Visita

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 16 giugno 1935. Venne poi inclusa dall’editore nel quindicesimo volume, postumo, delle «novelle per un anno», Una giornata (Milano, Mondadori, 1937).

2 Per quanto in quei racconti non si faccia menzione di camerieri, il cenno pare rinviare alle affollate e chiassose, e non sempre ben accette, visite dei personaggi di cui si legge in Personaggi, ne La tragedia d’un personaggio e nei Colloqui coi personaggi. In particolare la «servetta» Fantasia, che «fa da usciere» in Personaggi (v. II 237) e che è ancora in servizio nella Prefazione del 1925 ai Sei personaggi in cerca d’autore (v. MN2, p. 653), aveva la dispettosa abitudine di scovare lei stessa i visitatori del suo padrone e di introdurli in casa, perché egli ne traesse «novelle e romanzi e commedie, la gente più scontenta del mondo, uomini, donne, ragazzi, avvolti in casi strani da cui non trovan più modo a uscire». Qui quella servetta bizzarra, ancorché invecchiata, sarebbe stata fuori luogo, e viene sostituita da un cameriere impeccabilmente imperturbabile.

3 E stavolta il sogno, pur chiuso nella parentesi dell’incipit umoristico e leggero della novella, è più che mai un appagamento di desiderio.

4 Porta-finestra.

5 Il corpus abbonda di canapè e di divani, e nella sua porzione estrema questo e poi il divano di Effetti d’un sogno interrotto vi svolgono funzioni narrative importanti.

6 Tessuto d’origine indiana, di cotone molto leggero, trasparente e un po’ rigido, e perciò vaporoso.

7 Si rammenti l’analogo cappellone della Amina di Piuma (p. 271), anche là in struttura iconografica e coloristica con il «traforo verde» di un pergolato e il «cristallo azzurro» d’una fontana.

8 Per l’attimo eterno v. La toccatina, n. 21; per questo specifico passo, invece, e anche per la successiva secca sentenza di p. 572: «C’eravamo già intesi. Doveva bastare», v. Il viaggio II 550 e n. 42.

9 Questa assolutezza ed eternità del presente rappresentano in certo modo i complementari della relatività ed attimalità del presente di Una giornata. Qui si racconta infatti un attimo incancellabile, là una durata inafferrabile.

10 Terza e ultima occorrenza del termine, per il quale v. Ritorno, p. 461 e n. 26.

11 V. TS, p. 58: «Era d’una piacenza così placida, che a mirarla nessuna bramosìa carnale poteva sorgere»; e naturalmente Un’idea, p. 563: «È […] di una piacenza così nobilmente placida e pura, che nessuna bramosia carnale può sorgere in chi la miri». In Ritorno si trattava della bella donna, amante del padre, che un ragazzino voleva oltraggiare e che era «d’una piacenza tutta carnale ma placida perché soddisfatta, vestita di raso nero e luccicante d’ori nella penombra». Sulla traccia esigua di una parola e del suo attributo seguace e inseparabile, «placida», pare quasi che lungo un filo isotopico prezioso un’unica storia si sgrani nel tempo e si manifesti in tre successive e differenti epifanie. Prima un tenero adolescente, poi un fidanzato, poi un uomo che dovrebbe avere vent’anni di meno. Tre uomini, o uno solo, che si sono imbattuti in luoghi e modi diversi, ad età differenti, nella donna dotata della incomparabile virtù seduttiva formata dalla miscela di piacenza e placidità. Nel primo caso l’amore è impossibile, nel secondo è divenuto impossibile, nel terzo lo tronca la morte. Si può vivere e soffrire a lungo, si può vivere nella rinuncia, si può morire giovani o invecchiare soli. Ma la felicità intera che pure la piacenza femminile contiene e promette non è alla portata di donne e uomini ed è in ogni caso interdetta.

12 In altro clima, più frivolo e più mondano, più brioso e meno doloroso, la signora Anna Wheil replica qualche tratto che era adombrato nella signora Léuca di Pena di vivere così. Per un altro verso, in Anna Wheil vengono liricizzati e innalzati ad allegoria trionfante della femminilità e del recondito e represso eros femminile alcuni tratti che, in termini più realistici, Pirandello avrebbe almeno voluto (il condizionale è imposto dagli esiti particolarmente incerti) fossero propri, quasi quindici anni prima, della Evelina de La signora Morli, una e due, della quale si leggeva nella didascalia d’entrata: «La signora Morli ha circa trentasette anni. È quale i casi della vita e la compagnia d’un uomo malinconico, posato e scrupoloso come Lello Carpani l’hanno ridotta: vale a dire seria, contegnosa, compresa del rispetto che una donna e una madre cosciente dei suoi doveri verso la società e la famiglia, deve ispirare con la sua dignità inappuntabile, temperata però da un misurato languore nello sguardo, nella voce, nei sorrisi, di nobile compatimento, ispirato da non si sa quale soave rimpianto lontano. Tutto questo, si badi, senza la minima ombra di affettazione, come una necessità naturale della sua convivenza col Carpani, la quale, senza concorso di volontà o di studio, abbia determinato istintivamente in lei questo suo modo d’essere, quasi che, volendo piacere all’uomo con cui convive, ella non abbia mai pensato di poter essere altrimenti» (v. MNII, p. 199).

13 È uno dei passi di più intenso erotismo nella novellistica di Pirandello, ma l’intensità ed anche la spregiudicatezza di questa intesa amorosa attraverso gli sguardi possono sussistere solo a patto che ogni concupiscenza sia esclusa; purché, cioè, il desiderio sessuale resti separato dal piacere che i due sessi si donano reciprocamente. Paradossalmente, l’uomo spoglia con gli occhi la donna, e la donna gode di essere spogliata, tanto che i suoi occhi sfavillano «d’un estro quasi folle di riconoscenza»; ma la sessualità non deve destarsi. La mostruosità della castrazione viene esorcizzata solo tramite una proiezione assolutizzante, angelica ed edenica, del rapporto amoroso, quella che fa dei due personaggi «il solo Uomo» e «la sola Donna» nel giardino del paradiso (che sarà denotato poco oltre).

La prova

1 Fu pubblicata sul «Corriere della Sera» il 22 ottobre 1935. Venne poi inclusa dall’editore nel quindicesimo volume, postumo, delle «novelle per un anno», Una giornata (Milano, Mondadori, 1937). La novella venne inviata ad Aldo Borelli, direttore del «Corriere», il 18 ottobre 1935: «Caro Borelli, Vi mando, appena tornato da New York, questa novella, e Vi prometto che riprenderò regolarmente la mia collaborazione perché è mia ferma intenzione compire le mie “Novelle per un anno”, tenendomi lontano dal teatro» (v. CAR, p. 248). Il 23 settembre, appunto da New York, Pirandello aveva scritto a Marta Abba: «Ho lavorato anche qui, sai? ho lavorato al romanzo e ho scritto ben cinque novelle che darò al “Corriere” subito appena arrivato» (v. LMA, p. 1225). Il romanzo cui Pirandello dice d’aver lavorato corrisponde presumibilmente alle Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla Terra. Difficile invece identificare con certezza il quintetto dei racconti americani: le novelle subito inviate al «Corriere» e rapidamente pubblicate dopo il ritorno in patria furono La prova, La casa dell’agonia e Fortuna d’esser cavallo, alle quali seguirono i primi due racconti ambientati a New York, Una sfida e Il chiodo. Il terzo di questi ultimi, La tartaruga, sarebbe uscito invece nell’agosto del 1936 su «La lettura».

2 Tutto sommato, la cosa più curiosa è proprio questa: che della storia nata dalla «facile fede» e dal candore dei due chierici abbia a rendere testimonianza il narratore «stravagante e spregiudicato» di tante storie umoristiche; come se a venir messe a sua insaputa alla prova fossero proprio la sua maliziosa incredulità e la sua stessa credibilità.

3 Il laghetto montano di Tovel, su cui si affaccia il convento, si trova in fondo ad una valle laterale della Val di Non che si diparte, in direzione sud-ovest, proprio da Tuenno, e dista da questo paese una decina di chilometri.

4 Sia Tuenno che Flavon sono paesini della Val di Non, nel Trentino.

5 «Spessa cortina che si appende alle porte di ambienti comunicanti direttamente coll’esterno, per impedire al freddo di penetrarvi» (Devoto-Oli).

6 V. Cinci, p. 549 e n. 26.

7 Quasi superfluo rammentare, a questa altezza, che il riconoscimento beffardamente umoristico della pacifica superiorità delle bestie sull’uomo riemerge senza sosta nel corpus. A puro titolo di specimen risalente al remoto 1902, v. Al valor civile I 736: «Dicendo a gli uomini: tigri, jene, lupi, serpi, scimmie o conigli, Bruno Celèsia temeva di fare a quelle bestie un’ingiuria che non si meritavano, perché ciascuna, conforme e obbediente alla propria natura; mentre l’uomo! falso, l’uomo. E dunque, sputi in faccia, all’uomo, e possibilmente calci in un altro posto».

8 Sottinteso: campi. V. TS, p. 69: «Là campi di fave […]; qua lavorati freschi; fumano; s’è ingrassato bene la terra nera. E questi grani novelli, pare un mare».

9 Bacchetta, verga.

10 V. TS, p. 69: «Una ragazza con un frusto in mano bada ai porcellini che trottano fitto grufando».

Fortuna d’esser cavallo

1 Fu pubblicata per la prima volta, amputata della parte iniziale, sul «Corriere della Sera» il 23 novembre 1935. V. La prova, n. 1. L’8 dicembre, in una lettera al redattore capo del giornale, Oreste Rizzini, Pirandello se ne lamentava: «[…] Borelli mi promise che, ove qualcuna delle mie novelle avesse superato le due colonne, non mi si sarebbe domandato di mutilarla. Tutto quello che scrivo è veramente essenziale e non mai frondosità che sia anzi bene potare. Non può immaginare che pena m’abbia fatta l’amputazione di tutta la prima parte dell’ultima novella pubblicata sul Corriere (Fortuna d’esser cavallo). La pena è tanta che se si dovesse ripetere mi toglierebbe il piacere di pubblicare altre mie cose sul Corriere» (v. CAR, p. 252). Venne poi restaurata e inclusa dall’editore nel quindicesimo volume, postumo, delle «novelle per un anno», Una giornata (Milano, Mondadori, 1937). Nel riprodurre quest’ultima lezione, si richiama quanto sulla medesima dice Costanzo: «Per le novelle raccolte in N15 dopo la morte dell’A. abbiamo tenuto conto del riscontro editoriale effettuato nel 1937 su manoscritti o dattiloscritti o prove di stampa attualmente non più reperibili» (v. NUAI, p. 1063).

2 Per questa marcatissima ambientazione, v. Le sorprese della scienza II 163 e n. 33, e Ritorno, p. 459 e n. 10.

3 Cavezza: «Fune o correggia di cuoio che, sistemata a forma di museruola, serve a tener legato per il capo il cavallo o altro animale» (GDLI).

4 Piaga che, per attrito, i finimenti provocano agli animali da tiro o da soma.

5 Fin qui si estendeva l’amputazione imposta dai criteri redazionali del «Corriere della Sera».

6 Scarto.

7 Questa «fortuna» del cavallo, che consiste nel non pensarci, risuscita l’insistito confronto fra uomini e bestie che attraversa l’opera pirandelliana; e rinvia in primo luogo alla disputa fra Serafino e l’amico Simone Pau nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore: «– Scusa, e come so io del monte, dell’albero, del mare? Il monte è monte, perché io dico: Quello è un monte. Il che significa: io sono il monte. Che siamo noi? Siamo quello di cui a volta a volta ci accorgiamo. Io sono il monte, io l’albero, io il mare. Io sono anche la stella, che ignora se stessa! / Restai sbalordito. Ma per poco. Ho anch’io – inestirpabilmente radicata nel più profondo del mio essere – la stessa malattia dell’amico mio. / La quale, a mio credere, dimostra nel modo più chiaro, che tutto quello che avviene, forse avviene perché la terra non è fatta tanto per gli uomini, quanto per le bestie. Perché le bestie hanno in sé da natura solo quel tanto che loro basta ed è necessario per vivere nelle condizioni, a cui furono, ciascuna secondo la propria specie, ordinate; laddove gli uomini hanno in sé un superfluo, che di continuo inutilmente li tormenta, non facendoli mai paghi di nessuna condizione e sempre lasciandoli incerti del loro destino. Superfluo inesplicabile, chi per darsi uno sfogo crea nella natura un mondo fittizio, che ha senso e valore soltanto per essi, ma di cui pur essi medesimi non sanno e non possono mai contentarsi, cosicché senza posa smaniosamente lo mutano e rimutano, come quello che, essendo da loro stessi costruito per il bisogno di spiegare e sfogare un’attività di cui non si vede né il fine né la ragione, accresce e complica sempre più il loro tormento, allontanandoli da quelle semplici condizioni poste da natura alla vita su la terra, alle quali soltanto i bruti sanno restar fedeli e obbedienti. / L’amico Simone Pau è convinto in buona fede di valere molto più d’un bruto, perché il bruto non sa e si contenta di ripeter sempre le stesse operazioni. / Sono anch’io convinto ch’egli valga molto più d’un bruto, ma non per queste ragioni. Che giova all’uomo non contentarsi di ripeter sempre le stesse operazioni? Già, quelle che sono fondamentali e indispensabili alla vita, deve pur compierle e ripeterle anch’egli quotidianamente, come i bruti, se non vuol morire. Tutte le altre, mutate e rimutate di continuo smaniosamente, è assai difficile non gli si scoprano, presto o tardi, illusioni o vanità, frutto come sono di quel tal superfluo, di cui non si vede su la terra né il fine né la ragione. E chi ha detto al mio amico Simone Pau, che il bruto non sa? Sa quello che gli è necessario e non s’impaccia d’altro, perché il bruto non ha in sé alcun superfluo. L’uomo che l’ha, appunto perché l’ha, si pone il tormento di certi problemi, destinati su la terra a rimanere insolubili. Ed ecco in che consiste la sua superiorità! Forse quel tormento è segno e prova (speriamo, non anche caparra!) di un’altra vita oltre la terrena; ma, stando così le cose su la terra, mi par proprio d’aver ragione quando dico ch’essa è fatta più pe’ bruti che per gli uomini. / Non vorrei esser frainteso. Intendo dire, che su la terra l’uomo è destinato a star male, perche ha in sé più di quanto basta per starci bene, cioè in pace e pago. E che sia veramente un di più, per la terra, questo che l’uomo ha in sé (e per cui è uomo e non bruto), lo dimostra il fatto, ch’esso – questo di più – non riesce a quietarsi mai in nulla, né di nulla ad appagarsi quaggiù, tanto che cerca e chiede altrove, oltre la vita terrena, il perché e il compenso del suo tormento. Tanto peggio poi l’uomo vi sta, quanto più vuole impiegare su la terra stessa in smaniose costruzioni e complicazioni il suo superfluo» (v. RII, pp. 526-8).

La casa dell’agonia

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 6 novembre 1935. Venne poi inclusa dall’editore nel quindicesimo volume, postumo, delle «novelle per un anno», Una giornata (Milano, Mondadori, 1937). V. La prova, n. 1.

2 Si rammenti l’analogo attacco di Un ritratto, p. 55.

3 L’immobilità silenziosa di questa casa rinvia, in parte per antifrasi, all’incipit di Pena di vivere così (v. p. 364): «Silenzio di specchio. E la fresca lindura di quelle tendine di mussola alle finestre. E quest’odore di cera ai pavimenti. Da undici anni così, la casa della signora Léuca. / Ma ora s’è fatta nelle stanze come una strana sordità. I chiari arredi, i lucidi mobili par che stiano sospesi in uno sgomento d’attesa, alla notizia incredibile. / Come ha potuto dir di sì, la signora Léuca? Dunque davvero il marito, dopo undici anni di separazione, tornerà a convivere con lei? / Di là, intanto, quel tic e tac lento e staccato della pèndola grande. Séguita ancora nel silenzio quella pèndola a battere le ore e le mezz’ore, come se non sapesse nulla e il tempo dovesse continuare a scorrere sempre allo stesso modo»

4 Per questo raffronto tra mobili vecchi e nuovi, v. Un ritratto, p. 55 e soprattutto Lillina e Mita II 232 e n. 40.

5 Tarli (tarma, passato a designare in italiano il lepidottero che attacca tessuti e fibre vegetali, proviene peraltro dal latino tarmes -itis, che designava appunto il tarlo del legno).

6 Questa precisa immagine, ma anche la sensazione di tempo sospeso che emana dall’ambiente decrepito e sfatto, provengono (veicolate dalla capillarità sorprendente della memoria interna pirandelliana) dal lontanissimo 1909 e dalla visita del cavaliere Gian Battista Mattina, convocato da un invito misterioso, in casa del canonico Pompeo Agrò ne I vecchi e i giovani: «Spirava da tutti i mobili, dal tappeto, dalle tende, quel tanfo speciale delle case antiche, d’una vita appassita nell’abbandono. Quasi il respiro d’un altro tempo. Il Mattina si guardò di nuovo attorno con una strana costernazione per la immobilità silenziosa di quei vecchi oggetti, chi sa da quanti anni lì senz’uso, e si accostò di più allo specchio per scrutarsi davvicino […]. Stava per scostarsi dallo specchio, allorché sul piano della mensola, chinando gli occhi, scorse qua e là tanti bei mucchietti di tarlatura disposti quasi con arte, e si chinò a mirarli con curiosità. Avevano lavorato bene quelle tarme, e nessuno intanto pareva tenesse in debito conto la lor fatica… Eppure, il frutto, ecco là, bene in vista, che diceva: “Questo è fatto. Portate via!”. Stese una mano a uno di quei mucchietti, ne prese un pizzico e strofinò le dita. Niente! Neanche polvere… E, guardandosi i polpastrelli dell’indice e del pollice, andò a sedere su una comoda poltrona accanto al canapè. Seduto, la scosse un po’, come per accertarsi della solidità. / “Neanche polvere… Niente!”» (v. RII, pp. 66-7).

7 Gambe.

8 V. L’ombra del rimorso, p. 483 e n. 16.

9 Si lanciavano come saette, sfrecciavano.

10 Il capoverso precedente dà come terribile l’ignoranza della minacciosa imminenza delle concause e dunque l’imperscrutabilità del caso e della sorte. Ma ben più terribile è la postazione di colui che il caso pone nella condizione di vedere dispiegata la catena delle cause e di doverne osservare la fatale ineluttabilità. Un padrone invisibile l’ha invitato lassù, in quella casa dove non si fa trovare e dove maturano a vista e imponderabilmente, nel silenzio di un tempo senza variazioni, gli eventi: allegoria di un cosmo idiota senza ragioni e senza fini.

11 L’anonimo «nessuno», che ha veduto quel che mai bisognerebbe vedere, ossia l’ingranarsi del meccanismo del mondo dal punto di vista del principio e del prima in assenza di qualsiasi dio, fugge invano dall’intollerabile spasimo d’attesa che la vista di quell’insensatezza dà: fugge verso l’unica possibile meta, il punto nel quale la catena delle concause farà avvenire la catastrofe. L’umor nero della sua premonizione estrema, quasi una metafisica autoironia, non ha più nulla di propriamente umoristico: è piuttosto una sorta di sublimato, un impalpabile umorismo trascendentale.

Una sfida

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 1° gennaio 1936. L’anno dopo venne inclusa dall’editore nel quindicesimo volume, postumo, delle «novelle per un anno», Una giornata (Milano, Mondadori, 1937). Si riproduce quest’ultima lezione, non senza richiamare quanto sulla medesima dice Costanzo: «Per le novelle raccolte in N15 dopo la morte dell’A. abbiamo tenuto conto del riscontro editoriale effettuato nel 1937 su manoscritti o dattiloscritti o prove di stampa attualmente non più reperibili» (v. NUAI, p. 1063). V. La prova, n. 1.

2 Dopo le fortunate tournées teatrali degli anni ’20, Pirandello era stato di nuovo a New York, per curare da vicino interessi cinematografici che però non andarono mai in porto, nel corso del 1935. Il nome dell’ospedale (Israel Zion) e del malato (Jacob) fanno capire che si tratta di un ebreo newyorkese.

3 Tosato l’uno, completamente calvo l’altro, quasi certamente esuli e immigrati entrambi, Jacob Shwarb e Jo(seph) Kurtz hanno in comune più cose di quante non giungano a sospettare. Ma proprio questo probabilmente fa sì che l’uno riconosca a sua stessa insaputa nell’altro il proprio schernevole e insopportabile doppio. Perciò non serve che Jo Kurtz dica o faccia qualcosa di irritante per alimentare l’antipatia di Shwarb.

4 Gli ultimi tre capoversi allineano un’infilzata di «forse» troppo tolleranti e comprensivi perché si possano accreditare alla stizza feroce di Shwarb e che vanno dunque messi in conto all’istanza narrante (come più oltre quelli di p. 589). Il narratore che, pur senza condividerne il dispetto, racconta perlopiù dal punto di vista dello sfidante, non ne sa più del suo personaggio, e quando si sforza di risalire sine ira et studio la catena dei moventi e delle intenzioni, inciampa in una serie di ipotesi che, equivalendosi e restando inverificabili, non spiegano nulla.

5 Paralume di stoffa.

6 Scatta, balza.

7 In realtà, è il solo Shwarb a lanciare la sfida e a raccoglierla, a parlare a se stesso (senza dire una parola) e a rispondersi. E la prova provata di ciò sta nel fatto che la violenza contro l’avversario consiste esclusivamente nella violenza contro se stesso.

8 Attacchi, crisi.

9 Da qui in avanti, il finale che si leggeva nella prima stampa sul «Corriere della Sera» era il seguente: «– E se il giudice ti domanda, – gli suggerisce l’avvocato, – “ma t’ha forse preso qualcuno e costretto a buttarti dalla finestra? Il tuo atto fu volontario”, tu gli risponderai: “Nossignori. Io ero sicuro che me l’avrebbero impedito. Diedi al sorvegliante tutto il tempo; tanto è vero che, prima di buttarmi, mi voltai a guardarlo”. – “E lui che fece?” – “Lui mi sorrise e, con la mano, mi fece: vai pure, vai pure”. Vedrai che il giudice si metterà le mani tra i capelli» (v. NUAIII, p. 1442).

10 In questa prima delle tre novelle newyorkesi, la finale causa per danni lascia ipotizzare che Pirandello abbia narrativizzato un fait-divers molto americano, di suo arricchendo la curiosa, e pirandellianamente paradossale, pretesa di risarcimento del mancato suicida con il prolungato silenzioso duello fra il ghigno di Jacob Shwarb e il sorriso frigido di Jo Kurtz, con il tormento e la rabbia anarchica dell’uno e l’indifferenza paciosa ed enigmatica del suo alter ego. Il quale verrà licenziato e raggiungerà il guarito e risarcito Shwarb nel ruolo di disoccupato, ma non si scompone. Nonostante la sentenza del giudice, l’esito della sfida resta sub iudice, come è fatale che sia quando i due avversari sono l’uno il doppio dell’altro e nessuno dei due viene eliminato.

Il chiodo

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 21 gennaio 1936. L’anno dopo venne inclusa dall’editore nel quindicesimo volume, postumo, delle «novelle per un anno», Una giornata (Milano, Mondadori, 1937). V. La prova, n. 1.

2 Dopo Una sfida, ambientata a Brooklyn, è questa la seconda novella newyorkese di Pirandello. Harlem è infatti il quartiere dei neri di New York.

3 «Morto, come da sempre» appariva anche il ragazzo ucciso dalla pietrata in Cinci, p. 551.

4 Uno straordinario chiasmo grande rende ragione dell’arresto psicologico che pietrifica l’esterrefatto omicida. Il paradigma dell’ordine naturale degli eventi vorrebbe contigui il «subito dopo» e lo «stramazzare» della piccola vittima e ugualmente contigue, ma successive, le impressioni terribili del vederla «morta come da sempre» e del «tempo infinito» che questa immagine di morte occupa. La geniale verbalizzazione chiastica (che fa perno sulla cerniera unica del vedere) interpone invece una eternità di morte, tanto più orrenda quanto più immobile e sospesa, nell’istante apocalittico corrispondente all’interstizio temporale infinitesimo fra il colpo che uccide e lo stramazzare dell’uccisa.

5 Impietrito.

6 Ritorna, più che mai sofferto dall’ignaro personaggio, il motivo della deterministica fatalità. Il larvale protagonista de La casa dell’agonia aveva potuto vedere combinarsi sotto i suoi occhi e coagularsi in causa cieca ma ineluttabile le casuali concomitanze; questo povero ragazzo, involontario omicida innamorato della sua vittima, non sa spiegare il proprio gesto, efferato e casuale, che con un concorso feroce di cause rette da una subdola volontà intesa a costringerlo a fare ciò che ha fatto.

7 Per il tramite appena percettibile della semplice congiunzione “e”, il discorso, fin qui solo narrativamente monologante, slitta (quasi in un gemito che non può più essere soffocato) nel soliloquio interiore in forma diretta: prova suprema di come, pur gestite da un’istanza narrante cronisticamente imperturbata, tutte le riflessioni, le impressioni e le sensazioni provengano prima dalla «cupa maraviglia» e dallo sbigottimento, poi dalla «disperata pietà» e dallo «sconsolato amore» che agitano il protagonista.

8 Attacco, crisi.

9 Tutto parrebbe (sulla scorta di Cinci, p. 550) scaturire, per perfida analogia, da qui: da un’istintiva violenta ribellione del ragazzo alla crudeltà e alla violenza. L’istinto, tutt’altro che malvagio, cui ha ciecamente ubbidito è stato quello di sciogliere immediatamente il groviglio di violenza che gli si è parato davanti.

10 Old Lyme, piccolo centro in prossimità della foce del fiume Connecticut.

11 Finte colonne.

12 Ancora, e dunque fino alla fine, l’eden regressivo e pacificante è la campagna, luogo della memoria, luogo del sogno, luogo della purificazione e della redenzione; laddove, anche qui, è la città il luogo in cui le cattive cause tendono i loro agguati e in cui la violenza insensata si scatena, il luogo cui presiede la meccanica ottusa della morte.

13 Il rapido sommario finale, con il congetturale racconto prospettivo (un non-racconto come tutte le storie al futuro), interrompe bruscamente e allontana una vicenda che non ha conclusione. Il narratore-cronista che ne ha voluto ricostruire le fila dal punto di vista, altrimenti ignoto, dell’uccisore, la abbandona discretamente, defilandosi dietro un segno, il forse, che ne segna la non ulteriore narrabilità e che è, da parte sua, una remissione del mandato e dell’autorità narrativa. La stessa immagine, patetica e tenera, del pianissimo conclusivo non appartiene più alla storia narrata ma solo al discorso, commosso, di colui che se n’è fatto testimone. Un abisso incolmabile separa l’inaugurale chiodo «caduto apposta», che ha fatto franare il tempo e gli eventi, e la visione immutabile, eterna di Betty che si accampa infine, frutto esclusivo di una congettura di colui che parla, nella memoria a venire del protagonista.

Vittoria delle formiche

1 Fu pubblicata per la prima volta su «La lettura» del febbraio 1936. L’anno dopo venne inclusa dall’editore nel quindicesimo volume, postumo, delle «novelle per un anno», Una giornata (Milano, Mondadori, 1937).

2 V. Fuga, p. 436 e n. 32.

3 V. I giganti della montagna (in MNII, p. 1344): «COTRONE E ci vuol la fame, eh Quaquèo? perché un tozzo di pane ti dia la gioja del mangiare, come non te la potranno mai dare, sazio o disappetente, tutti i cibi più prelibati. […] DOCCIA E solo quando non hai più casa, tutto il mondo diventa tuo. Vai e vai, poi t’abbandoni tra l’erba al silenzio dei cieli; e sei tutto e sei niente… e sei niente e sei tutto».

4 Escrescenze di pelle intorno alle unghie.

5 Importante costrutto sintattico latino.

6 Intontimento, istupidimento.

7 L’accostamento fra la terra e l’infanzia è di per sé illuminante: da un lato spiega come l’amore ininterrottamente attestato per la campagna sia spesso intriso di nostalgia, dall’altro come il richiamo della terra sia sempre regressivo.

8 S’era oscurato, s’era fatto nero (v. Difesa del Mèola, n. 13).

9 La decisione sterminatrice matura repentinamente solo quando il personaggio, accostandoli, fa coincidere il formicaio e il formicolio dei pensieri e dei rimorsi. Ed è quest’ultimo che vuol far cessare dando fuoco al primo. Anche il vento, del resto, che moribondo accuserà d’essersi alleato con le formiche «con quella sconsideratezza che gli è propria, da non potersi nell’impeto fermare neppure un minuto per riflettere a quello che fa» (v. p. 597 è, proprio in forza di questa umanizzazione, non quello atmosferico, ma la ventata improvvisa e irriflessa della follia; quella sì alleata delle vittoriose formiche interiori.

Il buon cuore

1 La novella venne inviata al «Corriere della Sera» il 7 aprile 1936, «a nome» dello scrittore, da una non altrimenti nota Segreteria generale di S.E. Luigi Pirandello con sede al n. 39 di via F. Corridoni in Milano. Il giorno successivo, il redattore capo Oreste Rizzini rispose, con la breve lettera seguente, indirizzata a Roma (via Antonio Bosio, 15): «Caro Maestro, sono veramente desolato di non poter pubblicare così come sta la Vostra bellissima novella. Vi sono particolari di una vivezza eccessiva per un pubblico vasto come il nostro e la maggior parte dei lettori si fermerebbe a questi particolari, senza arrivare alla comprensione dell’altissima moralità del tema» (v. CAR, pp. 257-8). Venticinque anni dopo, ridiventano attuali certe vecchie riluttanze (v. Il coppo, n. 1) del «Corriere» dinanzi a temi ritenuti scabrosi e irritanti per il grande pubblico. Eppure, nel 1911, il giornale aveva pubblicato Il libretto rosso, dove si parlava di un miserabile mercato usurario intorno ai neonati trovatelli e della morte per fame di uno di questi. Forse, una storia che, ambientata nell’immaginaria Nisia e riferita a proletari meridionali affamati, tanti anni prima era potuta passare, non era più accettabile nel 1936 con protagonisti borghesi non allontanati e sfumati dal filtro della diversità. Il buon cuore venne pubblicata postuma sulla «Nuova Antologia» il 16 febbraio 1937, e nel maggio dello stesso anno venne inclusa dall’editore nel quindicesimo volume delle «novelle per un anno», Una giornata (Milano, Mondadori, 1937).

2 L’attacco narrativo è nel caso ben più che abruptivo: la storia, pregressa, è stata già rubricata da un interlocutore benpensante come un caso immorale di mercato di bambini. Come in altre circostanze, il narratore si sente spinto a ri-narrarla per rispondere e controbattere a quel severo parere e, come altre volte, finge di condividere appieno l’opinione che si pretende candida di chi incolpa dell’accaduto solamente il buon cuore. Ma, a differenza di altre volte (si pensi a Risposta o a Il treno ha fischiato), il narratore non correggerà né rinnegherà mai quell’opinione mistificante: saranno i fatti scrupolosamente raccontati a ridicolizzarla e invalidarla.

3 Quest’indicazione (v. I fortunati II 613) fa de Il buon cuore l’ultimo racconto di ambiente girgentano (o montelusano).

4 L’iterazione seriale e la gradatio sono meccanismi tipici del racconto infantile e della fiaba, e perciò adibiti anche all’ironizzazione della tragicomica disgrazia che colpisce la coppia.

5 Recriminazioni.

6 A chi è dovuta la mancanza.

7 Il motivo dell’ansia di procreare per motivi di interesse patrimoniale ed ereditario (che si tratti di acquisire il diritto a una eredità o di assicurarsi un erede diretto) è un ingrediente narrativo antico in Pirandello. Era stato dispiegato fin dal 1904 ne Il fu Mattia Pascal con l’avido e non più giovane Batta Malagna, che, sposata in seconde nozze Oliva, «la figlia d’un fattore di campagna, sana, florida, robusta e allegra; e così unicamente perché non potesse esser dubbio che ne avrebbe avuto la prole desiderata», dopo tre anni senza figli prende a rimproverare e malmenare la giovane moglie. E Mattia, in veste di narratore informato dei fatti, osserva: «A Oliva era nato fin dal primo anno il sospetto, che, via, tra lui e lei – come dire? – la mancanza potesse più esser di lui che sua, non ostante che egli si ostinasse a dir di no. Ma se ne poteva far la prova? Oliva, sposando, aveva giurato a se stessa di mantenersi onesta, e non voleva, neanche per riacquistar la pace, venir meno al giuramento» (v. RI, pp. 339-41). Dal romanzo il motivo (come l’analogo movimento narrativo) era passato per intero, nel 1916, nella commedia campestre Liolà.

8 Provocatrice.

9 Dopo il computo seriale degli anni ineluttabilmente sterili (v. la n. 4), è la volta di quello, ancora più buffo, delle gravidanze presunte.

10 Languidi.

11 Impetuosamente, senza prudenza.

12 La baronessa Vittoria Vivona, malinconicamente sterile, aveva assegnato in dote, fin dal 1913, il medesimo ammontare a Nicolina, la ragazza che era stata capace di dare un figlio al barone e alla quale, morto quest’ultimo improvvisamente, pareva onesto e opportuno trovare «un buon giovine per marito» (v. Tutt’e tre II 843).

13 La svolta della vicenda passa attraverso il ribaltamento di questa cerniera ironica. Tutto va per il meglio finché il «buon cuore» è da interpretarsi al contrario (fintanto cioè che nessuno dei personaggi ne mostra); tutto precipita viceversa dal momento in cui la falsa madre prova pietà per la madre vera.

14 Ancora una volta il grande motivo-mito della maternità trionfa di ogni ragione; e il prevalere della forza carnale e primordiale della maternità incurante di qualunque sacrificio avrebbe potuto costituire, negli anni precedenti, un degno finale per una storia svoltasi quasi per intero all’insegna dell’interesse, dell’egoismo e del sotterfugio. Qui, viceversa, costituisce solo un falso finale.

15 Il vero finale, sotto le specie quasi farsesche della figura di enumerazione che mette in fila e in ceppi la piccola processione di prigionieri, e dietro la prefigurazione quasi buffa del dispiegamento processuale delle diverse imputazioni personali, plurime e «una più grave dell’altra», è un finale falsamente leggero e perfidamente amaro, nel quale vittima del falso come del vero «buon cuore» è l’unico vero innocente della vicenda. È, se si vuole, la declinazione estrema, e nerissima, dell’umorismo pirandelliano.

La tartaruga

1 Fu stampata per la prima volta su «La lettura» dell’agosto 1936. Venne poi inclusa dall’editore nel quindicesimo volume, postumo, delle «novelle per un anno», Una giornata (Milano, Mondadori, 1937). V. La prova, n. 1.

2 Ennesima attualizzazione del motivo dello sguardo altrui come specchio (v. Da sé II 884: «Questo gli avevano detto con la più ingenua crudeltà gli occhi di quell’amico incontrato per caso»), deputata a far affiorare e a mettere a confronto un altro sconcertante e perturbante ossimoro vivente: il ragazzo-vecchio faccia a faccia con l’adulto-bambino.

3 La corazza dorsale, il carapace.

4 Al padre-fanciullo, che ne raccapriccia, la figlia si rivela con un ributtante e stridente aspetto di decrepita ragazza-strega. E il connotato implicito dei figli-mostro è la crudeltà.

5 La sospesa incertezza e la leggerezza sono i tratti che caratterizzano l’innocenza e la sensibilità infantili di Myshkow. E spiegano più che a sufficienza il rapporto di stupefatta estraneità che intrattiene col proprio corpo e con la realtà.

6 Quattro anni prima, sull’estraneità del proprio corpo si era analogamente interrogata Donata Genzi, la protagonista di Trovarsi: «DONATA Eh, se tu allora guardi il mio corpo… ELJ E che vuoi che guardi? DONATA… ecco sì, vedi? quello sì mi è veramente «estraneo» allora. E credi che soltanto così, con quello, si può restare, come tu dici, estranei. Io sono così poco nel mio corpo. ELJ E dove sei? DONATA Quando si pensa, dove si è? Non ci si vede, quando si parla… Sono nella vita… nelle cose che sento… che mi s’agitano dentro… in tutto ciò che vedo fuori – case, strade, cielo… tutto il mondo… Fino al punto che, vedendomi talvolta richiamata da certi sguardi al mio corpo, trovarmi donna… – oh Dio, non dico che mi dispiaccia – ma mi pare una necessità quasi odiosa in certi momenti, a cui mi viene di ribellarmi. Non vedo più, t’assicuro, non vedo più la ragione ch’io debba riconoscere il mio corpo come la cosa più mia, in cui io debba realmente consistere per gli altri. Ma sai che arrivo a sentire per il mio corpo… ma sì, anche antipatia! Tante volte ne avrei voluto un altro, diverso» (v. MNII, p. 932).

7 Tessuto di cotone molto leggero. V., per la medesima emblematica presenza oggettuale, La Madonnina II 861 e Pena di vivere così, p. 364.

8 Inamidate.

9 Non solo in quest’ultimo tratto, ma nel corso dell’intero capoverso, il narratore ha rispettato ed espresso la prospettiva del protagonista. Proprio alla luce di ciò, risulta particolarmente significativo il cambio di soggetto tra le principali («lui si sta asciugando», «deve […] convenire») e la relativa che segue: non soltanto «lui» non è il suo «corpaccio», ma nulla sa di come quella autonoma alterità che è il suo corpo sia entrata in intimità con la donna. La sua anima, che si commuove alla leggerezza delle tendine di mussola e al dondolio degli alberi, non ha avuto parte nelle misteriose avventure corporali che gli hanno condotto in moglie Mistress Myshkow.

10 Il solo remoto ascendente di questa bambola disumana è il marchese Flavio Gualdi di Tutto per bene, il quale, non più giovanissimo, era però «lucido e roseo come una figurina di finissima porcellana smaltata; e parlava piano […] affettando nella voce una tal quale benignità condiscendente, che contrastava però in modo strano con lo sguardo rigido degli occhi azzurri, vitrei» (v. II 264). Un agevole ponte per la memoria pirandelliana è d’altronde costituito dal fatto che, fra la novella di trent’anni prima e questa, il ritratto del marchese Gualdi s’è conservato intatto in una didascalia della commedia Tutto per bene, stampata nel 1920 e ripubblicata nel 1935 (v. MN2, pp. 433-4). Va da sé che il sesso diverso è un accidente affatto trascurabile in simili esseri di porcellana, maiolica e vetro.

11 Avvizziti, degenerati. V. La mosca, n. 29.

12 La voce narrante trasforma l’infantile ignoranza di Myshkow, della quale adotta l’ottica ignara, in umorismo tagliente. Dei due coniugi, l’unico ad avere, con sua stessa sorpresa, la tenera carnalità che occorre per diventare madre, è il marito. La moglie è una statuetta di porcellana smaltata, e dunque il concepimento e la gestazione diventano congetture improbabili e orrende. Anche il parto e la nascita appaiono, poco oltre, eventi invisibili ed enigmatici che hanno luogo in una «clinica» che, stante la natura della puerpera, potrebbe essere un’officina di ceramisti e, stante il comparante canino che deturpa i neonati, potrebbe essere un laboratorio di manipolazioni genetiche mostruose. Mister Myshkow ha un corpo brutto e un’anima bella e ignara che non vanno d’accordo (replicando il grande conflitto di sempre), ma è circondato da orribili mutanti, da statue che partoriscono cani e da gelidi e crudeli ragazzi-automa, decrepiti come tartarughe centenarie.

13 Che la mancanza sia imputabile a lui.

14 Anche la favolosa New York fa le spese dell’ostilità pirandelliana per il triste artificio metropolitano. Tanto più che a guardarla sono gli occhi sempre nuovi e sempre pronti alla meraviglia e alla commozione di un uomo-bambino. In termini analoghi Pirandello parla della città, il 19 settembre 1936, a Marta Abba che vi è appena arrivata: «Ormai sei da due giorni a New York, e m’immagino le prime impressioni che ne avrai ricevute, di città colossale e fantasmagorica. Se non sempre bella, certo sempre molto impressionante. Ma penso sempre che la colossalità non è mai la maestà. I grattaceli spettacolosi non saranno mai i grandiosi monumenti della nostra civiltà. Stupiscono, ma non s’ammirano» (v. LMA, pp. 1366-7). Pirandello si sbagliava. Quando si era ormai prossimi alla vigilia della seconda guerra mondiale (o della ripresa di quella guerra dei trent’anni che i due conflitti del ’900 sono stati nel loro insieme), tra le tante cose che non aveva capite della politica e della storia che stava vivendo c’erano le conseguenze della prima grande guerra, e in primo luogo il ruolo egemone che stavano assumendo gli Stati Uniti.

15 Il passato remoto è del tutto incongruo: l’ordito dei tempi verbali della pagina reclama perentoriamente un «soggiunge» che va, almeno mentalmente, restaurato.

16 Gesto imperioso, perentorio.

17 Della cagnetta de La carriola, cui il padrone faceva compiere in gran segreto alcuni passi reggendole le zampe di dietro, per confermare ai propri stessi occhi, con questo gesto infantilmente trasgressivo, il proprio definitivo distacco dalle forme sociali nella prigione delle quali aveva a lungo vissuto, si leggeva: «Comprende la bestia, la terribilità dell’atto che compio» (v. p. 160). Si direbbe che anche la tartaruga abbia compreso e, nata tartaruga quando i bambini nascevano bambini, condivida.

Una giornata

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» del 24 settembre 1936. Venne poi inclusa dall’editore in chiusura del quindicesimo volume, postumo, delle «novelle per un anno», Una giornata (Milano, Mondadori, 1937).

2 Nell’incipit di questa che, senza esserlo alla lettera, fu stampata fin da principio come ultima delle novelle pirandelliane, ricompaiono il treno e la stazione, luoghi (l’uno e l’altro) cospicuamente privilegiati della novellistica, anche se qui investiti di un ruolo più che mai apertamente simbolico e allegorico. Difficile non essere invitati da questa novella quasi ultima a risalire a una che è stata quasi la prima, Se…, stampata nel lontanissimo agosto del 1894, e che si apriva col fischio di un treno udito da un caffè antistante una stazione ferroviaria. Là, un personaggio lamentava la strada che il suo destino aveva imboccato eliminando ad una ad una tutte le alternative (i se), qua il protagonista dubita che quel treno lo abbia scaricato in quella stazione «forse per sbaglio».

3 Le vaghe impressioni di uno strappo, di una espulsione, di una violenza confluiscono a comporre la scena simbolica della nascita (o di una rinascita in altra dimensione temporale). Mentre la mancanza di memoria, data come una primigenia condizione amnestica, precostituisce, abolendo ogni legame dell’io con la realtà che non sia diretto, immediato e puntuale, la condizione e la sensazione di spaesamento, estraneità, totale incertezza. Il veicolo linguistico di questo vuoto di anteriorità è il discorso diretto in prima persona e al tempo presente: tutte le altre persone postulano infatti relazioni che qui mancano e, in assenza di memoria, un presente acronico è l’unico strumento della verbalità che resti a disposizione. Ogni cosa e ogni atto sono in quanto presenti. Ogni atto di conoscenza e intendimento è un atto primario, poiché, senza memoria, nessun riconoscimento è possibile.

4 Questo lanternino cieco da ferroviere, ultimo lume a baluginare brevemente nel corpus pirandelliano, appare in prima istanza un oggetto senza alcuna aura e ascrivibile al più neutro realismo. Ma, dopo quanto letto ne Il vecchio Dio (v. I 589-90: «Speranze, illusioni, ricchezza e tant’altre belle cose aveva perduto il signor Aurelio lungo il cammino della vita: gli era solo rimasta la fede in Dio ch’era, tra il bujo angoscioso della rovinata esistenza, come un lanternino: un lanternino ch’egli, andando così curvo, riparava alla meglio, con trepida cura, dal gelido soffio degli ultimi disinganni. Errava come sperduto in mezzo al rimescolio della vita, e nessuno più si curava di lui. / “Non importa: Dio mi vede!” si esortava in cuor suo. / E n’era proprio sicuro, di questo, il signor Aurelio, che Dio lo vedeva per quel suo lanternino. Tanto sicuro, che il pensiero della prossima fine, non che sgomentarlo, lo confortava.»); dopo il XIII capitolo de Il fu Mattia Pascal, appunto intitolato Il lanternino (v. RI, pp. 483-9); dopo le considerazioni suggerite ne La rosa a Fausto Silvagni proprio dal riflesso della lampada di un treno in corsa (v. p. 78: «Per non vederli, teneva da un pezzo la faccia voltata verso il finestrino, quantunque di fuori non si scorgesse nulla. / Si vedeva solo, in alto, sospeso nella tenebra, il riflesso preciso della lampada a olio della vettura con la rossa fiammella fumosa e vacillante, il vetro concavo dello schermo e l’olio caduto, che vi sguazzava. / Pareva proprio che ci fosse un’altra lampada di là, la quale seguisse con pena, nella notte, il treno, quasi per dargli insieme conforto e sgomento. / – La fede… – mormorò, a un certo punto, quel signore. / La signora Lucietta si voltò con aria stordita: / – Che cosa? / – Quel lume che non c’è. / Ravvivando il sorriso e lo sguardo, la signora Lucietta levò un dito a indicar la lampada nel cielo della vettura. / – Eccolo qua! / Quel signore approvò più volte col capo, lentamente; poi aggiunse, con un sorriso triste: / – Eh sì, come la fede… Accendiamo noi il lume di qua, nella vita; e lo vediamo anche di là; senza pensare che se si spegne qua, di là non c’è più lume»); dopo le riflessioni del signor Cesarino sui lumi a olio a tre beccucci nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore (v. RII, p. 609: «[…] è una mia idea: tante cose nel bujo vedevo io con quei lumi là, che loro forse non vedono più con la lampadina elettrica, ora; ma in compenso, ecco, con queste lampadine qua altre ne vedono loro, che non riesco a vedere io; perché quattro generazioni di lumi, quattro, caro professore, olio, petrolio, gas e luce elettrica, nel giro di sessant’anni, eh… eh… eh… sono troppe, sa? e ci si guasta la vista, e anche la testa; eh, anche la testa, un poco. […] Luce, bella luce, non dico di no! Eh, lo so io, – sospirò il vecchietto, – che mi ricordo s’andava nelle tenebre con un lanternino in mano per non rompersi l’osso del collo! Ma luce per fuori, ecco… Che ci ajuti a veder dentro, no»); «lanternino» e «lume» sono parole-tema, portatrici di una valenza allegorica incancellabile. Ed è dunque da trattare interpretativamente con cura e cautela anche quest’ultimo lanternino che, intravisto appena, subito scompare insieme al «riverbero vagellante del suo lume vano».

5 Baluginante, vacillante.

6 Per un altro verso, questo lume svanente richiama anche un altro e più domestico lanternino, anch’esso connesso alla misteriosa casualità della nascita: quello evocato nelle Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla Terra: «Un mio zio andava con un lanternino in mano per quella campagna in cerca d’una contadina che ajutasse mia madre a mettermi al mondo» (v. SPSV, p. 1065). Ma là appunto una mano familiare e soccorrevole regge quel lume, qui, col suo mostrarsi e sparire, il «lume vano» della lanterna retta dall’invisibile ferroviere non fa che rendere più disaiutata la derelizione del viaggiatore.

7 Mostrare, fingere.

8 Solo gli altri (prima i passanti che salutavano, ora il padrone cerimonioso della trattoria) sono soggetti attivi di agnizioni, e dunque detentori dello spessore temporale. Affiora così insensibilmente il motivo che pervaderà e dominerà l’ultima parte del racconto sovrapponendosi alla atemporalità della prima, quello della inafferrabile fuga del tempo. Il non-tempo dell’io è una serie insensata di attimi presenti, mentre il tempo degli altri e della realtà è un trascorrere vertiginosamente veloce e incomprensibile.

9 Nella doppiezza dello specchio e nell’andirivieni infinito fra il di qua dello sguardo e il di là dell’immagine riflessa, si compongono (pur senza ricomporsi) le due incompatibili dimensioni temporali: due occhi di bambino guardano dal cristallo il vecchio che si specchia e, nel contempo, un viso di vecchio si mostra al bambino atterrito dinanzi allo specchio.

10 Il tempo, disancorato dalla memoria e dalla tenace volontà di persistenza dell’io che lo ordinano in passato, presente e futuro, accelera geometricamente come un motore che va fuori giri in folle: un attimo e l’eternità si confondono nella medesima smemorata insensatezza.

Effetti d’un sogno interrotto

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 9 dicembre 1936, il giorno prima della morte di Pirandello. Venne poi inclusa dall’editore nel quindicesimo volume, postumo, delle «novelle per un anno», Una giornata (Milano, Mondadori, 1937).

2 Si legga questa descrizione che Gautier fa di una bottega di bric-à-brac in cui gli capita di entrare: «C’est quelque chose qui tient à la fois de la boutique du ferrailleur, du magasin du tapissier, du laboratoire de l’alchimiste et de l’atelier du peintre; dans ces antres mystérieux où les volets filtrent un prudent demi-jour, ce qu’il y a de plus notoirement ancien, c’est la poussière» [È qualcosa che somiglia contemporaneamente alla bottega del ferravecchio, al deposito del tappezziere, al laboratorio dell’alchimista e allo studio del pittore; in questi antri misteriosi nei quali le imposte filtrano una prudente penombra, la cosa più palesemente vecchia è la polvere] (v. TH. GAUTIER, Le pied de momie [1840], in Récits fantastiques, a cura di M. Eigeldinger, Paris, Flammarion, 1981, p. 179). Se lo spazio lo permettesse, anche i successivi quattro capoversi enumerativi andrebbero riportati, e si vedrebbe con chiarezza che anche la casa del protagonista è, come quella bottega, «un véritable Capharnaüm», nel quale non mancano i ritratti più o meno antichi.

3 In realtà, questo non detto resterà tutto quanto sappiamo di come il narratore, che si sforzerà invano di non essere protagonista, viva. Sappiamo benissimo dove vive, che metà della stanza gli serve da studio, che tiene in uno scaffale «cadaveri di libri» decrepiti, che convive esclusivamente (ma si rifiuterebbe di ammetterlo) con una Maddalena dipinta intenta anch’essa alla lettura, e alla penitenza.

4 Basso.

5 Questa pirandelliana non è affatto la prima Maddalena coinvolta in un racconto dai vivaci risvolti erotici. Si segnala l’interessante precedente di un altro racconto di Théophile Gautier, Il Vello d’oro, databile all’incirca agli anni 1836-37. E lo si segnala non solo perché il protagonista vi si innamora della Maddalena di Rubens che vede nella chiesa di Notre-Dame ad Anversa, ma perché il personaggio di Tiburce, ben più esplicitamente tratteggiato del narratore-sognatore pirandelliano (chiuso nella sua reticente preterizione: «Ma per uno che viva come vivo io…»), ha qualche connotato umoristico che lo avvicina a quest’ultimo. Di Tiburce si legge ad esempio: «Il était […] parfaitement détaché de toute chose humaine, et tellement raisonnable qu’il paraissait fou» [Era completamente distaccato da ogni cosa di questo mondo, e a tal punto ragionevole che sembrava pazzo]; e ancora: «la réalité lui répugnait, et, à force de vivre dans les livres et les peintures, il en était arrivé à ne plus trouver la nature vraie» [la realtà gli ripugnava e, a forza di vivere nei libri e nelle pitture, era giunto al punto di non trovare più vera la natura] (si veda TH. GAUTIER, La Toison d’or, in Fortunio et autres nouvelles, a cura di A. Boschot, Paris, Garnier, 1930, pp. 175-231).

6 E si direbbe che il narratore non sappia, suo malgrado, non notarli in tempo non sospetto, ossia ben prima che l’antiquario e il vedovo geloso gli piombino in casa.

7 V. Sedile sotto un vecchio cipresso, p. 477: «si mise a piangere con lo stomaco, sussultando; si abbatté sulla panchina, e i singhiozzi che non riuscivano ad arrivargli alla gola, s’appalesarono soltanto in un fiottar fitto del naso».

8 V. Il professor Terremoto II 505 e n. 10.

9 Anche nel racconto di Gautier, la Maddalena di Rubens ha un sosia vivente nella bella Gretchen. Il destino letterario vuole, maliziosamente, che l’antica peccatrice rassomigli ora a una vergine fanciulla come Gretchen, ora a una sposa pudibonda da sottrarre gelosamente a sguardi indiscreti. È nella fuga prospettica di una inesauribile galleria intertestuale che il motivo mostra intera la sua potenzialità inquietante e al tempo stesso umoristica; ed è un doppio, ed infinito, andirivieni che consente di mettere in sequenza il vivo che replica il morto e il morto che replica il vivo, l’arte come vampirismo, in quanto dà vita alle proprie creazioni succhiandola e trasfondendola in esse dai modelli viventi (come avviene in The Oval Portrait di Poe), e la vita come necrofilia e rianimazione del corpo dipinto (morto), come accade ne La Toison d’or e in Effetti d’un sogno interrotto.

10 La motivazione del protagonista non contiene nulla di strano, è anzi la più ovvia. Ciò che egli, come altri sognatori pirandelliani, tende fin da ora a trascurare è che, nei sogni, gli estranei c’entrano ben poco, che è lui ad aver provato una grandissima impressione e che è stato lui a sognare. Tende, in sostanza, a ritenersi il soggetto passivo, anziché attivo, del sogno.

11 Qui, gatti e topi sono dati come presenze certe e come causa altrettanto certa del fracasso che provoca il brusco risveglio del sognatore e la sua visione dei fantasmi. Ma spiriti, topi e gatti (nonché mariti e mogli) erano già stati combinati da Pirandello una quarantina d’anni prima ne Il turno. Don Diego Alcozèr, pienamente persuaso d’aver sentito una notte bisticciare due delle sue defunte mogli nella stanza da pranzo, raccontava la rumorosa conclusione dell’episodio a Pepè Alletto: «A un tratto, brum! Non so quanti piatti per terra… Al fracasso, balzo dal letto, mi reco – figuratevi con che spavento! – nella sala da pranzo: i cocci erano lì, sul pavimento… c’è poco da dire! / – Qualche gatto… / – Ma che gatto, don Pepè! Se gatti in casa non ne ho mai avuti… / – Qualche topo, allora… / – Eh già, o il terremoto! Si tratta di chiamarli con un nome o con un altro. Voi li chiamate topi, perché non ci credete» (v. RI, p. 303). Don Diego rigettava allora la materiale congettura esplicativa dei topi, come il protagonista della novella rigetterà infine la patologica congettura allucinatoria di cui l’antiquario graverà lui non meno del vedovo.

12 Quattordici anni prima, di analoghi fantasmi (chiamati anche allora in causa in contiguità con una allusione esplicita alla sessualità) aveva parlato lucidissimamente il rinsavito anonimo che va sotto il nome di Enrico IV: «Capite? – a letto – io senza quest’abito – lei anche… sì, Dio mio, senz’abiti… un uomo e una donna… è naturale!… Non si pensa più a ciò che siamo. L’abito, appeso, resta come un fantasma! / E con altro tono, in confidenza al Dottore: / E io penso, Monsignore, che i fantasmi, in generale, non siano altro in fondo che piccole scombinazioni dello spirito: immagini che non si riesce a contenere nei regni del sonno: si scoprono anche nella veglia, di giorno; e fanno paura» (v. MN2, pp. 841-2). Qui, Pirandello curiosamente narrativizza proprio la sottilissima soglia fra l’essere svegliati e l’essere svegli. Ora, a parte quella che il narratore subito dopo ci racconta (ossia l’amplesso di due sconosciuti sul suo divano), nel suo sogno avvengono cose importanti che egli tace: avviene che la declinazione iconografica penitenziale della bella Maddalena non basta più ad impedire che nella penitente si ravvisi la grande peccatrice carnale, ed avviene che il giusto ritegno non basti più a trattenere dal ripensare ad una sposa morta come ad un’amante viva (tanto più che la turgida gelosia postuma del vedovo aveva fatto più che abbastanza per far pensare soprattutto a questo). Avviene cioè che il sesso irrompa di prepotenza nel sogno voyeuristico del protagonista. Il quale desidera credere (e far credere) che sia la brusca interruzione del sogno a non dare ai «fantasmi» di esso il tempo per «rientrare in lui», quando sarà piuttosto lui stesso ad opporre una fiera resistenza al loro rientro che lo costringerebbe a riconoscerli come propri fantasmi, come immagini oniriche prodotte dal suo desiderio e non dalla vogliosa incontinenza dell’impenitente Maddalena e del suo vedovo.

13 Saltai su (v. Notizie del mondo, n. 36).

14 Il movimento ricorda da vicino un altro delizioso racconto di Gautier, l’«histoire rococo» Omphale ou la tapisserie amoureuse (1834), dove, alla brusca entrata di uno zio severo nella camera del nipote, la marchesa Antoinette de T***, ritratta in un arazzo nei panni di Onfale (amante di Ercole), ha appena il tempo di sciogliersi dall’abbraccio del ragazzo e di rientrare fra le figure del tessuto.

15 Difficile considerare anodina una tale dichiarazione del protagonista-narratore datata al dicembre 1936, quando la Traumdeutung di Freud era giunta all’ottava edizione. È piuttosto un’esplicita presa di distanza. Ma vero è anche che, ancora una volta, il sogno del personaggio pirandelliano, pur motivato dagli emozionanti eventi del giorno prima, non ha niente di onirico.

16 Quella Maddalena dipinta, fin lì lettrice così compunta, e la cui piacenza era stata (come quella della signora Anna Wheil di Visita) sempre così aliena e placida, si anima di un tratto agli occhi del protagonista; e ad animarla di diabolica malizia non sarebbe il suo non irreprensibile passato biblico, ma il fatto d’essere per un attimo hantée, abitata dal fantasma di una sposa morta: sarebbero gli «occhi sognati» di quest’ultima, non quelli di Maddalena, ad ammiccare al narratore, motivando di colpo, e sia pure post mortem, la folle gelosia del marito meridionale.

17 Il narratore ci lascia intendere di vergognarsi a confessare d’essere stato sconvolto dal tardivo effetto allucinatorio d’un sogno interrotto. È altro in realtà ciò di cui si vergogna. Egli, che in tutta sicurezza ci aveva invitati, come lui non visti e non guardati, ad ammirare la bellezza stupenda di quel volto, la capigliatura fulva, la spalla e il seno nudi, è preso da raccapriccio allo sguardo che s’è «chiarissimamente» visto rivolgere dalla Maddalena ed all’idea che, a sua insaputa, quegli occhi possano ancora levarsi verso di lui. D’un tratto il perturbante lo aggredisce e, ironia delle parole, proprio la sua casa diventa per lui unheimliche. Non se la sente di sopportare alcuno dei significati possibili di quegli sguardi, implorino essi comprensione e complicità, giustifichino e compatiscano l’indiscrezione e il desiderio represso ma manifesto, o adeschino senz’altro con malizia a una maggiore intraprendenza, ad abbandonare la contemplante pruderie e le inappaganti visioni per l’eros liberatorio. Per questo, pur andando di corsa dall’antiquario per comunicargli la propria repentina disponibilità ad affittare anche subito al vedovo la casa con tutto quanto l’arredo, si vergogna a dirgliene il motivo e a confessare il timore ispiratogli dal riso e dalla tenerezza letti negli occhi dell’antica peccatrice.

18 È a questo punto che interviene la brusca virata di un racconto fin qui sorprendente e strano verso il racconto fantastico, ossia verso una vicenda la cui verità è nel contempo inconfutabile e inspiegabile.

19 Nel racconto fantastico di forma classica, quel pigiama è la prova provata della sconvolgente irrefutabilità dell’avventura fantastica, impossibile ma vera. Qui, si direbbe che l’umoristica clemenza autorale metta a disposizione del suo narratore e protagonista sconvolto quest’ultimo alibi cui appigliarsi, e per mezzo del quale poter in qualche modo sostenere: io non c’entro, era lei a sognare di fare all’amore con sua moglie sul divano di casa mia, io ho solo sognato di sorprendervi. Per la via alquanto impervia dei sogni paralleli, resterebbe la sua paura del desiderio, ma l’erotismo del sogno non gli apparterrebbe affatto. L’incredibile è la sua ultima àncora di salvezza.

20 V. La casa del Granella II 96 e n. 13, Dal naso al cielo II 308 e Lo storno e l’Angelo Centuno II 540.

FRAMMENTI

[Giorno di pioggia]

1 Il frammento venne procurato da Manlio Lo Vecchio-Musti (che lo data al 1936) e riprodotto, nel 1960, in SPSV, p. 1051, corredato della nota seguente: «Di questa novella – che doveva far parte del XV volume delle Novelle per un anno – rimane una breve traccia: meno di una pagina dattilografata, che riproduco integralmente. L’ultima frase è, nell’originale, aggiunta a penna dall’Autore».

2 La caratteristica dello zinco è in realtà proprio quella di coprirsi d’uno strato di ossido che evita al metallo di arrugginire; ma probabilmente viene qui chiamata «zinco» una lamiera che ha perduto col tempo la zincatura protettiva.

3 Il motivo dell’imprevedibilità e incontrollabilità dei pensieri è antico: v. Formalità I 979: «Nell’intensa commozione di quelle tetre sere, l’immobilità della condizione della propria esistenza gli riusciva intollerabile, gli suggeriva pensieri subiti, strani, quasi lampi di follia»; e, più ancora pertinente, Personaggi II 236: «Ebbene, gli scrittori buttano via la terra e presentano l’oro in zecchini nuovi, ben colato, ben fuso, ben pesato e con la loro marca e il loro stemma bene impressi. Ma le vicende ordinarie, i particolari comuni, la materialità della vita insomma, così varia e complessa, non contraddicono poi aspramente tutte queste semplificazioni ideali e artificiose? non costringono ad azioni, non ispirano pensieri e sentimenti contrarii a tutta quella logica armoniosa dei fatti e dei caratteri concepiti dagli scrittori? E l’impreveduto che è nella vita? e l’abisso che è nelle anime? Perdio, non mi sento io guizzar dentro, spesso, pensieri strani, quasi lampi di follia, pensieri inconseguenti, inconfessabili, come sorti da un’anima diversa da quella che normalmente mi riconosco?».

[L’uomo di tutte le donne]

1 Il frammento venne procurato da Manlio Lo Vecchio-Musti (che lo data al 1936) e riprodotto, nel 1960, in SPSV, pp. 1052-3, corredato della nota seguente: «Di questa novella, che doveva far parte del XV volume delle Novelle per un anno, restano la prima pagina e un frammento di traccia, i cui testi riproduco desumendoli da foglietti dattilografati e corretti dall’Autore».

2 L’ottica focalizzata da cui proviene il poco che resta del racconto è uno degli aspetti più interessanti dell’impianto narrativo: il racconto-riflessione proviene da una delle innumerevoli prede del maschio-belva: la sola sterile e non più gelosa, la sola abbastanza disincantata da poter raccontare la storia.

3 Pur calata qui in tutt’altra situazione, e osservata da un’ottica ben differente, questa seduzione maschile irresistibile palesa una corrispondenza precisa con un passo (successivamente cassato) della prima stampa (1913) di Da sé, dove è il protagonista Matteo Sinagra, sorretto da uno straordinario estro vitale, ad essere in certo modo l’uomo di tutte le donne: «Aveva quarantanove anni, e doveva fare uno sforzo per ricordarsi scapolo. Per miracolo non s’era sposato con la bàlia, appena svezzato. La prima moglie gliel’avevano data, quando non aveva ancora compiuto i diciott’anni; la seconda, a trenta; la terza, a quarantuno. Date, mica prese. Gliele avevano date, e lui se l’era prese. E aveva avuto figliuoli da tutt’e tre: sei dalla prima, cinque dalla seconda, due gemelle dalla terza. Ma tanto i quattro che gli erano rimasti dalle prime nozze, quanto i quattro delle seconde, non eran per nulla a suo carico, perché, così a quattro per volta, se li erano raccolti i parenti delle due mogli defunte. / Sempre fortunato, lui, fino a tre anni fa. / Fortunato specialmente con le donne. Bastava che le guardasse, e tutte s’innamoravano di lui, chi sa perché! L’ultima, perdio, ragazza, proprio ragazza rispetto a lui: per averle parlato due o tre volte, non più, ma così, senz’intenzione, di cose aliene: subito, come fulminata… Tanto che il padre stesso era venuto a pregarlo, a scongiurarlo di sposare la sua povera figliuola, ché altrimenti ne sarebbe morta» (cfr. NUAIII, p. 1374).

4 Alla luce delle complicazioni fobiche che sempre avvolgono, nel corpus, la sessualità, non si può non notare come, in questo tardo frammento, anche quest’ultima enormità venga affrontata con una secchezza e una esplicitezza di dettato prima inimmaginabili. Si pensi all’abisso che separa questo mostruoso eroe sessuale dalle fortune e dalle avventure amorose del giovane Mattia Pascal, dalle quali aveva tratto origine la figura, miticamente vittoriosa, di Liolà, innocente amatore rusticano. Si pensi, ancor più, al convoluto dramma della follia che scaturiva, in Nel gorgo e poi (congetturalmente nello stesso torno di tempo di questo frammento) in Non si sa come, proprio dalla facilità con cui l’atto sessuale può essere compiuto e dimenticato. Qui, il coito con quest’uomo, cui tutte le donne corrono, conserva un vecchio tratto repulsivo, quello della pura animalità («l’innocenza d’una belva»), ma ogni complicazione è abolita: l’insaziabilità dell’uomo, perfettamente complementare al desiderio delle donne di darglisi in pasto, è una foia la cui mostruosità è del tutto riassorbita nella naturalità. E ne reca testimonianza il linguaggio narrativo, con la sua linearità informativa secca e breve.

5 Manlio Lo Vecchio-Musti separava questa prima dalla seconda parte del frammento con un asterisco a centro pagina (v. SPSV, p. 1053). Nulla in effetti garantisce che, pur costituendo l’abbozzo d’un unico racconto, i due tratti di testo superstiti fossero destinati ad essere contigui: questo il senso del bianco tipografico con cui li si separa.

6 Il brusco passaggio al tempo presente segna anche il passaggio dalla stesura narrativa della prima parte a quella di abbozzo della seconda.

7 Questo bacio non può non richiamare quello de La realtà del sogno, p. 73: «egli le accostava le dita alla bocca; le rovesciava delicatamente il labbro inferiore e annegava lì, nell’interno umidore, un bacio caldo, lungo, d’infinita dolcezza». Ma qui l’allusiva reticenza, e il contesto che abolisce ogni corteggiamento, ogni gioco di seduzione ed ogni détour erotico, autorizzano anche inferenze più audaci.

[Irregolarità]

1 Il frammento, recuperato fra le carte pirandelliane della biblioteca di via Bosio a Roma, è riprodotto in BRB, p. 70.

2 Si può intuire una vedovanza non priva di disagi.

3 È vagamente inferibile, anche sulla traccia del titolo, un interessamento maschile disdicevole.

4 Dicerie disordinate.

[Tanto buona!]

1 Il frammento, recuperato fra le carte pirandelliane della biblioteca di via Bosio a Roma, è riprodotto in BRB, p. 70.

2 Ancora il motivo, insistente, della costruzione soggettiva e fittizia di realtà sulla base di desideri e proiezioni.

[I Corpi]

1 Riprodotto in TS, p. 86.

2 La proposizione fa chiaramente pensare a due amanti, non a marito e moglie.

3 Una donna «rigida, austera», un uomo «orgogliosissimo e misticamente esaltato» (tolta di mezzo la gelosia delirante di lei, qualcosa richiama la tragica coppia formata da Maurizio Gueli e Livia Frezzi in Suo marito). Due anime «diversamente nobili», ma due corpi, due temperamenti fisici sfrenatamente sensuali, quasi sessuomani. Di qui la reciproca schiavitù carnale e il complementare reciproco disprezzo. Questa l’armatura narrativa, inconclusa, che Pirandello ha abbozzato e non ha poi mai sviluppato in racconto.

4 Annamaria Andreoli, curatrice di TS, considera senz’altro il frammento (ivi, p. 123) «abbozzo di una narrazione che prelude alla Realtà del sogno». Presumibilmente in forza del fatto che sul verso della medesima carta del taccuino (e nel recto della successiva: v. pp. 87-8) si trova un esteso sommario preparatorio di quella novella. La congettura non è condivisibile, e proprio la contiguità dei due schizzi nelle carte del taccuino la confuta anziché confermarla. Certo, la protagonista de I Corpi è «una donna, rigida, austera, contro la propria inconfessata sensualità» e la protagonista del sommario, come poi de La realtà del sogno, è «una moglie di rigidissima onestà, ma in fondo, senza ch’ella lo sappia o lo voglia, sensuale». La comunanza e il travaso fra i due testi si limita però, nella sostanza, a questo. L’amante, divenuto marito, non è in alcun modo tratteggiato nel secondo abbozzo, poiché al centro dell’intrigo non ci sono più due corpi, ma solo il corpo della donna, ed anche l’«amplesso disperato, furibondo» che chiude l’esquisse dopo l’infamia del sogno e quella della crisi nevrotica (si veda La realtà del sogno, n. 1) è legato all’ingorgo relazionale e non più alla brama sessuale. Nella novella del 1914, infine, il marito sarà soltanto «un bellissimo uomo» e la sposa per autorepressione troppo pudica avvertirà con irritazione che egli, «con quella freddezza e sicurezza, e quell’orgoglio di bel giovine, veniva a mancarle in certi altri momenti, allorché le s’accostava, perché aveva bisogno di lei. Timido, umile, supplichevole, allora, come insomma in quei momenti ella non lo avrebbe desiderato». Quella de La realtà del sogno è ormai tutt’altra vicenda e altrimenti bilanciata, mentre il virtuale sviluppo narrativo de I Corpi resta inattualizzato, e costituisce una traccia alternativa che la nuova dinamica tematico-narrativa (quella del rapporto fra coscienza e represso al posto del conflitto anima-corpo) ha obliterato definitivamente.

[Frammento I]

1 È il secondo dei cosiddetti Foglietti riprodotti (v. SPSV, p. 1213) da Manlio Lo Vecchio-Musti e corredati della nota seguente: «Questi frammenti, vergati su foglietti sparsi anziché sulle pagine di taccuini, furono pubblicati da Corrado Alvaro in Nuova Antologia (1° gennaio 1934) con i “taccuini” di Bonn e di Coazze; furono poi in parte riprodotti nell’Almanacco letterario Bompiani 1938 e in Sipario, dicembre 1952». In tali foglietti sono conservati, oltre a quello dei Sei personaggi «romanzo da fare», i primissimi abbozzi di tre novelle poi realizzate e confluite nel corpus: I piedi sull’erba, L’uomo solo, «Leonora, addio!».

2 Il monocolo. Anche il barone Chico, in Candelora (v. p. 246), ha, nonostante la «faccia gialla di vecchio ebete», un «corpo giovanile, sperticato, elegantissimamente vestito»; e porta la caramella.

3 Queste poche righe sono palesemente lo spunto per un racconto mai sviluppato che, per il poco che è dato inferirne, avrebbe ancora una volta preso le mosse dalla modulazione di un motivo onnipresente nel corpo novellistico: quello intricato dei rapporti tra genitori e figli. Ogni congettura riguardante la datazione di questo e dei due successivi abbozzi è del tutto aleatoria, e tuttavia le intenzioni narrative che essi adombrano sembrano risalire a tempi notevolmente precedenti la pubblicazione dei foglietti.

[Frammento II]

1 È il sesto dei cosiddetti Foglietti riprodotti da Manlio Lo Vecchio-Musti (v. SPSV, pp. 1213n e 1214).

2 Per quanto caratterizzato dall’indicativo presente, tempo acronico e non narrativo dei primi abbozzi, quest’attacco arieggia la lapide umoristica che Tommaso Aversa aveva immaginato per l’amico morto in Notizie del mondo I 568: «sposai. a. LVI. anni. / una. donna. di XXX». Ma la differenza di età fra marito e moglie rinvia piuttosto, ed anche più puntualmente, a un’altra coppia, quella formata, ne La corona, dal dottor Cima, che avverte «il rammarico d’aver compiuto da qualche mese quarant’anni» e dalla giovane sposa, che «aveva circa diciotto anni meno di lui; appena ventidue» (v. II 315).

3 Il motivo è ricorrente nel corpus: v. Marsina stretta I 611 e n. 15.

4 Pur nell’estrema condensazione, la vicenda appena abbozzata richiama da vicino una sequenza di «Superior stabat lupus»: «Fu una furia, una frenesia d’amore, che durò appena un anno. Ebe morì di parto. La sera stessa della sciagura, Corrado Tranzi, senza voler neanche vedere la bambina che, nascendo, aveva ucciso la madre, scappò via di casa come un pazzo» (v. II 702).

5 Gli occhi verdi femminili hanno sempre, nelle rare occorrenze, qualcosa di vagamente inquietante, a cominciare dalla cangiante impurità del colore stesso, il più delle volte linguisticamente attualizzata nella forma alterata. Si può trattare, fin dal 1895, degli occhi di Anna Cesarò, «verdognoli […] sotto la fiamma dei folti capelli rossi» (v. Il «no» di Anna I 236); oppure, nel 1906, di quelli di Silvia Ascensi in Tutto per bene (v. II 252), la quale «pareva che con gli occhi – d’uno strano color verde, quasi fosforescenti – spingesse le parole a entrar bene nell’anima di chi l’ascoltava; e s’accendeva tutta»; o infine degli occhi «verdastri» di suor Erminia nella prima stampa, del 1912, di Ignare (v. NUAIII, p. 1308). Anche qui, e senza che per questo diventi meno impenetrabile il mistero d’una storia non raccontata, parrebbe che debbano essere proprio «quegli occhi verdi» della neonata a piombare il vedovo nell’orrore del sospetto.

[Frammento III]

1 È il settimo dei cosiddetti Foglietti riprodotti da Manlio Lo Vecchio-Musti (v. SPSV, pp. 1213 e n. e 1215).

2 Segnato fin da principio dal sintomo inequivocabile di questa più che precoce vecchiezza, il frammento racconta chiaramente una patologia, e più precisamente, come di consueto, una patologia di relazione.

3 In forza del contesto, il frammento sembra prefigurare ancora una volta la vicenda di una annichilente ed esiziale gelosia. Come congetturale e ulteriore pezza d’appoggio, si tenga presente che «terribile malattia» viene definita nel 1906 proprio la gelosia delirante di Cesira Piovanelli ne L’uscita del vedovo (v. II 211).

4 Quanto più la traccia della storia è ellittica e reticente, tanto più pare riflettere il segreto dolente e cocente dell’intimità pirandelliana, quello della relazione con la paranoica gelosia della moglie. A proposito di questa oscura vendetta della donna, Bufalino scrive (acutamente escludendo che possa consistere in un trascorso adulterino): «La vendetta della moglie è la vendetta di Antonietta, l’identificazione è pacifica. Ma vendetta di che, se non dei presunti tradimenti di lui? E come l’avrà attuata, la donna, se non seminandogli in cuore il sospetto di essere veramente come lei lo accusava di essere? Oppure dobbiamo supporre che lei aizzasse furie in lui senza placarle; che gli si negasse? O quale altro segreto d’alcova adombrano queste oscure parole? Noi una sola cosa vediamo chiara: che alla vendetta di lei, qualunque essa fosse, rispose la vendetta di lui: consumata impunemente, sotto il nome d’un altro ma non senza una nascosta pietà, con un po’ d’inchiostro e una penna» (v. G. BUFALINO, La lumaca sul fuoco, in Saldi d’autunno, Milano, Bompiani, 1990, pp. 49-50).

5 Che l’uxoricida non voglia né possa dire alcunché sui moventi del proprio gesto, è ovvio: esso appartiene, non meno di tutto il resto, all’intimità più delicata e meno rivelabile della vita di coppia; e il silenzio è preteso dal non detto che presiede a questa storia ben al di là del fatto che non è stata scritta. Del taciuto perché noi però qualcosa sappiamo: v. L’uscita del vedovo II 212 e n. 10.

[Frammento IV]

1 Il frammento, recuperato fra le carte pirandelliane della biblioteca di via Bosio a Roma, è riprodotto in BRB, pp. 76-7.

2 Pare di ravvisare in questo passaggio una declinazione soggettiva alternativa, una volontà cosciente di superamento e di sblocco («vorrebbe arrivare fin là») rispetto all’ingranaggio nevrotico de La realtà del sogno.

3 Isolato e sospeso, il breve abbozzo è incommentabile. Si può solo notare che, avendo al centro un personaggio femminile, ruota intorno ad un groviglio psicologico noto: pudore e smania, ribrezzo e passione, piacere e disgusto; un nodo preso nel vortice insidioso fra immaginazione, ricordo e realtà.

[Frammento V]

1 Riprodotto in TS, p. 14.