ci scommetterei, la Chiesa non è del suo stesso avviso, su tali questioni inerenti la grazia. Siamo intesi, non direte una parola su quanto vi scrivo.

Non vi sorprende questa piccola predica? Non sospettavate che la vostra vecchia amica fosse impregnata di teologia come un qualsiasi presbiteriano. Ascoltate adesso quanto ho appreso di concreto sulla storia del giovane Daniel. Ma non vi ho detto che ho conosciuto sua zia quando era fidanzata? La povera donna ha fatto un matrimonio davvero infelice. Ci credereste? Ha sposato un uomo del Nord, ben due anni prima della guerra, un tale signor Drayton, di New York. Durante la guerra ha vissuto in Europa con la moglie e nel 1867 è tornato a Savannah come se niente fosse. Si dice che non si mostri mai in pubblico. Non so proprio quali interessi lo tengano legato a quella città. Ma torniamo a suo nipote. Sostiene di aver incontrato mio fratello per strada, una mattina del mese scorso, ma mio fratello non esce che nel pomeriggio e inoltre è l’unico ecclesiastico della regione. Bisogna dunque che il ragazzo abbia immaginato gran parte della passeggiata di cui parla. Tutto ciò inficia l’intero racconto, perché se si è ingannato su questo particolare può essersi ingannato dovunque. È altrettanto certo che il personaggio che chiama Paul è la creazione di una mente alterata, perché quelli che hanno conosciuto Daniel O’Donovan concordano nel dire che era sempre solo. Ma l’aspetto più sconvolgente della storia non è questo. Sapete che il poveretto ha creduto di ricevere un giorno un biglietto da quello che chiama Paul: dico creduto di ricevere questo biglietto, perché in realtà l’aveva scritto lui stesso, senza rendersi conto di quel che faceva. Non è questa quel che si dice scrittura automatica? Del resto, voi ne sapete ben più di me nel merito di questa strana, di questa brutta storia, ecc.

[Traduzione di Filippo Tuena]