1 Fu pubblicata per la prima volta su «La lettura» nel maggio 1916. L’anno dopo fu compresa nella raccolta E domani, lunedì… (Milano, Treves, 1917) ed entrò infine a far parte del tredicesimo volume delle «novelle per un anno», Candelora (Firenze, Bemporad, 1928), costituito da quindici delle diciotto novelle della silloge milanese. Da La camera in attesa e dagli spunti contenuti ne I pensionati della memoria, Pirandello svilupperà all’inizio del 1923 la «tragedia in tre atti» La vita che ti diedi, che il 12 ottobre dello stesso anno andrà in scena al Teatro Quirino di Roma e sarà pubblicata l’anno successivo. Anche a prescindere dal fatto che lo sviluppo drammaturgico si snoda intorno a un tutt’altro e più complicato intrigo evenemenziale e fa pernio soprattutto sulle angosce e i deliri della maternità, la pièce, costituzionalmente priva, come ogni opera tradizionale di teatro, della mediazione d’un’istanza narrante, risulta del tutto privata anche della lievità che alle due novelle, e a La camera in attesa in particolare, era assicurata proprio dalla sapiente discorsività umoristica dei narratori.
2 Imposte.
3 Passa innanzitutto attraverso l’antropomorfizzazione emotiva di questi piccoli attori inanimati (il calendario e l’orologio) e attraverso l’«inutile crudeltà» e la «violenza» che essi, numi minori tutelari della misura del tempo, avvertono, la sensazione dolorosa di una forzatura artificiosa dei limiti. Un calendario e un orologio sono a loro modo vivi fintanto che possono segnare il fluire della temporalità; diventano viceversa funebri allegorie quando qualcosa ne arresta il movimento: lari affabili finché indicano il presente del flusso vitale, si trasformano in totem orrendi e in simboli di morte quando le loro cifre, immobili, indicano, eternandolo, soltanto un istante del passato, il momento confuso e minaccioso dell’arresto. Come penati domestici, essi vivono in simbiosi con l’uomo che li conserva e li fa muovere, e muoiono con lui. Perciò è ancora più inquietante, qui, la patetica violenza che li costringe spettralmente a rivivere e a fingere un presente vivo che non c’è più.
4 «Varietà di marmo, di colore grigio scuro o azzurro cinereo» (Devoto-Oli).
5 Per tutta questa prima parte, v. lo spunto di sceneggiatura contenuto ne I pensionati della memoria, p. 17: «Su, lasciate tutto com’è: la camera pronta per il suo ritorno; il letto rifatto, con la coperta un po’ rimboccata e la camicia da notte distesa; la candela e la scatola dei fiammiferi sul comodino; le pantofole davanti la poltrona, a piè del letto».
6 Ricaricare (v. Notizie del mondo I 580 e n. 32).
7 Suscitata, a insaputa delle tre sorelle, proprio dai loro rituali d’attesa, e magistralmente narrata da una istanza dotata di una vista straordinariamente penetrante, la vita recondita e impercettibile delle piccole cose anima la camera vuota e riempie il vuoto dell’assenza. E proprio le tante presenze surrogatorie vivificate dal racconto (il calendario infastidito, l’orologio risentito, la candela rigidamente chiusa nella sua inutile verginità e derisa dalla boccetta d’acqua panciuta e dalle figurine sfrontate della scatola di fiammiferi), conferendo fantasmatica concretezza all’assenza, la amplificano ed enfatizzano al massimo. Sono la piccola folla di oggetti e la vivacità delle loro reazioni a dare intero il senso del vuoto e della mancanza.
8 I militari di leva e non di carriera potevano frequentare un corso apposito al termine del quale ottenevano il grado di sottotenente.
9 Regione sahariana a sud della Tripolitania, conquistata dall’Italia nel 1913-14. Com’è noto, l’Italia aveva dichiarato l’annessione della Libia nel 1911 (nel corso della guerra con la Turchia) e se ne era vista riconoscere la sovranità nel 1912, col trattato di pace di Losanna. Sulla Tripolitania (regione soggetta, come la Cirenaica, alla sovranità del sultano di Costantinopoli), l’Italia aveva posto una ipoteca fin dal 1900 nei colloqui diplomatici con la Francia, interessata ad avere mano libera in Marocco. Quei colloqui erano diventati accordo bilaterale nel 1902. Analoga intesa era intervenuta poco dopo con l’Inghilterra, che desiderava veder riconosciuta la sua influenza in Egitto, e nel 1909, con gli accordi di Racconigi, anche la Russia aveva riconosciuto all’Italia i diritti sulla Tripolitania e la Cirenaica.
10 L’interno della Tripolitania era stato occupato dalle truppe italiane dopo la pace di Losanna, ma si era dovuto presto constatare che la presenza di tribù (o cabile) nomadi guerriere avrebbe costituito una perenne minaccia per la normalizzazione dei territori occupati. Di qui la missione, affidata al colonnello Antonio Miani, di occupare il Fezzan; missione che poté considerarsi conclusa con successo all’inizio del 1914. La sottomissione delle tribù autoctone durò però ben poco, poiché queste si strinsero intorno al capo senussita della regione Mohammed el-Abed, e già nel luglio del 1914 si verificarono i primi attacchi a carovane e colonne italiane. All’inizio del 1915, dopo una serie di scontri sanguinosi e di rovesci via via più gravi, il Fezzan dovette essere momentaneamente abbandonato.
11 Fabbricare, confezionare.
12 Nel cuore del racconto, il narratore umorista inserisce con tutta naturalezza questa allocuzione ai lettori e l’exemplum argomentativo che ne segue e che vuole conferire ex contrario verosimiglianza alla strana storia di Cesarino e delle sue donne: coloro che sono partiti ritornano altri, se ritornano; se non ritornano, restano viceversa inalterabilmente identici a quelli che erano alla partenza. Chi riaccoglie una persona cara che ritorna, deve pur constatare nel cambiamento intervenuto in lui, o in lei, una sua piccola morte; chi non vede ritornare il proprio caro, può dunque ben pensarlo vivo e immutato.
13 Fare gesti con le mani e le braccia.
14 La notazione trapasserà in una didascalia del secondo atto de La vita che ti diedi, nel quale è rappresentato il ritorno dei due figli di Donna Fiorina Segni: «Irrompono nella stanza Lida, sui diciotto anni, e Flavio, sui venti. Partiti lo scorso anno dalla campagna per i loro studi in città, saranno diventati altri, pure in così poco tempo, da quelli che erano prima che fossero partiti; altri non solo nel modo di pensare e di sentire, ma anche nel corpo, nel suono della voce, nel modo di gestire, di muoversi, di guardare, di sorridere» (v. MN, p.496).
15 L’episodio ipotetico che precede e riguarda i figli partiti da casa, verrà anche ripreso e rifuso, nel primo atto de La vita che ti diedi, in alcune battute di Donn’Anna. Nel dramma del 1923, Fulvio Luna è stato lontano sette anni prima di tornare a morire nella casa materna; ed è appena spirato quando la madre manifesta al parroco amico e alla sorella, proprio in forza dell’argomento qui enunciato in forma di congetturale esempio, la caparbia determinazione di predisporre la camera in attesa: «DONN’ANNA […] Io voglio quella sua stanza là com’era; che stia là viva, viva della vita che io le do, ad attendere il suo ritorno, con tutte le cose com’egli me l’affidò prima che partisse. – Ma lo sa che mio figlio, quello che mi partì, non m’è più ritornato? – / Cogliendo uno sguardo di Don Giorgio alla sorella: / Non guardi Fiorina. Anche i suoi figli! Le sono partiti l’anno scorso per la città, Flavio e Lida. Crede che essi ritorneranno? / Donna Fiorina nel sentirle dire così, si metterà a piangere sommessamente. / No, non piangere! Piansi tanto anch’io – allora sì – per quella sua partenza! Senza sapere! Come te che piangi e non ne sai, non ne sai ancora la ragione! DONNA FIORINA No, no; io piango per te, Anna! DONN’ANNA E non intendi che si dovrebbe piangere sempre, allora? – Oh Fiorina, / le prenderà la testa fra le mani e la guarderà negli occhi amorosamente: / tu, questa? con questa fronte? con questi occhi? Ma ci pensi? Come ti sei ridotta così da quella che eri? Ti vedo viva com’eri, un fiore veramente; e vuoi che non mi sembri un sogno vederti ora così? E a te, di’ la verità, se ci pensi, la tua immagine d’allora – DONNA FIORINA – eh sì, un sogno, Anna. DONN’ANNA Ecco, vedi com’è? Tutto così. Un sogno. E il corpo, se così sotto le mani ti cangia ti cangia – le tue immagini – questa, quella – che sono? Memorie di sogni. Ecco: questa, quella. Tutto. DONNA FIORINA Memorie di sogni, sì. DONN’ANNA E allora basta che sia viva la memoria, io dico, e il sogno è vita, ecco! Mio figlio com’io lo vedo: vivo! vivo! – Non quello che è di là. Cercate d’intendermi!» (v. MN, pp. 481-2).
16 V. I pensionati della memoria, p. 17: «Tutto è per loro l’esserci o il non esserci d’un corpo. / Basterebbe a consolarli il credere che questo corpo non c’è più, non perché sia già sotterra, ma perché è partito, in viaggio, e ritornerà chi sa quando».
17 Tessuto sottile e leggerissimo, di cotone o di lana (variante regionale, o desueta, di mussola).
18 Apposta, deliberatamente.
19 La non-morte come negazione della morte e la non-vita come surrogato della vita (quando quest’ultima non sia la conquista suprema d’un filosofo dimissionario) sono costruzioni estremamente fragili e fondate su un equilibrio molto precario. Come l’inconscio e i sogni, hanno bisogno, per sussistere, di abolire la scansione del tempo. E infatti, all’orrore del doppio cataclisma segnato dalla partenza di Cesarino due anni prima e dalla mancanza di sue notizie che dura ormai da quattordici mesi, le quattro donne hanno fatto fronte istituendo, nella camera-mausoleo di lui che è metonimia del luogo più intimo e profondo del loro essere, un tempo immobile costituito d’una strenua e perfetta iteratività, la cui funzione è precisamente quella di eludere e confondere il prima e il dopo e di erigere così una barriera di atti e gesti sempre uguali e indistinguibili contro «il pensiero del tempo che passa». Claretta, venendo via via meno a questa regolarità, squassa senza volerlo questa fabbrica illusoria e inevitabilmente «fa pensare al tempo che passa».
20 V., per analogia, il precedente dei singhiozzi liberatori di Giulietta Consalvi ne La vita nuda (II 370).
21 Dopo quella meno recente de La vita nuda e quella, risalente solo a un anno e mezzo prima, de La rosa, è la terza replica distesamente narrata del grande motivo della vita che rifiorisce (affiorato peraltro fin dal lontano 1894 con L’onda). Le tre occorrenze hanno in comune parecchi fattori: anzitutto il fatto che i soggetti della predicazione denominabile (e qui denominata) come rifiorire siano giovani donne, in secondo luogo lo svolgimento sequenziale per cui la rifioritura consegue al lutto, infine il carattere di irresistibilità che contrassegna la rifioritura. Con tutta evidenza, c’è una formidabile, e fondante, struttura tematica alle spalle di questo predicato altamente dinamico: quella costituita dall’opposizione polare vita/morte. Questa struttura è suscettibile di articolarsi attualizzando i termini paradigmaticamente contraddittori, non-vita e non-morte. È quanto avviene spesso in Pirandello ed è quanto palesemente avviene in questa novella dal momento in cui le parole di conforto dei conoscenti sono venute incontro al bisogno della madre e delle sorelle di non accettare l’idea della morte di Cesarino. Fin da prima tributaria della giovinezza e vitalità del figlio e fratello, la dimensione di non-vita dell’inferma e delle tre zitelle ha facilmente e naturalmente prodotto la presunta «commedia» della non-morte dell’assente. In questa patetica e sincera finzione è stata per lungo tempo risucchiata anche Claretta, che ai rituali sororali e materni ha accostato i suoi rituali amorosi surrogatori. Ma per lei la larvale non-vita che esorcizzava il lutto non era uno stato costituzionale e quasi una seconda natura, e lentamente il rigore dei suoi rituali sostitutivi era venuto allentandosi, finché un giorno Claretta, vestita del nero di un tutt’altro lutto, s’era abbattuta sul letto di Cesarino ed era scoppiata in un pianto dirotto: aveva cioè, a sua stessa insaputa e rifiutandosi di prenderne coscienza («ne incolpò il suo abito nero, il dolore per la morte della nonna»), celebrato in un attimo il funerale del fidanzato. Non per caso, dopo quest’episodio la vita aveva irrefrenabilmente ripreso in lei i suoi diritti ed era prepotentemente rifiorita facendola risbocciare come un fiore. Solo l’illusione della non-morte di Cesarino poteva infatti imporle la non-vita che condivideva con la madre malata e le sorelle appassite di lui; consegnato viceversa, e sia pure inconsapevolmente, Cesarino alla morte, è quasi fatale che Claretta torni alla vita. Non così le zitelle vestali, tremanti di «stupore angoscioso» dinanzi a quel pianto disperato che ha d’un tratto strappato Cesarino al limbo ben custodito della non-morte. E ben si spiega che le tre zitelle vanamente vergini sentano l’urgenza della vita rifiorente di Claretta come «l’urto d’una violenza crudele»: i caratteri che aureolano e connotano la rifioritura (gaiezza primaverile, vivacità, esuberanza, calore) non sono più alla loro portata, e il loro pallore sempre più livido dice che ormai l’unico percorso che si spalanca loro davanti è quello che conduce dalla non-vita alla morte. L’ordine del reale e il principio di realtà che vi si adegua ripropongono il loro implacabile aut-aut: o vita o morte; ma i desideri, le illusioni, i bisogni, e la paura che sempre li accompagna, spingono a schivarne il rigore e la durezza e a sottrarsi allo sgomento della morte lungo le vie di fuga della non-morte e della non-vita. Qui la madre prossima a morire, e presaga, fa il possibile affinché alle figlie quei rifugi non siano negati; ne La vita chi ti diedi, Donna Anna Luna, depositaria incrollabile, dopo sette anni di iniziazione nella solitudine, dei misteri della non-vita e delle formule che esorcizzano la morte, disvelerà con sarcastica durezza i meccanismi di risoluzione del dilemma vita-morte e, implicitamente, anche l’inconscio lavorío che soggiace al rifiorire della vita: «DON GIORGIO Ma crede, signora mia, che si possa, così, passar sopra la morte? DONN’ANNA No, è vero? “Così” non si deve! La vita, sì, ha messo sempre sui morti una pietra, per passarci sopra. Ma dev’essere la nostra vita, non quella di chi muore. I morti li vogliamo proprio morti, per poterla vivere in pace la nostra vita. E così va bene passar sopra la morte! DON GIORGIO Ma no. Altro è dimenticare i morti, signora (che non si deve), altro pensarli vivi come lei dice – DONNA FIORINA – aspettarne il ritorno – DON GIORGIO – che non può più avvenire! DONN’ANNA E allora pensarlo morto, è vero? com’è là! – DON GIORGIO – purtroppo! – DONN’ANNA – ed esser certi che non può più ritornare! Piangere molto, molto; e poi quietarsi a poco a poco – DONNA FIORINA – consolarsi in qualche modo! DONN’ANNA E poi, come da lontano, ogni tanto, ricordarsi di lui: – “Era così” – “Diceva questo” – Va bene? DONNA FIORINA Come tutti hanno sempre fatto, Anna mia! DONN’ANNA Insomma, ecco, farlo morire, farlo morire anche in noi; non così d’un tratto com’è morto lui là, ma a poco a poco; dimenticandolo; negandogli quella vita che prima gli davamo, perché egli non può più darne nessuna a noi. Si fa così? – Tanto e tanto. Più niente tu a me; più niente io a te. – O al più, considerando che se non me ne dài più è perché proprio non me ne puoi più dare, non avendone più neanche un poco, neanche una briciola per te; ecco, di quella che potrà avanzarne a me, di tanto in tanto, io te ne darò ancora un pochino, ricordandoti – così, da lontano. Ah, da lontano lontano, badiamo! per modo che non ti possa più avvenire di ritornare. Dio sa, altrimenti, che spavento! – Questa è la perfetta morte» (v. MN, p. 486).
22 La storia, che ha preso le mosse da una scena recitata esclusivamente dalle cose, ossia dai modesti ed ancillari morti-vivi presenti nella camera in attesa, simmetricamente si conclude su di essi. Ed effettivamente, anche qualora tra le due scene devolute a loro non fosse stata rivelata per intero la vicenda delle cinque donne e di Cesarino, le differenze tra la scena incipitale e quella finale sarebbero sufficienti a significare il tracollo insanabile che è intervenuto. Infatti, un breve arresto ha aperto la crepa attraverso la quale il soffio del tempo reale è penetrato nell’ostinata iteratività dei rituali conservativi. L’ordine delle relazioni fra gli attori inanimati ne risulta del tutto scompaginato e questo basta a rendere quella camera sfigurata e irriconoscibile: l’«attesa senza fine» è l’ossimoro che sancisce la catastrofe.
1 Fu pubblicata su «L’illustrazione italiana» il 4 giugno 1916 e non venne mai più ristampata da Pirandello. Fu recuperata solamente nell’Appendice di L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, vol. II, a cura di M. Lo Vecchio-Musti e A. Sodini, Milano, Mondadori, 19698.
2 Rami nodosi.
3 Stando alla testimonianza del Nardelli, si direbbe che quando, alcuni anni più tardi, Pirandello volle farsi costruire (dall’architetto Nardelli medesimo) una casa in via Onofrio Panvinio, lontana traversa di via Nomentana, questo medesimo paesaggio suburbano si ripropose ai suoi occhi e alla sua memoria. Scrive il biografo: «C’eran due pini colossali, all’entrata. Eran belli. E una vista lontana. Questa sì. Le mura tinte di quel rosso che a Roma col tempo stinge e fa coro col verde» (v. FVN, p. 182). La cosa non può sorprendere. A Roma, Pirandello abitò a lungo, a più riprese, nei paraggi di via Nomentana: prima in via Alessandria (una parallela di sinistra, all’uscita da Porta Pia), poi in una traversa di destra, via Antonio Bosio; poi in un’altra parallela sul lato destro, via G. B. De Rossi (e siamo all’altezza cronologica de I due giganti). La Nomentana, il «lungo e vasto viale» di cui si parla nel capoverso precedente, tuttora costeggiata di ville e parchi, era la meta consueta delle passeggiate pirandelliane, come lo è di quelle di numerosi suoi personaggi.
4 Calpestate e frantumate.
5 La parte terminale, e la più tenera, delle piante, più comunemente detta cimigliolo o cimolo: v. I vecchi e i giovani (in RII, p. 438): «Ora la luna stava per sorgere, s’intravvedeva già di tra il brulichìo dei cimoli argentei degli olivi».
6 Il passo riattiva e riscrive una nostalgia naturistica e regressiva, e la connessa perplessità intorno alla vera conoscenza, che circolano diffusamente nel corpus pirandelliano. Si rammenti Quand’ero matto I 766: «Penetravo anche nella vita delle piante e, man mano, dal sassolino, dal fil d’erba assorgevo, accogliendo e sentendo in me la vita d’ogni cosa, finché mi pareva di divenir quasi il mondo, che gli alberi fossero mie membra, la terra fosse il mio corpo, e i fiumi le mie vene, e l’aria la mia anima; e andavo un tratto così, estatico e compenetrato in questa divina visione»; o Canta l’Epistola II 637: «Non aver più coscienza d’essere, come una pietra, come una pianta; non ricordarsi più neanche del proprio nome; vivere per vivere, senza saper di vivere, come le bestie, come le piante; senza più affetti, né desiderii, né pensieri; senza più nulla che desse senso e valore alla propria vita». E si pensi, ben al di là del finale di Uno, nessuno e centomila, alla tarda modulazione di Di sera, un geranio, p. 559: «Ah come, all’alba, lungo una proda, volle esser erba lui, una volta, guardando i cespugli e respirando la fragranza di tutto quel verde così fresco e nuovo! Groviglio di bianche radici vive abbarbicate a succhiar l’umore della terra nera. Ah come la vita è di terra, e non vuol cielo, se non per dare respiro alla terra!». Neppure le piante assorte e immemori sono una novità: v. Colloquii coi personaggi, n. 43.
7 V. Il viaggio II 549: «vide tra le vetture entro quel baglior d’oro il brulichio della folla rumorosa, dai volti e dagli abiti accesi da riflessi purpurei, i guizzi di luce, gli sprazzi colorati, quasi di pietre preziose, delle vetrine, delle insegne, degli specchi delle botteghe».
8 Questo senso melanconico e sferzante della caducità era già presente nel clima mitologico (anche qui poco oltre rievocato) del vecchio poemetto Scamandro: «SCAMANDRO […] Ma tu, se or io ti fo saper che rada, / stinta hai la chioma e gli occhi di viola / smorti, rispondi: brami ancor che cada / acqua? AMADRIADE Perché? SCAMANDRO Perché non sete sola / tu hai, lo so: di chiare acque uno specchio / forse brami di piú. AMADRIADE Maligno vecchio! SCAMANDRO Ma brutta ti vedresti, te l’ho detto. / T’affliggeresti…» (v. SPSV, p. 718).
9 Echeggia, in questo gioco col mutevole specchio del tempo, addirittura una vecchia lirica della raccolta del 1889, Mal giocondo: Romanzi IX.5: «O vaga Alcina, al fin tra le tue braccia, / se non è sogno, stretto anch’io mi sto: / Fa’ che una notte sola io teco giaccia, / e lieto e pago i giorni chiuderò. // Perché sí bella e pur sí trista sei, / dimmi, dolce amor mio, dimmi perché… / Prendi tutto il vigor degli anni miei, / ond’io, felice, mi distrugga in te. // Vecchia sei tu, ma celami la vera / essenza tua con vista giovanil, / come la vecchia Terra a primavera / le rughe cela coi fiori d’april. // Quando una notte avrò di te goduto, / un sterpo fammi, e non trarmi mai piú. / Io ti dirò, co ’l mio miglior saluto: / “Come sei brutta, o bella Alcina, tu…”» (v. SPSV, pp. 451-2).
10 Il recupero memoriale contamina un luogo de I vecchi e i giovani già riusato ne Il viaggio: «Ah, che serata fu quella per lei, nello “Châlet” a mare, sotto la luna, alla vista di quel Foro illuminato, corso da un continuo fragore di vetture scintillanti, tra l’odore delle alghe che veniva al mare, il profumo delle zagare che veniva dai giardini!» (v. II 549-50 e n. 37); e uno di «Leonora, addio!» (v. II 559): «Nella villa comunale sonava allora la banda del reggimento e il profumo intenso e soave dei gelsomini e delle zagare, nel caldo alito della sera, inebriava».
11 Se si presta fede alla testimonianza di Elio Providenti, il particolare svelerebbe che l’immagine femminile qui vagheggiata e respinta è, ancora una volta, quella della cugina-fidanzata Lina. A proposito di una lirica stampata nel 1888 sulla palermitana «Vita letteraria», egli scrive: «La leggenda del delfino è una graziosa poesia d’amore per la fidanzata Lina, della quale viene con delicatezza trasformato in pregio un difetto fisico. Secondo la leggenda il delfino fu creato più veloce fra tutti gli animali; ciò mosse a invidia perfino il Sole, che se ne lamentò, e il Signore Iddio accogliendo la sua richiesta, torse la coda al delfino che da allora non percorse più i mari così velocemente». E cita i versi seguenti: «Pensai io allor: Le belle invidiose / Non similmente forse a la Natura, / in vederti più bella, o Lina mia, / mosser rampogna? E sí quella dispose, / equa madre, che il tuo piede per dura / e lunga e acerba e fera malattia, / lieve, ma sempre, zoppicasse in vita? / Senza un lamento or tu te ’n vai, per via, / come un’allegra lodola ferita» (v. NBOG, p. 726).
12 Quercia (il singolare querce è un toscanismo).
13 Per queste figure ninfali si veda ancora, in Mal giocondo, Romanzi II.61-76: «E dièssi a l’opra immane. Un dopo l’altro / vigorosi scendean su tronchi pregni / di selvatica vita i colpi, come / su membra umane. // Quando al fin tra stillanti offesi rami / s’aprí capace a pena un primo varco / e in esso si cacciò, subitamente / al guardo un novo // inatteso spettacolo s’offerse: / tra le innumeri foglie erongli in torno / volti di leggiadrissime fanciulle / supplici in vista: // Da gli occhi loro immobili partia / un guardo intenso a lui chiedente pace / con promessa d’amor non mai provato / d’alcun mortale» (v. SPSV, p. 439); e Romanzi IX.2.1-12: «De l’alte querce il bosco secolare / ha un lungo e grande fremito d’orror, / e le Ninfe che in quelle aman sognare / de la mia corsa destansi al romor. // «Basta un acuto sibilo di freccia / a rompere il lor sonno vegetal: / Svegliate, esse, stracciando la corteccia / tendon da i tronchi il bel capo ninfal. // Or mille voci chiamanmi frementi, / tra spasimi di fiera voluttà: / “Vieni!… mi bacia!… toglimi!… rattienti!… / son tua!… ti voglio!… t’amo!… ardo!… ristà!”» (v. SPSV, p. 450).
14 Uno dei frammenti riprodotti da Barbina curiosamente propone l’analogo motivo in un’ottica rovesciata, quella del desiderium anziché quella della rinuncia: «Il vostro passato mi appartiene. Io non voglio sapere come voi siete oggi. E son certo che vi farà piacere se vi dico che per me voi siete e resterete quale io vi conobbi giovinetta. Non andate a cercarvi nello specchio o in qualche fotografia sbiadita. Io vi ho viva dinanzi. Cercherò di ricomporvi ora davanti a voi stessa, nell’aspetto e nella vita che avevate allora. Quei vostri occhi… quel vostro sorriso… Vi riconoscerete? Ecco, e voi allora per me e anche per voi potete esser quella ancora. Senza toglier nulla a quella che siete adesso per un altro e pei vostri bambini e per la vostra casa, potete vivere della vostra vita d’allora, e disporre di voi per un tempo che non sarà. Io voglio fare all’amore con quella che foste» (v. BRB, p. 71).
15 V., nella raccolta del 1901 Zampogna, il poemetto Padron Dio V. 15-36: «Allora, a lui d’attorno / sentia, vedeva il grano / mandar su su su il gambo della spica, / ma troppo alto… troppo alto… / no, cosí no! – possibile? ogni gambo / piú alto assai d’un pioppo! Ah, che fatica, / lí chino / sopra ogni gambo, ad impedir quel rapido / rigòglio strambo, / rigòglio dispettoso, inverosimile… / e invano, invano: i gambi s’allungavano / visibilmente, da ogni lato, fino / a quell’altezza, e già lo seppellivano… / L’arïa smaniando, una bracciata / dava il Giudè, si rizzava… oh portento! / piú delle spighe egli era, assai piú alto… / Smarrito, intorno si guardava; il cielo / poi guardava, e la luna ecco a portata / della sua mano: alza un braccio, la prende / e con essa a falciar si mette… A un tratto / crollava il sogno, e il Giudè si destava / di soprassalto» (v. SPSV, pp. 593-4).
16 L’immagine delle ombre ingigantite di chi sta accanto al fuoco riaffiorerà nel 1917, in funzione di comparante, nella prima stampa di Pensaci, Giacomino!: «Questo denaro è stato per me… sa come quando, tempo d’inverno, i ragazzini, di sera, raccolgono le foglie secche cadute dagli alberi per farne una vampata, che se uno, anche piccolo piccolo, si trova a passare, l’ombra, con quella vampa, al muro, diventa come un gigante, che se alza un braccio arriva fino al quinto piano?» (v. MN1, pp. 799-800).
1 Fu pubblicata per la prima volta in «Noi e il mondo» il 1° luglio 1916 (v. GAB, p. 50; M. RAK, Pirandello illustrato, in «Rivista di studi pirandelliani», XI (1993), 11, p. 83; e SFP, pp. 22 e 104-6). L’anno dopo fu ristampata nella raccolta E domani, lunedì… (Milano, Treves, 1917), e fu infine compresa nel tredicesimo volume delle «novelle per un anno», Candelora (Firenze, Bemporad, 1928), costituito da quindici delle diciotto novelle della silloge milanese. È con il Matteo Sinagra di Da sé (v. II 885: «Ora è leggero leggero: una piuma!») che la protagonista condivide la sua leggerezza di piuma, parola-motivo che da quel testo passa a intitolare questa grande replica variata.
2 V. Il marito di mia moglie I 365: «Florestano, se gli fosse possibile, vorrebbe portarmi su lui solo, senza ajuto. Via, in fin de’ conti, non peso molto (sì e no, quarantacinque chilogrammi, con tutti gli edemi); e poi penso: servendo me, vuol guadagnarsi la felicità futura. Lasciamolo fare! / Anche mia moglie Eufemia, dall’altro canto, è quasi felice di soffrire per me, e più vorrebbe, per guadagnarsi anche lei, di fronte alla propria coscienza, il diritto di goder dopo, senz’alcun rimorso. Onesto diritto, onestissimo compenso, che né la vita né la coscienza possono negarle, e di cui io, ripeto, non debbo adontarmi». A distanza di vent’anni dalla prima stampa di quella novella, lo schema relazionale si ripropone a sesso invertito: Amina osserva infatti incuriosita, e senza adontarsi, la moglie di suo marito.
3 V. TS, pp. 102-3: «La malata sentiva che la pietà, la carità era a causa delle sue sofferenze; che i parenti volevano patire per lei, perché con questo patimento pagavano il bene, il sollievo che sarebbe loro venuto dalla sua morte. Quand’ella soffriva, tutti erano con lei, attorno a lei, dolenti e premurosi; ma appena il male le dava un po’ di requie ed ella sul letto, calma, gustava per ogni nonnulla una lieve gioja innocente, una dolcezza di respiro nuovo tra il candor fresco del letto rifatto, nessuno più partecipava a questa sua gioja; si staccavano da lei; la lasciavano sola e smarrita, perché l’illusione di quel suo bene non le durasse. – Non temete che m’illuda, – le veniva da dire. – Siate sicuri che morrò. Ma ora lasciatemi godere questo momento di respiro. Non vi tolgo nulla! Se sapeste com’è crudele la vostra pietà!».
4 Si rammenti il nitido ascendente di Rondone e Rondinella II 892: «Essi soli, quegli occhi, vivevano ancora, e non più timidi ormai, ma lustri dalla gioja […] e lustri anche d’una certa malizietta nuova, insegnata loro (troppo tardi!) dalla morte ahimè troppo vicina».
5 Diagnosticare con chiarezza.
6 V. TS, p. 104: «Fragili come sono di quegli insetti che a toccarli appena son lieve polvere tra le dita».
7 V. TS, p. 103: «Era un dolore umano, ma dalla gola le uscivano cupi gridi d’animale».
8 Riaffiora, nella sottolineata approssimazione del discorso descrittivo («una sua certa grazia», «pareva», «quasi che») e nel percorso ipotetico che esso traccia, il mito primario dell’impregiudicata bellezza e felicità prenatale: se infatti morire significa non essere più vivi, «uscir di vita […] dall’infanzia» non può significare che tornare a non essere ancora vivi, non essere nati. Non potrebbe darsi definizione più chiara dell’approssimarsi alla morte come al ricominciamento e alla patria edenica di cui tanti protagonisti del corpus provano tanta nostalgia. Si ricorderà che ne La trappola, dove il nascere, il venire al mondo, è letto come cominciamento del morire, si allude all’infanzia (v. II 698: «finché siamo piccini, finché il nostro corpo è tenero e cresce e non pesa») come a un provvisorio e inerziale perdurare della libertà prenatale. La sequenza narrativa di cui Amina è soggetto, è perfettamente complementare a quella evocata colà: la moritura si rimpicciolisce, il suo corpo sempre più si riduce e pesa sempre meno. Quello descritto ne La trappola è un disforico rito di passaggio dalla vita-libertà alla forma-morte, quello adombrato in Piuma un euforico mito regressivo, nel quale il prolungato morboso tragitto del morire è, specularmente, un sognante ri-vivere e un sorprendente ri-cominciare a vivere in dimensioni (il sogno, il ricordo, le estasi metacroniche) sempre più pienamente sostitutive della realtà. Sul paradosso temporale per cui i più vecchi, i più prossimi alla morte, sono più avanti, ma chi prima è nato e morto è il più giovane, tornerà abruptivamente a riflettere Tito Belcredi in Enrico IV: «BELCREDI Oh che scoperta! – Ma sì! – Guardate Frida e la Marchesa, dottore! – Chi è più avanti? – Noi vecchi. dottore! Si credono più avanti i giovani; non è vero: siamo più avanti noi, di quanto il tempo è più nostro che loro. DOTTORE Eh, se il passato non ci allontanasse! BELCREDI Ma no! Da che? Se loro / indica Frida e Di Nolli / debbono fare ancora quel che abbiamo già fatto noi, dottore: invecchiare, rifacendo su per giù le stesse nostre sciocchezze… L’illusione è questa, che si esca per una porta davanti, dalla vita! Non è vero! Se appena si nasce si comincia a morire, chi prima ha cominciato è più avanti di tutti. E il più giovine è il padre Adamo! Guardate là / mostra Frida / d’ottocent’anni più giovane di tutti noi, la Marchesa Matilde di Toscana» (v. MN2, pp. 831-2).
9 Raggomitolata. Anche qui il comparante animale – in struttura con un accesso nevrotico o patologico – è in agguato: della malata si dice che i dolori le strappano «dalla gola cupi gridi d’animale» e che «la fanno urlare come una belva» (v. La realtà del sogno, p. 75: «La ritrovò sul letto, già rinvenuta, aggruppata come una belva», e Candelora, p. 241: «– Il cuore, così, ti mangerei! – rugge Candelora, tutta aggruppata sul sedile», e n. 5).
10 Amina è praticamente solo occhi, ma i suoi occhi sono dotati di una tale potenza visiva e percettiva e d’una tale diabolica veggenza che diventano l’unico punto in cui è a fuoco non solo il suo ristrettissimo mondo di malata, ma il cosmo. Gli occhi di Amina possono vedere con pari nitidezza sia, microscopicamente, le rugosità e la grana, grossolane, degli aspetti corporei della realtà e dei sentimenti, sia, telescopicamente, i colori e gli aspetti incorporei della vita d’altri tempi e luoghi: vedono perfettamente in tutte le direzioni e lungo l’intero asse del tempo. Letteralmente tutto, in Piuma, passa attraverso gli occhi della protagonista e nessun altro sguardo può interferire o incontrarsi col suo: direi che, al limite, neppure il narratore ci prova. È più che significativo che il segnale inaugurale del racconto sia proprio: «Già s’era accorta che»: Amina si rende conto di tutto, penetra ogni cosa, presagisce ogni evento.
11 Per una modulazione del medesimo motivo in altra tonalità, v. Da sé II 885-6.
12 Impossibile non rammentare, per prossimità temporale e contiguità simbolica, il Livo Truppel del Frammento di cronaca di Marco Leccio…, che entra in scena sconvolto ma con «quegli occhi che di solito hanno la limpida chiarità ridente dello zaffiro» (v. p. 195 e n. 16).
13 L’immagine, che è anche un figurino d’epoca, ricompare ancora in una tarda lirica sparsa: «Io ti vedo, Maria Lembo, / come tu eri da fanciulla, / col tuo abito nuovo di faglia, / a righine bianche e blu; / sotto l’ali e le ghirlande / di quel tuo grande cappello di paglia, / vedi, il tempo non passa più» (v. SPSV, p. 827).
14 V. TS, p. 102: «Nella rosea freschezza del volto gli occhi avevano una limpida divinità di zaffiro, ma a volte con fremiti repentini di desiderio o di collere ridenti. Si dondolava andando, ma così leggera! Sotto quel gran cappello di paglia, stretto ai lati da un nastro di velluto nero annodato sotto il mento, per cui pareva un cestello rovesciato pieno di capelli d’oro».
15 Il nome, che è quello della belliniana Sonnambula e che Pirandello non usa altrove mai, è un facile anagramma di anima.
16 Si rammenti la definizione della vita data ne La trappola (v. II 697 e n. 11): «La vita è il vento, la vita è il mare, la vita è il fuoco; non la terra che si incrosta e assume forma». Giunta a uno stato di appena residuale corporalità, e nella assoluta incorporeità del ricordo, Amina può sperimentare in sé, senza ostacoli e in forma di piacere, la filosofia regressiva del rabbioso pensatore di quella novella.
17 V. TS, p. 102: «Le ondate m’assalivano, m’investivano, mi sferzavano, come di piombo. Mi sentivo acqua; mi sentivo vento, vivo in mezzo alla tempesta. Era ogni volta un divino imbevimento, che mi faceva quasi nitrire, ebro. Una forza agile prodigiosa tremenda mi lanciava, poi mi cullava, spaventosamente».
18 Il passo è una sorta di emblema del piacere narcisistico e onanistico. Poco sotto si legge del resto che Amina ha «l’anima piena della più angosciosa dolcezza d’amore», ed è palesemente un amore senza oggetto.
19 Questa predilezione di Amina è un tratto ulteriore della sua misteriosa parentela con Livo Truppel (v. Frammento di cronaca di Marco Leccio…, pp. 193-4). Come quello gnomo orologiaio, Amina pare un essere di una natura alquanto speciale piovuto in questo mondo e restato impigliato nella trappola del tempo e delle relazioni. Anche quando, come poco sopra, viene narrativamente proiettata per virtù di rievocazione «lontano lontano, nel tempo suo lieto, col sole e l’aria d’allora», viene spontaneo e non è illegittimo chiedersi se quella lontananza designi un passato ed un altrove della realtà vissuta o non piuttosto una dimensione primigenia magica e fiabesca. V. TS, p. 102: «Eran giornate di nuvole chiare, dopo le piogge; sapore di terra bagnata, e nell’umida luce l’illusione delle piante e degli insetti che fosse di nuovo primavera. La notte, le nuvole dilagavano su le stelle, le annegavano, poi le lasciavano riapparire su brevi profonde radure d’azzurro».
20 La composizione del vecchio, perenne conflitto non può realizzarsi che così, con lo svanire di uno dei due termini del contrasto, con il dissolvimento della corporalità.
21 Per lo stesso sintagma e la medesima sensazione, suscitata però dalle cose, v. La carriola, p. 156 e n. 7.
22 V. TS, p. 103: «Egli aveva la noncuranza grave delle grosse bestie. Spesso si piantava fermo con la pensosità pesante e lugubre dei buoi. Pelle spugnosa, dai pori sudici. Naso granuloso. Occhi lucidi di smalto, dallo sguardo opaco».
23 V. il remoto spunto di Quand’ero matto I 768: «A un tratto, nella camera mortuaria entrò sbuffante una delle cugine di mia moglie […]: pingue, nana, con un grosso pajo d’occhiali rotondi che le ingrandivano mostruosamente gli occhi, poverina».
24 È più che motivato e più che plausibile che, con la sua acuita e distaccata sensibilità, la maliziosa moritura trovi ridicola la smarrita bugia del marito. Ma la sua malizia non è innocente, e innocente non è il tanto ridere cui si abbandona nel suo «sogno vivo». In «Vexilla Regis…», novella del 1897, un uomo invecchiato si sforza di rievocare l’immagine della giovanissima amante infedele e ne rivede «la bocca accesa dai piccoli denti pari, aperta sempre a un riso vibrante di fremiti» (v. I 407). In Lumíe di Sicilia è la prolungata, squillante, risata della ex-fidanzata a svelare ad un candido innamorato che la sua Teresina s’è perduta ed è per lui perduta. Nell’atto unico All’uscita, del 1916 (dunque cronologicamente molto prossimo a Piuma), un marito tradito ricorda quasi con raccapriccio la risata della moglie: «gliela sento gorgogliare nelle viscere convulse la tremenda risata, che alla fine proromperà […] da quella sua feroce bocca rossa tra il taglio dei lucidi denti. Ride come una pazza» (v. MN1, p. 250). In Ritorno (p. 462) comparirà una bella donna (amante del padre del narratore-protagonista), il cui sorriso «luceva sui denti tra le labbra rosse». Nella novella del 1931, Uno di più, una bimba non potrà più liberarsi dal ricordo della «risata così crudele, quasi da folle» della madre, né da quello della sua bocca «sanguigna». Tutti i casi citati hanno a che fare, in modo e misura diversi, con la sessualità femminile. Il riso femminile e le labbra rosse schiuse sui denti sono sempre, in qualche modo, ambivalenti metonimie che alludono all’adescamento, alla seduzione, all’offerta, all’impudenza, al piacere sessuale. Dunque anche il «ridere forte, con la sua bocca rossa, coi suoi denti splendidi, ridere come una pazza» del sogno di Amina, fa di quel sogno il luogo, onirico e perciò incensurato, dell’appagamento carnale che le è precluso nelle sue veglie di malata senza più corpo. Nella realtà, Amina è anima, è un angelo diafano e lieve; nel sogno è piuttosto una bimba perversa (si veda del resto la comparativa finale).
25 Nel corso di tutta la novella, la corporalità rinvia immancabilmente al campo metaforico dell’animalità. I registri emotivi e connotativi sono molto diversi: si va dal vezzeggiativo affettuoso della «pollastrotta» al diminutivo fiabesco della «formichetta» e alla delicata fragilità di «quegli insetti d’estate che, a toccarli appena, son lieve polvere d’oro tra le dita»; dalla belluinità delle grida di sofferenza della protagonista malata alle «grosse bestie strane» che la circondano, alla cugina in forma di mostruoso insetto e al marito-bue greve e triste. Ma, in tutti i casi, il corpo e la bestialità sono inseparabili. V. anche le osservazioni fatte, in altro orizzonte contestuale, a proposito di Scialle nero (n. 60).
26 Bimba (onomatopea infantile vezzeggiativa).
27 Mugolando nel pianto rabbioso.
28 Per questa teatralità delle passioni, v. Pena di vivere così, p. 367 e n 20.
29 Per un analogo gioco figurale con strascico v. La veste lunga II 810: «Ora, per il viaggio lungo fino a Zùnica indossava anche, per la prima volta, una veste lunga. / E le pareva d’esser già un’altra. Una damina proprio per la quale. Aveva lo strascico finanche negli sguardi; alzava, a tratti, le sopracciglia come a tirarlo su, questo strascico dello sguardo».
30 Alcuni anni più tardi, nell’ultimo paragrafo di Uno, nessuno e centomila, Vitangelo Moscarda dirà: «Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita» (v. RII, p. 901). Neppure Amina conclude, anche Amina è misteriosamente viva. E non pensa minimamente alle due epigrafi funerarie già contenute in quel suo lungo nome, né alla propria. Mentre la vita che non le appartiene più continua a svolgersi coi suoi riti cruenti di nascita e morte e a dibattersi nelle angustie delle necessità, per lei quel nome non è più né significato né significante, è «come uno scherzo», un lieto scarabocchio infantile disegnato e ripetuto per gioco e per piacere.
31 Amina, come si sa, è per prodigio narrativo predestinata ad uscire dalla vita a ritroso, per la porta dell’infanzia, e non a caso l’ultima figura che lo spazio diegetico le riserva è questo giocoso comparante infantile, e l’ultima immagine di lei che è dato scorgere è quella dello strascico dileguante d’una veste adulta goffamente indossata, per camuffarsi, da una bambina. La virtù metaforica e metamorfica dell’ultima comparativa realizza dunque pienamente il destino della protagonista.
1 Fu pubblicata per la prima volta, con il titolo Il Presepe di quest’anno, su «Il Mondo» di Milano il 24 dicembre 1916 (v. GAB, p. 50, e SFP, pp. 21 e 54-8). Entrò poi a far parte del terzo volume delle «novelle per un anno», La rallegrata (Firenze, Bemporad, 1922). Si riproduce qui il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1). Goj è il nome con il quale gli ebrei, e in ebraico, designano chiunque non appartenga al loro popolo.
2 Anche in Ritorno 3.6-8, una lirica della raccolta Fuori di chiave, d’una donna ebrea tedesca incontrata in viaggio Pirandello sottolineava le medesime caratteristiche: «Donna o giraffa? / Naso a scarpa, fulvo ed ispido / crine» (v. SPSV, p. 644).
3 Annota Sciascia: «Il ridere del signor Levi-Catelli [sic], a contrassegno dell’ebreo e a senso e morale della novella, è da credere provenga a Pirandello da Dante […], e da quel distico che Telesio Interlandi pose a “exergue” della rivista “La difesa della razza”: “Uomini siate, e non pecore matte, / sí che il Giudeo di voi tra voi non rida”. Ma Pirandello aveva ben presente il verso che lo precede: “Se mala cupidigia altro vi grida”; e scrive una novella, per un personaggio sgradevole come sempre i suoi piú compassionevoli, piena di umana tenerezza» (v. L. SCIASCIA, Alfabeto pirandelliano, Milano, Adelphi, 1989, pp. 30-1). Il rinvio dantesco è a Par. V, 79-81.
4 Malvolentieri, con riluttanza (la locuzione latina, che vale “a collo storto”, s’è conservata in italiano con valore avverbiale).
5 Non si sia ancora.
6 Fetore giudeo. L’espressione proviene dall’antisemitismo medievale, che attribuiva agli ebrei il cattivo odore che sempre caratterizza l’Altro e che, per quanto li concerneva specificamente, era connesso all’immagine sessualmente marcata del capro.
7 Effettiva, praticata.
8 L’ebreo.
9 L’espressione ebraica significa più propriamente “il popolo eterno”.
10 L’ex-ebreo, e quasi pseudo-ebreo, Daniele (Levi) Catellani è in sostanza uno di coloro che hanno capito il giuoco. Di qui la sua gratuita risata, espressione irresistibile d’un umoristico sentimento del contrario, cui peraltro consegue l’approvazione immancabile di tutti i punti di vista altrui. L’«approvar sempre, approvar tutto» non è semplice remissività e non è candore: è, per quanto grande possa essere lo sbalordimento che il suo riso esprime, rassegnato senso d’inanità e d’impotenza.
11 I narratori pirandelliani, riluttanti a entrare nell’azione narrata, preferiscono spesso tenersi paghi della signoria assoluta sulla parola e delegare i ruoli protagonistici o antagonistici a personaggi intermediari (concittadini, conoscenti, amici). L’alter ego di Un «goj» non potrebbe essere, in quanto ebreo, più altro ed estraneo di così, e per altro verso non potrebbe essere più di così prossimo al narratore in forza degli attributi che lo caratterizzano e che hanno via via caratterizzato i personaggi più consentanei alle istanze narranti del corpus: mansueto, remissivo, tollerante e paziente e, nel contempo, dispettosamente ridanciano. È a questo ebreo tanto incredulo e laico da poter essere scambiato lui stesso per un goj che il narratore-amico affida il compito di fustigare scherzando la cattolicissima ipocrisia del presepe in tempo di guerra, di fare cioè quanto egli si appresta a raccontare.
12 Cestini di vimini o di giunchi.
13 «Formaggio crudo di latte intero di pecora o di mucca, molto tenero e da consumare fresco, prodotto nell’Italia centrale» (GDLI).
14 Morbide.
15 Fattori.
16 Sorveglianti agricoli.
17 Verga, bastone (dal latino baculus) in fiore. In una lunga didascalia di scena di Questa sera si recita a soggetto si leggerà di «un vecchio truccato e parato da San Giuseppe, come si vede nei quadri sacri che rappresentano la Natività, con una spera di porporina attorno al capo e in mano un lungo bàcolo, fiorito in cima» (v. MN, p. 247). L’elemento iconografico del bastone rifiorente, che risale all’episodio dell’investitura sacerdotale di Aronne narrata in Numeri 17.6-8 («Mosè dunque parlò ai figli di Israele, e tutti i capi gli dettero ciascuno una verga per la sua tribù; furon dunque dodici verghe, oltre quella d’Aronne. Mosè le pose davanti al Signore nel tabernacolo della testimonianza; e tornato il giorno seguente, trovò che la verga d’Aronne, quella per la tribù di Levi, aveva germogliato; messe le gemme, n’eran usciti i fiori, e questi sbocciati avevano dato le mandorle»), è passato a caratterizzare Giuseppe sulla base di alcuni dei testi della tradizione evangelica non canonica (il Protovangelo di Giacomo, il Vangelo dello pseudo-Matteo e il Libro sulla natività di Maria, noti alla monaca scrittrice sassone del X secolo Roswitha e ripresi nel XIII secolo da Iacopo da Varagine nella sua Legenda aurea) che raccontano come Giuseppe sia stato scelto a sposo di Maria nello stesso modo, sebbene il prodigio attestato più spesso sia quello d’una colomba che esce dal bastone anziché quello della fioritura (v. I Vangeli apocrifi, a cura di Marcello Craveri, Torino, Einaudi, 1969).
18 Costruito.
19 Il plastico. V. già Frammento di cronaca di Marco Leccio…, p. 208.
20 Regione laziale il cui capoluogo è la città di Rieti.
21 Strumento a fiato simile al piffero.
22 Con «gioja quasi pazzesca» il giusto e mansueto Daniele circondato dai leoni trasforma la rappresentazione simbolica della natività, per eccellenza pacifica e affratellante, nella feroce allegoria dell’aggressione e della morte, della guerra di tutti contro tutti come vero fratricidio e deicidio. Minacciato da una belluina umanità in armi, è Cristo l’unico inerme altro, il goj del nuovo presepe allestito dal goj Catellani e dal narratore amico. Dietro la mascheratura del titolo e al di là della persecuzione ottusa che il protagonista patisce dal cristianissimo suocero, è questa di fatto la più anti-bellicista fra le novelle pirandelliane di guerra, quella che, dopo le titubanze e le angoscie del narratore dei Colloquii coi personaggi, di Marco Leccio e di Federico Berecche, chiude i conti con il conflitto mondiale completamente ignorando la distinzione fra aggressori e aggrediti e fra vincitori e vinti, e considerando come veramente memorabile solo «la gran carneficina».
1 Il 22 gennaio 1915, Pirandello scriveva ad Alberto Albertini (suo abituale referente presso il «Corriere della Sera»): «Caro Albertini, seguiranno a questa, sempre così velati (sic) di poesia, due altre novelle: Donna Mimma studia e Donna Mimma ritorna. Questo trittico, sì, Le piacerà, spero» (v. CAR, p. 197). Lo scrittore aveva dunque già spedito al «Corriere» la prima parte della novella, Donna Mimma parte, per la composizione della quale il gennaio 1915 va perciò considerato terminus ante quem. Nella sua interezza, la novella fu pubblicata per la prima volta su «La lettura» del gennaio 1917. L’anno successivo venne compresa nella raccolta Un cavallo nella luna (Milano, Treves, 1918). Venne infine ristampata, come novella eponima, nel nono volume delle «novelle per un anno», Donna Mimma (Firenze, Bemporad, 1925). Si riproduce qui il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
2 Scialle.
3 L’identica similitudine era stata usata per connotare la parrocchia del padre beneficiale Fiorica nella prima redazione de La Madonnina: «Una scatola di giuocattoli, di quelle che odorano deliziosamente di colla, con gli alberetti incoronati di trucioli, d’una ingenua tinta verde, con le casette di dadi di legno coperte di carta levigata, con la porta e le persiane delle finestre e le tegole dei tetti dipinte» (v. NUAI, p. 1489).
4 Vecchia moneta borbonica che, ancora intorno al 1870, in Sicilia corrispondeva a un controvalore di 12,75 lire. V. Ravanà (tra una messa e l’altra), n. 28.
5 Un po’ prominenti. V. Tra due ombre, n. 5.
6 Stante l’usanza che fosse la levatrice a portare il neonato a battesimo.
7 Ammicca e muta espressione.
8 «Tipo di guanto che riveste il dorso e il palmo della mano lasciando parzialmente scoperte le dita» (Devoto-Oli). Il filo in questione è il fine cotone ritorto detto comunemente filo di Scozia.
9 Senza esperienza dei casi della vita.
10 Come già nei casi di Lontano e della prima redazione di Un cavallo nella luna, il contrasto fra il nord (il continente, il Piemonte) e il sud (la Sicilia) corrisponde ad una opposizione socio-culturale fra moderno ed arcaico, fra progresso e arretratezza, fra emancipazione e primitività. La differenza fra quelle attualizzazioni del tema e questa è costituita dal fatto che a presiedere alla disamina della diversità è l’ottica candida, vereconda e fiabesca di donna Mimma, signora degli eufemismi ma rispettosa, ancor più, dell’eufemia, del silenzio devoto, e dunque scandalizzata dalla sfrontatezza della giovane concorrente.
11 Portoncino.
12 I termini propri dell’ostetricia.
13 Letteralmente, “messe al bando”, “scacciate” (da bandire con s- intensiva). Ma, nel caso, e come per il corrispondente bandito, il senso allude assai meno alla condizione passiva di chi subisce un bando e molto più ad una scelta di vita trasgressiva e vergognosa.
14 Non si vedono.
15 Il conflitto di legittimità professionale tra le due levatrici riproduce per un verso, e ribalta per l’altro, quello che vent’anni prima opponeva ne Il dottor Cimitero (e opporrà in Acqua e lì) il ciarlatano omeopata e il medico laureato. Lo ribalta perché qui è la vecchia esperta fata-levatrice senza diploma a venire messa sotto accusa dalla legge e abbandonata dal paese che pure ha letteralmente messo al mondo con le sue mani, lì invece era il medico-scienziato Antonio Corvo-Calajò, dal nome e dall’aspetto iettatori, a venir rifiutato dal paese che lo riteneva responsabile di tutti i decessi.
16 Maieutica (ossia ostetricia) nella deformazione della semi-analfabeta donna Mimma.
17 Due delle «parolacce», ossia i termini medici coi quali si designano rispettivamente lo stato infettivo generale e le procedure per combattere gli agenti infettivi.
18 Termini medici usati per qualificare le posizioni in cui un nascituro può presentarsi al momento del parto: di testa (cefalico) o di piedi (podalico) e bacino (pelvi).
19 L’immagine risale ai vv. 5-8 di Luna sul borgo, una lirica della raccolta del 1901 Zampogna: «O Luna, tu no ’l sai, ma in fila tante / e tante lune ha ormai quasi ogni strada / della città, che accese in un istante / son tutte; e lí nessuno a te piú bada» (v. SPSV, p. 603). V. anche Niente, p. 423: «tutte quelle lune vane in cima ai lampioni». Non sarà però fuor di luogo rammentare che proprio lune elettriche furono inizialmente chiamate le lampade dell’illuminazione pubblica.
20 Donna Mimma replica, in termini di spavento e smarrimento, l’esperienza che era stata della protagonista de Il viaggio (v. II 548).
21 Travolto per sempre dal fracasso assordante della città reale il quieto racconto fatato dei silenziosi viaggi a Palermo con la lettiga d’avorio e i due cavalli bianchi senza sonagli, un altro inconcepibile rovesciamento ha luogo: tocca al giovane nipote, che un’inferenza più che certa vuole sia stato fatto nascere da lei, aiutare donna Mimma a venire al mondo.
22 V. la novelletta autobiografica del 1898 La scelta I 452.
23 I richiami urlati a squarciagola.
24 Levatrice (derivato di mamma).
25 Giovane giovane, ragazzina. È il vezzeggiativo femminile di picciotto (per il quale v. Le medaglie, n. 19).
26 Quello da misurare in corrispondenza dei punti più sporgenti del processo acromiale delle scapole (essendo l’acròmio appunto l’apofisi, articolata con la clavicola, che prolunga lateralmente la spina della scapola).
27 Quello da misurare all’altezza della linea ideale che congiunge le due spine iliache anteriori-superiori.
28 Clinica, reparto.
29 Si tenga presente che è una piemontese a chiamare così la bimba che la interroga, e il diminutivo madamin in Piemonte vale “giovane signora”.
30 Tela di cotone sottilissima, stampata a colori vivaci.
31 Il narratore interviene in prima persona per commentare ironicamente l’arte di assimilarsi della Piemontesa. Nel farlo, però, assume un’ottica deliberatamente poco colta, più prossima a quella d’una comunità paesana di parlanti in dialetto che non a quella autorale: di qui le sue sottolineature della «parlata italiana» e del parlare «in lingua» della scaltra usurpatrice. In realtà, «che s’immagini» e «fare un bacio» sono calchi di altrettante espressioni dialettali piemontesi.
32 V. Genesi 3.16: «Disse ancora [il Signore Dio] alla donna: “Moltiplicherò i tuoi travagli ed i tuoi parti; partorirai tra i dolori i tuoi figli […]”».
33 Ordinaria, non scelta.
34 Recare conforto, sollievo.
35 È uscita di casa (accezione regionale siciliana).
36 Fantoccio in figura di strega che viene portato in giro per scherno e poi bruciato.
37 Che sembrano turco. L’espressione «Con quattro parole turchine» si trova registrata in uno dei frammenti stampati nell’Almanacco letterario Bompiani 1938 (v. SPSV, p. 1220).
38 Andando su e giù nervosamente.
39 Subito, senza indugio.
40 Diavola, folletto maligno.
41 La doppia metamorfosi umoristica è patetica e impietosa al tempo stesso. La vecchia fata paesana, perduta ogni aura, è avvilita e degradata a strega; la giovane e sapiente diavola cittadina s’è circondata di magia ed è stata promossa a fata. Donna Mimma è un eroe fiabesco mancato, la sua tardiva iniziazione alla realtà l’ha privata dei suoi attributi magici e resa incapace di assolvere ai suoi compiti, mentre la temeraria rivale, forte della sua sgombra ottica fondata sull’ordine reale, non ha avuto difficoltà ad impossessarsi dei piccoli segreti della magia paesana e ad assurgere ad eroina trionfante. E se, da principio, l’istanza di narrazione aveva avvolto di simpatia la vecchia fata candida ed ignorante, mostrando di capire il suo scandalizzato risentimento, alla fine neppure il benevolo narratore può occultare il suo scacco e la sua oggettiva degradazione, e neppure la sua autorità può più schierarsi dalla parte di donna Mimma.
1 Fu pubblicata per la prima volta su «Penombra» nel 1917. L’anno successivo venne compresa nella raccolta Un cavallo nella luna (Milano, Treves, 1918). Venne infine ristampata nel nono volume delle «novelle per un anno», Donna Mimma (Firenze, Bemporad, 1925). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
2 Rigagnolo, canaletto d’acqua corrente.
3 Le presenze prossime (stelle, zana, acqua, monti) di questo scenario iniziale richiamano a distanza la scena notturna de La levata del sole I 523-4.
4 Becchettargli. V. Dono della Vergine Maria I 464.
5 Strombatura, svasatura del muro.
6 Pendente dal soffitto. V. già Chi fu? I 300.
7 Accoccolato. Era stato detto di un bimbo ne La rosa, p. 78.
8 Presi in giro, burlati.
9 Non aveva mai tollerato il minimo affronto.
10 Alla repentina tragedia soggiace anche un altro motivo, qui collaterale ma altrove e in seguito fondante: quello dell’innesco casuale della catena delle cause e delle conseguenze che, una volta innescata, diventa subito incontrollabile e obbedisce ad una necessità imprevedibile e fatale. Il motivo, affiorato tanti anni prima in Se…, sarà il motore misterioso e terribile de Il chiodo e de La casa dell’agonia.
11 Cinque anni più tardi, nella definitiva versione di E due! (v. p. 607), il cardellino divorato e il gatto dimentico si accamperanno come fantasmi persecutori nella memoria del protagonista Diego Bronner che, turbato dal senso di colpa e ben conscio di non poter essere «come quel gatto là che, compiuto uno scempio, un momento dopo non ci pensava più», sarà indotto al suicidio.
12 Di novilunio, illune.
13 Apertasi sulla reciproca inconsapevolezza di due pietre vicine, la novella si chiude sull’estraneità delle cose di questo mondo e delle stelle che vi sfavillano sopra. Fulminee, la vicenda feroce e innocente del gatto e del cardellino e la tragedia degli uomini si svolgono, a loro volta estranee l’una all’altra, circondate da queste muraglie di estraneità. Sebbene il cardellino sia qui per i due vecchi l’affettuosa memoria reincarnata d’una nipotina morta, sebbene il «magnifico gattone bianco soriano» sia anch’esso una presenza affatto domestica in difesa della quale l’uomo si mobilita; non ostanti, soprattutto, le tante relazioni e le analogie fin troppo scoperte che legano uomini e bestie, il più evoluto dei tre regni naturali, quello animale, tende spesso a sdoppiarsi nel corpus pirandelliano proprio in ragione della memoria, della coscienza e dell’ambizione antropocentrica che caratterizzano l’uomo e lo differenziano dalla connaturata e innocente smemoratezza, dall’inconsapevolezza, dalla misura istintuale fissa e prevedibile degli animali. Qui il gatto, un cardellino e le stelle, altrove (v. la recente I due giganti, p. 265) le piante, ignorano quel che l’uomo pensa, sente e sa e sanno, forse, cose che l’uomo ignora del tutto. Con i protagonisti che il titolo, prudentemente ellittico, allinea, un gatto, un cardellino e le stelle, gli eventi naturali possibili sarebbero stati altri e non avrebbero potuto assumere contorni di sciagura, poiché nell’ordine naturale mancano i moventi per un ingranarsi tragico degli eventi. Sono i protagonisti elusi dal titolo ma attivi nella storia che scatenano la catastrofe: i due nonni che amano nel cardellino la memoria vivente della nipotina morta, il nonno che pretende di vendicare lo strazio colpevole di quella memoria amorosa sul gatto che s’è mangiato il cardellino. Pateticamente responsabile, in fondo, è solo il nonno di quella nipotina morta, naturalmente incapace di concepirsi solo come un nonno e di capire che quelli erano solo un gatto e un cardellino.
1 Fu pubblicata per la prima volta, con il titolo Caffè notturno, su «La Rassegna italiana» il 15 agosto 1918. L’anno dopo venne compresa nella raccolta Il carnevale dei morti (Firenze, Battistelli, 1919) e nel 1923, con il nuovo titolo, entrò infine a far parte del sesto volume delle «novelle per un anno», In silenzio (Firenze, Bemporad). Nel medesimo 1923, il 21 febbraio, la compagnia degli Indipendenti diretta da Anton Giulio Bragaglia mise in scena a Roma il «dialogo» L’uomo dal fiore in bocca, atto unico ricavato dalla novella. Nel caso specifico, parlare di transcodificazione drammaturgica del racconto è persino eccessivo, poiché ne La morte addosso alle ragioni tematiche narrative Pirandello ha ritenuto corrispondere perfettamente le ragioni formali in forza delle quali la pseudonovella, abolita ogni istanza narrante, è costituita interamente da un dialogo ed è dunque, di fatto, teatro pronto all’uso. Per farla mettere in scena, lo scrittore non dovette far altro (e non fece altro) che scandire la partitura discorsiva indicando alcuni segni d’espressione e le opportune pause. Già la prima stampa del 1918 (e ancor prima di essa, del resto, la stampa nel 1917 del «mistero profano» All’uscita in chiusura della raccolta novellistica E domani, lunedì…) è testimone del fatto che, a distanza di dieci anni, per il Pirandello pienamente padrone delle proprie strategie compositive sono venute completamente meno le occasionali ragioni critiche e polemiche che nel saggio Soggettivismo e oggettivismo nell’arte narrativa (compreso nel volume del 1908 Arte e scienza) lo avevano indotto ad esprimersi come segue sulla «novella dialogata»: «L’eccesso dell’oggettivismo si mostrò poi per un altro verso nello sviluppo fuor di misura che andò a mano a mano prendendo la parte dialogica, la quale tende sempre più a sopraffare la narrazione e anche ad emanciparsi da essa. Già il Rovetta nel romanzo L’Idolo introdusse direttamente i personaggi a comporre la scena, come in un dramma o in una commedia, staccandoli dalla narrazione. / L’ultima conseguenza di questo eccesso è la così detta novella dialogata. Ricorderò qui ancora una volta il Tommaseo, per un certo raffronto ch’egli, discorrendo nel Dizionario estetico della novella, voleva istituire tra questo componimento e la tragedia classica. “La novella sta al romanzo, – diceva, – a un dipresso come la tragedia osservatrice delle unità al dramma storico. E la novella e la tragedia classica condensano in piccolo spazio i fatti, i sentimenti che la natura presenta o dilatati o dispersi. L’una e l’altra pigliano il fatto, a dir così, per la coda; e di questa estremità si contentano; intese a dipingerci non le origini, non i gradi della passione, non le relazioni di quella con i molti oggetti che circondano l’uomo e servono a sospingerla, a ripercuoterla, ad informarla in mille modi diversi, ma solo gli ultimi passi, l’eccesso insomma”. / Ora la novella dialogata, quantunque più vicina esteriormente alla forma drammatica, è però la più lontana che si possa immaginare dal rigor sintetico della tragedia unitaria. / Sì, essa vorrebbe condensare, anche troppo: tutta una novella in una sola scena. Ma riesce spesso una scena staccata e quasi inorganica. Non sorretta più dal congegno narrativo, va su i lievi trampoli descrittivi delle didascalie, pestando un po’ troppo in vero quel volgare tappeto che è lo stile conversativo alla francese. E per voler troppo condensare da una parte è costretta a diluirsi soverchiamente dall’altra. Non si contenta di prendere il fatto per la coda, come dice il Tommaseo; ma lascia il fatto, riducendolo a un disegnino schematico in principio, e allunga la coda, dove – come si sa – si trova spesso il veleno. / La novella dialogata, insomma, mi fa un po’ l’effetto del topo, che ha la coda più lunga del corpo» (v. SPSV, pp. 203-4).
2 Resistente tessuto di cotone, a righe colorate, usato soprattutto per grembiuli o asciugamani.
3 Sedici anni più tardi, l’idea riaffiorerà nei pensieri d’un altro malato morituro: v. Di sera, un geranio, p. 559: «Una cosa, consistere ancora in una cosa, che sia pur quasi niente, una pietra. O anche un fiore che duri poco: ecco, questo geranio…». Questo dimenticarsi in visioni e cose estranee, questa tenace volontà d’essere altro, rappresentano l’ultima forma di letterale alienazione con la quale l’io si difende dall’orrore della fine, dalla morte come nullificazione.
4 Anche questa volontà di adesione e immedesimazione si ripresenterà, in termini di sgomento della morte, in Di sera, un geranio (v. p. 558).
5 È una riformulazione del motivo sviluppato in racconto ne La mano del malato povero.
6 Riscrittura e modulazione di un motivo ben noto: v. O di uno o di nessuno II 678 e n. 4.
7 Diverse l’una dall’altra.
8 Analogamente arredato è lo studio d’affitto del romanziere Ludovico Nota in Vestire gli ignudi, commedia che va a stampa nel medesimo 1923 in cui La morte addosso viene ristampata nelle «novelle per un anno»: «È un’ampia stanza d’affitto, con vecchi mobili scompagni, comperati di combinazione» (v. MN, p. 866).
9 Il personaggio sfiora discorsivamente un nodo dolente e complicato. Egli omologa e confonde come lavorio instancabile dell’immaginazione (lavorio che ha già dichiarato essere per lui un bisogno e che ha negato sia un piacere) due movimenti assai differenti: l’uno è quello proiettivo e adesivo, che gli procura una sorta di immedesimazione col fuori, l’altro è quello introiettivo e associativo, caratterizzato da illogicità e inesprimibilità. Nei fatti, l’immaginazione utile e necessaria (anche se non dà piacere) è quella che favorisce il moto da dentro a fuori e consente di mantenere un contatto con l’esterno, col mondo dei vivi e con la vita, laddove i richiami incomprensibili delle libere associazioni d’immagini sono paventabili richiami che rischiano di far invertire il movimento e di risucchiare il soggetto dentro se stesso, nell’indecifrabile e incomunicabile lavorio del pensiero inconscio, terrorizzato dalla morte e nel contempo invaso da rabbiose pulsioni di morte. La forma discorsiva medesima della novella rappresenta la lotta del soggetto contro questi richiami funebri e soliloquenti: abbordando lo sconosciuto avventore d’un caffè notturno, il protagonista morituro si sforza di trasformare in dialogo, ossia in moto discorsivo da io a tu, da dentro a fuori, l’urgenza monologica che lo fa parlare. Nella fattispecie, non si deve certo ad una presunta teatralità della lingua narrativa se il «dialogo» L’uomo dal fiore in bocca corrisponde alla più facile delle trascrizioni teatrali pirandelliane: l’esigenza dialogica è una necessità vitale del protagonista, così come lo spazio esiguo e insignificante concesso all’interlocutore è indizio non della pochezza di quest’ultimo, ma del bisogno incontenibile e patetico che l’altro ha di esternarsi.
10 Il passo è una ripresa variata della perorazione del personaggio nel primo dei Colloquii coi personaggi: v. p. 184.
11 Per l’ombra seguace della moglie, si veda lo spunto offerto nel 1914 da Zuccarello distinto melodista, p. 108. Per l’immagine della donna-strofinaccio v. Mondo di carta II 418 e n. 18.
12 V. TS, p. 46: «Potevo mettermi ferma placida, come voleva lui?». L’inversione tra femminile e maschile lascia intendere che l’appunto fu scritto senza una precisa destinazione, e tuttavia esso presiede senza ombra di dubbio alla variante introdotta qui nella redazione del 1923 (v. NUAII, p. 949).
13 La caratterizzazione dell’ambiente domestico (la lindura, il «silenzio di specchio», la pendola) preannuncia quella della casa della signora Léuca nell’incipit di Pena di vivere così (v. p. 364).
14 Città abruzzese dell’interno, affacciata alla Piana del Fucino. Epicentro del terremoto che aveva colpito la Marsica, era stata rasa al suolo il 13 gennaio 1915.
15 V. Il professor Terremoto II 502 e n. 2.
16 Spensierati (v. Un cavallo nella luna, n. 7).
17 In senso proprio, si dice tubero un organo vegetale particolarmente ingrossato (come nella patata o nella barbabietola) e uno specifico genere di funghi. Il termine deriva però dal latino tuber, che significa “escrescenza”, “tumore”.
18 Tumore maligno del tessuto epiteliale.
19 V. sopra la n. 16.
20 L’episodio dei baci contagianti sarà ripreso a parti invertite, e assiologicamente rovesciato dalla dedizione patetica al patetismo crudele, in Pena di vivere così, p. 378.
21 Un analogo orrore del vuoto e dei rischi cui la vertigine della vacuità espone era stato già espresso da Perazzetti in Zuccarello distinto melodista, p. 102.
22 Questo furioso e cieco scenario di morte, che qui balena per un istante alla mente del morituro, coverà a lungo e diventerà racconto dispiegato solo nel 1931, in Soffio.
23 Turgide, invitanti. L’aggettivo era stato usato in senso proprio, nel remoto 1902, in Lontano I 660.
24 Un’eco di questo desiderio di vita affidato a un infantile rituale metamorfico e propiziatorio sarà avvertibile in Di sera, un geranio, p. 559.
1 Fu pubblicata per la prima volta, con il titolo Come Cirinciò per un momento si dimenticò d’esser lui, su «La lettura» nell’agosto 1918. L’anno dopo venne compresa nella raccolta Il carnevale dei morti (Firenze, Battistelli, 1919), e nel 1923, con il nuovo titolo, entrò infine a far parte del sesto volume delle «novelle per un anno», In silenzio (Firenze, Bemporad). In una lettera del 31 dicembre 1917 a Vincenzo Bucci, redattore del «Corriere della Sera», Pirandello scrive: «Sono più di tre anni che giacciono presso il “Corriere” due mie novelle inedite che hanno per titolo “Parentesi” e “La cattura”. La guerra ne impedì la pubblicazione» (v. CAR, p. 211). Nella non altrimenti nota Parentesi sarebbe da riconoscere proprio La maschera dimenticata e, cosa ancor più importante, la composizione della novella andrebbe datata all’incirca al 1914.
Il cosiddetto Taccuino segreto conserva, insieme a una prima ipotesi di titolo, uno schematico e parziale sommario della novella: «L’uomo che s’è scordato d’esser lui. // Don Ciccino Cirinciò è mandato durante le elezioni politiche generali, a sostenere in uno dei paeselli della provincia la candidatura dell’avvocato Laleva, figlio d’un suo amico e benefattore, da cui spera ajuto e salvezza nelle tante sciagure che la sorte gli ha inflitto. Non sa bene perché in quel paese abbiano mandato lui e non un altro: ma non va solo: gli danno a compagno uno, che all’atto pratico si rivela inadattissimo. Cirinciò allora esce in grinta; si scopre un propagandista mera» (nell’intenzione forse è restato a metà nella penna un meraviglioso, ma l’appunto termina così, tronco; v. TS, p. 89).
2 Il cognome, quasi perfettamente omofono, induce a ricordare il berrettaio girgentano don Marcuccio La Vela, il quale «dei tanti anni passati in quel commercio pare non avesse saputo ricavare altro guadagno che il nomignolo di Cirlinciò, che in Sicilia, per chi volesse saperlo, è il nome d’un uccello sciocco» (v. La berretta di Padova I 670).
3 Per il ritornante toponimo, v. La mosca, n. 10.
4 La somma smisurata e quasi leggendaria dei mali di Cirinciò vale ad istituire ancora una volta l’iperbole che innesca il discorso umoristico (v. Dono della Vergine Maria, n. 2).
5 Chiamato, soprannominato.
6 Quasi superfluo rammentare che, fuorché a Montelusa, l’unico ad aver titolo per essere «inteso» a questo modo è l’ingegnoso hidalgo Don Chisciotte; del quale, infatti, e in particolare della «espantable y jamás imaginada aventura de los molinos de viento», Pirandello aveva estesamente parlato ne L’umorismo (v. SPSV, pp. 97-104) e, proprio per dire, mettendo a confronto Ariosto e Cervantes, che quello dell’uno «è il riso dell’ironia», quello dell’altro «il riso dell’umorismo».
7 «A esprimere incredulità, stupore, rimprovero; anche per indicare che non si vogliono ammettere le conseguenze che altri potrebbe trarre da quanto è detto prima (nel senso di ebbene? e con questo?)» (GDLI).
8 Smisurati (da bardella, “basto”, con s- privativa).
9 Pugni (v. Un invito a tavola, n. 15).
10 Lo considero.
11 Lettere di presentazione e raccomandazione.
12 Il sintagma ha la pregnanza d’un paradigma verbalizzato una volta per tutte, e nel contempo rinvia, a ritroso, addirittura al 1902 e al remoto ascendente de Il dovere del medico I 705: «Si sentiva ancora come nel vuoto, in un vuoto però tranquillo, soave, di sogno». Là si trattava d’una realistica, e letterale, convalescenza; qui d’una miracolosa guarigione psicologica ed esistenziale. Come s’è visto e detto, il vuoto è più spesso uno stato di soglia disforico, marcato da segni negativi (attonimento, tetraggine, abulia, nausea, stanchezza ecc.) e in particolare dai contrari dei due attributi che qui lo qualificano: afa asfittica e plumbea gravezza. È sempre così quando il vuoto si produce per perdita d’identità e di realtà e per svuotamento d’una precedente pienezza e vitalità. Qui siamo in presenza del rovescio euforico del vuoto proprio perché esso è determinato da un movimento opposto, ossia dallo sciogliersi d’una sofferenza grumosa e dal venir meno d’una clausura luttuosa (se ne è visto uno specifico corrispettivo nella sequenza lutto-vuoto-rifioritura della vita che caratterizza i personaggi femminili de La rosa e de La camera in attesa). La soglia disforica del vuoto è rimpianto, estenuazione, pulsione di morte; il vuoto come euforia è energia, è slancio, è anelito di realtà. E ad accompagnarlo come sua viva metafora naturale c’è anche qui, se non proprio (come parecchie altre volte) la fragrante rifioritura primaverile, la «freschezza di quell’azzurro di marzo corso da allegre nuvole luminose».
13 Repentinamente.
14 Non è un caso che, nonostante le differenti situazioni e la diversa età dei protagonisti, anche ne Il dovere del medico (I 705) alla sensazione convalescenziale di «un vuoto […] tranquillo, soave, di sogno» seguisse un analogo sentimento: «Tutto, tutto era finito; la vita ricominciava adesso…». È un altro grande e diffuso motivo, infatti, quello che viene riassunto dal fiducioso «come se»: quello della tenace illusione del ricominciamento e della rinascita. Nel protagonista de Il dovere del medico quell’illusione si colora di entusiasmo infantile, nel Fausto Silvagni de La rosa di nostalgia e di speranza di riscatto; qui si traduce nel prorompimento imprevedibile e travolgente di un’energia vitale recondita e vergine.
15 V. La rosa, p. 81 e n. 11.
16 V. Formalità, n. 5.
17 Si confondeva, vaneggiava.
18 Anche la parentetica e provvisoria energia vitale era misteriosamente venuta «di dentro», come di dentro proviene ora il richiamo funebre della maschera dimenticata. E non è difficile capire (basta aver presente l’incipitale ritratto di Cirinciò, «zitto zitto zoppicante e con gli occhi fissi e cupi sotto la fronte grinzuta») che di dentro è venuto persino il diabolico ometto che non smette di fissarlo. Tant’è vero che «con gli occhi di quell’ometto» Cirinciò si vedrà «rientrare in se medesimo». Per un breve intervallo, e senza ragioni apparenti, quel doppio funebre e frustrante era stato tacitato e cacciato, e il ridevole don Chisciotte montelusano era stato davvero, tra lo sbalordimento suo e di tutti, un paladino invincibile. Nessuno può spiegare la fuggevole metamorfosi, ma anche per essa vigono le leggi del mondo narrato pirandelliano, che non predestinano mai al successo le repentine rinascite dei personaggi, per vigorose e appassionate che possano essere. E, in riferimento a quelle leggi, la rotta sciaguratamente circolare che riconduce infine Cirinciò alla luttuosa realtà di partenza dopo un percorso che gli fa attraversare nell’ordine l’euforia del vuoto, una breve stagione di pienezza vitale ed un ulteriore, disforico svuotamento, può considerarsi esemplare.
1 Fu pubblicata per la prima volta nel «numero straordinario dedicato alle Armate di Terra, del Cielo e del Mare» di «Aprutium», nel 1918. L’anno dopo venne compresa nella raccolta Il carnevale dei morti (Firenze, Battistelli, 1919), e nel 1928 entrò infine a far parte dell’undicesimo volume delle «novelle per un anno», La giara (Firenze, Bemporad). In una lettera del 31 dicembre 1917 a Vincenzo Bucci, redattore del «Corriere della Sera», Pirandello scrive: «Sono più di tre anni che giacciono presso il “Corriere” due mie novelle inedite che hanno per titolo “Parentesi” e “La cattura”. La guerra ne impedì la pubblicazione» (v. CAR, p. 211). La composizione della novella andrebbe dunque datata all’incirca al 1914.
2 Ripide salite, impennate.
3 È la ben nota mappa descrittiva di Agrigento e dintorni.
4 Pietrisco. V. la remotissima Visitare gl’infermi I 320 («– Eh, ma se voi del municipio, – lo interruppe il Deodati a questo punto, – non ci volete pensare a riparar lo stradone! / – Come no? – rispose vivamente il Pòntina. – Ci s’è pensato! / – Sì! Avete fatto scaricare i mucchi del brecciale, per dar modo ai ragazzi di fare alle sassate. Chi li stende? Debbono stendersi da sé?») e n. 23.
5 V. TS, p. 65: «Così è tutta fossi, quando l’imbrecciano poi, a passarci in carrozza!».
6 V. Lo storno e l’Angelo Centuno II 539: «[…] le ombre paurose della campagna di qua e di là dello stradone, ove la polvere era così alta, che non faceva neanche sentire il rumore degli zoccoli dell’asinella».
7 Tessuto di lana fitto e pesante.
8 Tessuto grosso di cotone.
9 Borbottio e gorgoglio insieme.
10 Per questa verbalizzazione dei motivi congiunti della vanitas vanitatum e del taedium vitae, impossibile non richiamare il precedente fondante de I vecchi e i giovani (v. RII, p. 42) e quello diretto di Canta l’Epistola: «Ecco: sdrajato lì su l’erba, con le mani intrecciate dietro la nuca, guardare nel cielo azzurro le bianche nuvole abbarbaglianti, gonfie di sole; udire il vento che faceva nei castagni del bosco come un fragor di mare, e nella voce di quel vento e in quel fragore sentire, come da un’infinita lontananza, la vanità d’ogni cosa e il tedio angoscioso della vita» (v. Canta l’Epistola II 638 e n. 22).
11 Quelli che, al tramonto, invitano a pregare la Vergine.
12 Affiora la metafora-comparazione che con la sua ridondanza pervaderà l’intera vicenda e connoterà da cima a fondo i sequestratori di Guarnotta.
13 Se avessero agito su commissione.
14 Così veniva definito, anche dal vecchio codice penale, il sequestro di persona a scopo di estorsione. Ne I vecchi e i giovani si legge: «nelle campagne e nei paesi della provincia i reati di sangue, aperti o per mandato, per risse improvvise o per vendette meditate, e le grassazioni e l’abigeato e i sequestri di persona e i ricatti erano continui e innumerevoli, frutto della miseria, della selvaggia ignoranza, dell’asprezza delle fatiche che abbrutivano, delle vaste solitudini arse, brulle e mal guardate» (v. RII, pp. 161-2).
15 Muffito, putrido. Quest’odore penetrante e disgustoso si era combinato con lo squallore dell’alba anche nella scena della sala anatomica di Visitare gl’infermi, che ne faceva registrare l’altra, e più ripugnante, occorrenza: «l’alba cominciava a stenebrare appena, scialba, umidiccia, l’ampia Sala, a cui tutti i disinfettanti non riescono a togliere quell’orrendo tanfo di mucido» (v. I 330).
16 Mai neutro, il silenzio è anzi quasi sempre, nel corpus, un dato circostanziale carico di senso, poiché rappresenta una delle più ovvie epifanie metonimiche del vuoto (anche qui è, non per caso, «vano»). E proprio in forza del suo essere vuoto di voci e rumori (segnali di presenze e di relazioni), adempie a due importanti funzioni narrative: nelle occorrenze più numerose accompagna e connota la condizione sospesa e inquieta dell’attesa; qui, invece, figura della solitudine e del distacco, è metafora, e quasi incarnazione, dell’assenza di memoria e della perdita d’identità relazionale che la smemoratezza comporta. Il più lontano antecedente di questa accezione può ravvisarsi ne La levata del sole (v. I 523), dove il tempo, nel silenzio della campagna, era «smemorata quiete»; mentre l’identico sintagma («silenzio smemorato») occorrerà nuovamente nella redazione del 1922 de L’uomo solo (v. II 594) e riaffiorerà ancora, nel postremo 1936, in Vittoria delle formiche (v. p. 599).
17 La vera avventura del vecchio Guarnotta, che, fin da principio (v. p. 322) oppresso da «una vana pena infinita», guardava al mondo come a un deserto e attribuiva ormai alla propria vita una consistenza «di cenere», prende avvio da qui, dalla duplice constatazione («Sapeva di non potere e quasi non voleva», «non avrebbe avuto più la forza, fors’anche neppure il desiderio») della connivenza che lega la sua impotenza alla sua abulia.
18 Da cinque centesimi, ossia da poco.
19 Il contesto rende ambiguo il termine, che può significare sia “sinistro” che “manchevole”, “difettoso”.
20 Vecchia moneta borbonica che, ancora intorno al 1870, in Sicilia corrispondeva ad un controvalore di 12,75 lire. V. Ravanà (tra una messa e l’altra), n. 28.
21 Sporche di terra.
22 Tenero, poco consistente.
23 Per prima cosa, come prima mossa.
24 Persuadere quel suo istinto atterrito a fare (v. La balia I 795 e n. 11).
25 Guarnotta è evidentemente tenuto prigioniero su un poggio fuori mano negli immediati dintorni di Girgenti: era infatti precisamente il medesimo giro d’orizzonte quello che nove anni prima si poteva abbracciare, ne I vecchi e i giovani, da una finestra della casa del D’Ambrosio collocata in cima al colle della città, presso la Bibirria o Porta dei Venti: «Il panorama, di fronte, era profondo e montuoso. A destra, si levava fosco e imminente monte Caltafaraci; più là, in fondo, il San Benedetto; quindi s’allargava il piano di Consòlida, e a mano a mano, sempre più verso ponente, il pian di Clerici, di là dalla montagna di Carapezza e di Montaperto più qua» (v. RII, p. 169).
26 Sporgenza, spuntone.
27 Vincenzo Guarnotta si chiamava ne I vecchi e i giovani anche un amico morto della cerchia di Roberto Auriti (v. RII, p. 233).
28 Paese dell’interno, distante da Agrigento una ventina di chilometri.
29 V. Genesi 2.7: «Formò dunque il Signore Dio l’uomo dal fango della terra, e gli inspirò in faccia lo spirito della vita, e l’uomo divenne persona vivente».
30 Grosso panno di lana.
31 Vaso panciuto.
32 Lunario popolare (il nome, antonomastico, è quello d’un almanacco popolare assai diffuso, che viene pubblicato a Foligno fin dal ’700, e che mescola previsioni, predizioni, proverbi, aneddoti, ricette ecc.).
33 Nello spazio della dittologia («meraviglie grugnite e sbalordimenti bambineschi»), sinonimica nei membri sostantivali e radicalmente antonimica in quelli aggettivali, è racchiusa la contraddizione irriducibile di quegli uomini-bestia ma ha luogo anche la loro metamorfosi da maiali in fanciulli e in figli putativi di Guarnotta.
34 Nel 1925, il protagonista di Uno, nessuno e centomila darà della solitudine la definizione seguente: «La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, e soltanto possibile con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto vi ignorino, che del tutto voi ignoriate, così che la vostra volontà e il vostro sentimento restino sospesi e smarriti in un’incertezza angosciosa e, cessando ogni affermazione di voi, cessi l’intimità stessa della vostra coscienza. La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l’estraneo siete voi» (v. RII, p. 748). Ma il movimento (dopo La mano del malato povero e Mentre il cuore soffriva) è ormai ben noto: di distacco in distacco, di svuotamento in svuotamente, la relazione io-realtà si allenta fino a sfilacciarsi e il soggetto, più ancora che dividersi, perde di coesione e si disaggrega. Non c’è forse modo migliore per misurare a fondo l’orrore di un tale isolamento che metterlo a confronto, sia pure a grande distanza, con il movimento complementare e contrario, quello che aveva espresso nel lontano 1902 il protagonista di Quand’ero matto: «Penetravo anche nella vita delle piante e, man mano, dal sassolino, dal fil d’erba assorgevo, accogliendo e sentendo in me la vita d’ogni cosa, finché mi pareva di divenir quasi il mondo, che gli alberi fossero mie membra, la terra fosse il mio corpo, e i fiumi le mie vene, e l’aria la mia anima; e andavo un tratto così, estatico e compenetrato in questa divina visione» (v. I 766). A quella fervida espansione dell’intimità, a quella prodigalità d’investimento di sé nella totalità del reale, corrisponde perfettamente questa arida estraniazione e alienazione dal mondo e da sé. E tuttavia la condizione di Guarnotta non è soggettivamente angosciosa poiché, «quantunque incerta, strana e come sospesa nel vuoto», non rappresenta uno stato di soglia precario e strapiombante, dal momento che egli non è più agitato né da nostalgie né da desideri.
35 «Pane costituito da una corona di panini» (GDLI). Dal latino tardo buccella, “bocconcino”.
1 Con il titolo Ieri e oggi fu pubblicata per la prima volta su «Il Messaggero della domenica» l’8 giugno 1919. L’anno stesso venne compresa nella raccolta Il carnevale dei morti (Firenze, Battistelli, 1919), e nel 1925 entrò infine a far parte dell’ottavo delle «novelle per un anno», Dal naso al cielo (Firenze, Bemporad). Si riproduce qui il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1), edizione nella quale per il titolo viene adottata la grafia Jeri e oggi. In una lettera ad Alberto Albertini del 29 ottobre 1915, Pirandello, come sempre cortese e deferente verso il destinatario e il «Corriere della Sera», ma risentito verso «La lettura» e il direttore Renato Simoni, scrive: «mandai su i primi d’agosto una novella alla “Lettura”. Pochi giorni dopo, il Simoni mi scrisse che la mia novella gli era sembrata “deliziosa” e che l’avrebbe pubblicata subito, se un lieve dubbio non gli fosse sorto su l’opportunità di pubblicarla senza qualche ritocco, parendogli la verità con cui era descritta la costernazione di alcuni giovani ufficiali in partenza per il fronte potesse accrescere l’ansia angosciosa dei parenti che hanno figliuoli al campo. M’affrettai a rispondergli che non mi pareva; che avevo anch’io un figliuolo al campo, sottotenente di fanteria, e che non potevo in alcun modo condividere quel suo dubbio senza sentirmi in colpa; se perciò credeva di non poter pubblicare così com’era la novella, me la rimandasse. Son passati circa tre mesi, son cioè usciti i fascicoli di settembre, d’ottobre e di novembre della “Lettura”, e la novella che “poteva esser pubblicata subito, se facevo i ritocchi”, non è stata ancora pubblicata e non mi è stata neppure rimandata, com’io chiedevo. Cosicché io ho avuto non un danno solo, ma due. E non so proprio perché. Stando costà presso il Simoni, la novella da sé non si ritocca. Ora, delle due l’una: o il Simoni intende pubblicarla così com’è, e allora poteva pubblicarla subito, o nel fascicolo d’ottobre o in questo di novembre; o non intende pubblicarla, e allora poteva rimandarmela, ché a quest’ora l’avrei collocata altrove» (v. CAR, pp. 198-9). A questo sfogo insolitamente puntiglioso segue, il 7 novembre, una sorprendente e totale palinodia: Pirandello scrive, ancora all’Albertini, nei termini seguenti: «Caro Albertini, riconosco, rileggendo la novella, che Simoni ha fatto bene a non pubblicarla, e lo ringrazio e gli chiedo scusa del mio risentimento. La novella fu scritta sotto un’impressione dolorosa. Credevo d’averla superata con la rappresentazione del diverso pianto delle due donne dopo la partenza, e mi accorgo adesso che no. Questa rappresentazione resta schiacciata dall’angoscia della partenza, e l’effetto della novella è proprio quello temuto giustamente dal Simoni. Ringrazio anche Lei cordialmente, caro Albertini, della generosa profferta di compensarmi la novella. Non è il caso, perché non solo io non ho avuto nessun danno dalla mancata pubblicazione, ma ho avuto anzi un bene, di cui resto grato al Simoni» (ivi, p. 202). La ritrattazione è così umilicorde e contrita da risultare a stento credibile e da suscitare non poche perplessità sulla sua spontaneità. Ad ogni modo, la composizione di Jeri e oggi andrebbe dunque datata al 1915 e, più probabilmente e precisamente, alle settimane della primavera-estate che seguirono l’entrata in guerra dell’Italia e nelle quali cadde la partenza di Stefano Pirandello per il fronte.
2 V. Quando si comprende, p. 228: «Scoppiata la guerra, il figliuolo, chiamato sotto le armi, s’era iscritto al corso accelerato degli allievi ufficiali; dopo tre mesi, nominato sottotenente di fanteria e assegnato al 12° reggimento, brigata Casale, era andato a raggiungere il deposito a Macerata, assicurando loro che sarebbe rimasto colà almeno un mese e mezzo per l’istruzione delle reclute; ma ecco che, invece, dopo tre soli giorni lo mandavano al fronte».
3 V. l’incipit: la dichiarazione di guerra all’Austria è del 24 maggio 1915.
4 Mostrina.
5 Altura presso Gorizia sulla destra del fiume Isonzo. Fu teatro di cruenti combattimenti nel 1915 e 1916 nel corso delle cinque battaglie dette appunto dell’Isonzo, poiché gli austriaci ne avevano fatto un baluardo difensivo della testa di ponte goriziana. La vetta venne espugnata il 21 novembre 1915, mentre l’altura fu conquistata per intero solo nell’agosto successivo.
6 V. Quando si comprende, p. 228: «Avevano ricevuto a Roma il giorno avanti un telegramma che annunziava questa partenza a tradimento».
7 Il personaggio di Sarri non è altro che un operatore umoristico incarnato, che col suo disincanto rovescia come un guanto il comune e ordinato senso della realtà. È colui che oppone l’allegra Ninì al patetico e all’eroico degli addii e della morte in guerra, colui che la schiaffeggerà violentemente quando Ninì tradirà il proprio ruolo passando dal riso al pianto, e colui che provocherà il doppio incontro stridente della madre e della sgualdrinella, dell’istanza grave e iettatoriamente luttuosa fissata allo ieri e di quella frivola e volubile pronta a seppellire il pianto di ieri sotto il riso di oggi.
8 Non sarebbe certo stato lui a mancare (ovvero a sprecare l’opportunità) di morire (v. La mosca, n. 15).
9 V. Quando si comprende, p. 227: «I passeggeri arrivati da Roma col treno notturno alla stazione di Fabriano dovettero aspettar l’alba per proseguire in un lento trenino sgangherato il loro viaggio su per le Marche».
10 V. Quando si comprende, p. 228 dove a parlare è il padre del partente: «Disse che da vent’anni non vivevano più che per quell’unico figliuolo. Per non lasciarlo solo, l’anno avanti, dovendo egli intraprendere gli studi universitari, s’erano trasferiti da Sulmona a Roma».
11 V. Leviamoci questo pensiero, n. 2 e soprattutto Pena di vivere così, n. 20. Questa penetrante considerazione, suggerita dall’angoscia tesa ed esaltata del povero padre, verrà riformulata nel 1922, in Enrico IV, dal personaggio di Belcredi per descrivere la profonda conflittualità che caratterizzava l’indole dell’innominato protagonista: «DOTTORE […] Dunque, già un po’ esaltato era, a quanto mi pare di aver compreso! BELCREDI Sì, ma in un modo così curioso, dottore! DOTTORE Come sarebbe? […] BELCREDI Non dico che simulasse l’esaltazione. Al contrario, anzi: s’esaltava spesso veramente. Ma potrei giurare, dottore, che si vedeva subito, lui stesso, nell’atto della sua esaltazione, ecco. E credo che questo dovesse avvenirgli per ogni moto più spontaneo. Dico di più: sono certo che doveva soffrirne» (v. MN2, pp. 801-2).
12 La medesima idea sarà ripresa e sviluppata da Pirandello, e desolatamente riferita a se stesso, in una lettera a Marta Abba del 4 aprile 1930: «Io non vivo, se non come da lontano, questo tempo che passa e mi sembra che non mi tocchi più e non sia più per me. Mi fa l’impressione che sia tutto passato, e che io sia come morto, e che perciò, se dico una cosa… ecco, no, la dicevo… e se faccio una cosa… no, la facevo… la gente che vedo, la vedevo… se mi parla, mi parlava… e così via… – È una spaventosa impressione: vedere come passato il presente! Ma di questo stranissimo fenomeno, che senza dubbio sembrerebbe un manifesto segno di pazzia se lo dicessi a uno psichiatra, io vedo chiarissimamente la ragione. La mia vita è presente in Te, che sei lontana. Io vivo qua, perciò, come lontano dalla mia vita e da me stesso, come in un passato. Ciò che è lontano come spazio, si fa anche lontano come tempo… e dunque, dicevo, facevo, vedevo, mi parlava… – È proprio così!» (v. LMA, p. 376).
13 Chiodate.
14 “Campagna” in accezione militare, s’intende.
15 Versione moderna del mezzo pubblico trainato in precedenza da cavalli (v. La buon’anima, n. 8).
16 Un grande cappello di paglia.
17 Tuttavia, nondimeno.
18 Capezzoli.
19 Sottinteso: era scoppiata a piangere.
20 Preda di un’angoscia incontenibile.
21 Nelle Marche (v. Quando si comprende, p. 227).
1 Fu pubblicata per la prima volta, con il titolo Corvo,77 - Asino, 23 - Caduta, 80, su «Il Marzocco», il 26 ottobre 1902, e successivamente compresa, già reintitolata, nella raccolta Il carnevale dei morti (Firenze, Battistelli, 1919). Venne infine inclusa nel sesto volume delle «novelle per un anno», In silenzio (Firenze, Bemporad, 1923).
2 Babbeo, scioccone: «Deriv. dalla radice onomat. *babb- (che indica balbuzie, stupidità)» (GDLI).
3 Compito, dovere.
4 Arboscelli giovani.
5 A piacimento.
6 In senso stretto, la gugliata è la quantità di filo che si infila nell’ago (aguglia) volta per volta.
7 Basto.
8 Trappola.
9 Nastro ornamentale.
10 Andò, riuscì.
11 Il Cichè del 1919 eredita dal Calanca del 1902 la «gioja feroce» e la crudeltà.
12 «Striscia di cuoio (detta anche sottocoda) in cui si infila la coda del cavallo e che sostiene la sella» (Devoto-Oli).
13 Finimento consistente in una striscia di cuoio fissata dietro la sella (o il basto) e che termina col posolino.
14 La favola paesana, nella sua redazione definitiva (databile, ritocchi minori a parte, al 1919) è una fiaba nefasta e impietosa, nella quale il favolista ripaga ad usura la grettezza ottusa, superstiziosa e vendicativa del contadino Cichè. Se, nel favolismo classico, gli animali venivano investiti dei vizi e delle virtù dell’uomo, in queste storielle pirandelliane di povere bestie e poveri diavoli, l’umanità sta tutta dalla parte delle bestie, e la bestialità è tutta degli uomini (v. al proposito anche Notizie del mondo I 584 e nn. 44 e 46). Dalla versione del 1902, che pure non tratteggiava con maggiore simpatia gli uomini e soltanto nell’asino Ciccio ravvisava un malinconico filosofo, spirava, nonostante tutto, tutt’altra bonomia. E nella chiusura a scatto che legava (con un tipico meccanismo novellistico retrospettivo) incipit e lieto fine, era ancora riconoscibile una qualche inclinazione antropocentrica. Come il vecchio titolo lasciava infatti presagire fin da principio, la vicenda che coinvolgeva il corvo, l’asino e il contadino, pur comportando la morte dei primi due e la caduta del terzo, suggeriva anche tre buoni numeri da giocare al lotto; e proprio da ciò la novella prendeva avvio: «Con questo terno Calanca vinse al lotto sei mila e più lire; comperò un bel poderetto di circa due ettari di terra, che gli rendeva ogni anno, tra orzo, frumento, frutta e ortaggi, di che vivere abbondantemente con la moglie e i figliuoli, e si consolò della vendetta del corvo, dell’asino perduto e della gamba rotta, ché della propria disgrazia egli aveva tratto il terno fortunato». Riassunta così ancor prima d’essere stata raccontata, la favola proponeva una vecchia e solida morale: non tutto il male viene per nuocere. Nel primitivo finale, l’asino spaventato disarcionava il padrone prima d’andare a sfracellarsi nel burrone insieme allo sfortunato corvo: «E dunque: 23, 77, 80. Conclusione della povera gente. Quando vien bene, una gamba rotta» (v. I 720 e 724). Nel caso, però, una gamba rotta e un terno secco: la povera gente ci può stare, con buona pace del corvo e dell’asino, e col sorriso dei lettori. La versione del 1919, non a caso allegata al fascicolo intitolato al «carnevale dei morti», salva, con implacabile umorismo nero, solo l’innocente e scampanellante libertà del corvo sbeffeggiato e perseguitato, mentre riduce l’uomo e l’asino (il padrone e il servo) a un confuso «carnajo» umano-asinino mangiato dalle mosche. Sorridere è difficile: il registro testuale è passato dai timbri della novella paesana a quelli del conte cruel pirandelliano. Nel caso specifico, Pirandello non ha avuto bisogno di modificare profondamente l’impianto narrativo; ha anzi potuto conservarlo pressoché intatto fino alla soglia della catastrofe: gli è bastato ribaltare quest’ultima per raccontare una tutt’altra storia.