CAPITOLO 1

Un ponte di numeri

Liber abbaci si traduce come «Libro del calcolo»; la traduzione intuitiva «Libro dell’abaco» sarebbe scorretta e priva di senso, dato che l’opera di Leonardo mirava proprio a mostrare come fare aritmetica senza il bisogno di ricorrere a strumenti come l’abaco.A Questa distinzione si riflette nella grafia del termine usato da Leonardo, con due «b». Nell’Italia medievale, dal XIII secolo in poi, la parola latina abbacus veniva adoperata in riferimento al metodo di calcolo basato sul sistema numerico indo-arabico; la prima ricorrenza scritta a noi nota del termine – con questa grafia e questo significato – si ritrova, di fatto, nel prologo del libro di Leonardo. In seguito, il termine «abbaco» venne ampiamente usato per descrivere quella pratica di calcolo: un maestro d’abbaco, quindi, era una persona esperta di aritmetica. In effetti, questo significato di «abbaco» è ancora presente anche nell’italiano contemporaneo.B

In genere, gli autori medievali non davano un titolo alle loro opere. Il nome con cui oggi indichiamo il libro di Leonardo è tratto dalla frase con cui si apre il volume:

Qui comincia il libro del calcolo

composto da Leonardo Pisano, figlio di Bonacci,

nell’anno 1202.

In alcuni suoi scritti successivi, Leonardo si riferisce all’opera indicandola anche come Liber numerorum e, nella lettera dedicatoria per il suo libro Flos, la chiama Liber maior de numero. Nel capitolo 5 di un altro suo libro, De practica geometrie (scritto fra la pubblicazione delle due edizioni del Liber abbaci), usa di nuovo il titolo Liber abbaci: «Dato che all’inizio del presente trattato ho promesso di discutere di come si trovano le radici cubiche, un argomento a cui avevo dedicato particolare attenzione nel Liber abbaci, ho deciso di riscrivere qui il suddetto materiale».1 Oltre a comparire nella frase d’apertura, il termine abbaci (il genitivo latino di abbacus) ricorre in altri tre passi del volume: nel prologo, dove Leonardo racconta di come si era dedicato allo studium abbaci «per alcuni giorni» a Bugia; all’inizio del capitolo 12, dove dichiara che tratterà de quaestionibus abbaci; e verso la fine del libro, quando spiega di essere giunto alla sua determinazione numerica del valore approssimativo della radice quadrata di 743 secundum abbaci materiam.

In aggiunta alla confusione riguardante il titolo del libro, c’è incertezza anche su quale sia il nome corretto e completo dell’autore. In linea con le tradizioni dell’epoca, era probabilmente conosciuto come «Leonardo Pisano». All’inizio del Liber abbaci dichiara di essere filius Bonacci, «figlio di Bonacci»; tuttavia, dato che suo padre non si chiamava Bonacci, l’espressione andrebbe forse tradotta come «della famiglia Bonacci».2 In ogni caso, l’espressione latina filius Bonacci è all’origine del soprannome «Fibonacci», con cui Leonardo è oggi conosciuto, coniato dallo storico Guillaume Libri nel 1838. Un altro nome con cui talvolta Leonardo si riferiva a se stesso è «Bigollo», un termine dialettale toscano che veniva a volte usato per indicare un viaggiatore, ma questo significato potrebbe anche essere soltanto una coincidenza. (In alcuni antichi dialetti, il termine voleva dire anche «testa di legno»; dato però che Leonardo lo riferiva a se stesso, non lo intendeva certo in questo senso.)

Leonardo, come abbiamo detto, incontrò per la prima volta quel sistema numerico che lo avrebbe affascinato quando, forse non più che quindicenne, lasciò la sua casa a Pisa per seguire il padre a Bugia, una città dell’Africa settentrionale musulmana affacciata sul Mediterraneo. Qui venne in contatto con mercanti e studiosi di lingua araba che gli mostrarono un innovativo sistema per scrivere i numeri e fare i calcoli. Non erano stati loro a scoprirlo, dato che le sue origini erano molto più antiche e risalivano all’India; usandolo nei loro commerci, i mercanti arabi lo avevano comunque trasportato verso nord, lungo la Via della Seta, fino alle coste del Mediterraneo, insieme ad altri, più tangibili prodotti dell’Oriente, come spezie, seta, unguenti e tinture.

Gli uomini avevano già iniziato a contare migliaia di anni prima che venisse sviluppato il primo sistema numerico. Nelle prime forme di conteggio, risalenti ad almeno trentacinquemila anni fa, ci si limitava a incidere delle tacche su un legno o un osso: il più antico esempio conosciuto è costituito dall’osso di Lebombo, scoperto sui monti Lebombo (nello Swaziland) e datato intorno al 35.000 a.C., dove abbiamo ventinove tacche distinte deliberatamente intagliate in una fibula di babbuino. È stato ipotizzato che le donne si servissero di queste ossa – o pietre – incise per tenere il conto dei loro cicli mestruali, facendo da ventotto a trenta tacche seguite da un segno distintivo. In altri esemplari di ossa incise, scoperte in Africa e in Francia e datate fra il 35.000 e il 20.000 a.C., si potrebbero riconoscere dei primi tentativi di quantificare il tempo. L’osso di Ishango, ritrovato nei pressi delle sorgenti del Nilo (nel Congo nord-orientale) e risalente forse a ventimila anni fa, presenta una serie di tacche intagliate disposte su tre colonne, che corrono per l’intera lunghezza dell’osso; stando a una comune interpretazione, si trattava di un calendario lunare semestrale.

Servendoci delle tacche, possiamo fare un segno verticale per indicare ogni oggetto di un insieme:

Le tacche, però, diventano difficili da leggere quando dobbiamo contare più di quattro o cinque oggetti. Un modo comune per aggirare questo problema riducendo la complessità consiste nel raggruppare le tacche in gruppi di cinque, spesso tracciando una linea diagonale attraverso ogni singolo gruppo. Il sistema numerale romano, usato per tutta la durata dell’impero di Roma (e ancora oggi, in particolari circostanze), era una versione più sofisticata di questa semplice idea, con l’introduzione di qualche simbolo aggiuntivo: «V» per cinque, «X» per dieci, «L» per cinquanta, «C» per cento e «M» per mille. Per esempio, usando questo sistema il numero milleduecentosettantotto (1278) può essere scritto come MCCLXXVIII:

MCCLXXVIII =M + C + C + L + X + X + V + I + I + I
=1000 + 100 + 100 + 50 + 10 + 10 + 5 + 1 + 1 + 1
=1278

Nel sistema romano, l’addizione è piuttosto semplice, dato che non occorre fare altro che raggruppare tutti i simboli simili. Per esempio, per sommare MCCXXIII (1223) e MCXII (1112) basta raccogliere tutte le M, le C, le X e le I, così:

Può poi capitare di dover convertire un gruppo di lettere in un simbolo dal valore più alto: per esempio, le cinque I possono essere sostituite con una V, così che il risultato sarà MMCCCXXXV (2335). Anche la sottrazione è relativamente facile. L’unico modo possibile per eseguire una moltiplicazione, però, consiste nel fare ripetute addizioni (o sottrazioni, nel caso della divisione): per esempio, per calcolare V per MMCIII dobbiamo sommare MMCIII a se stesso per quattro volte. È quindi evidente che questo sistema risulta concretamente utilizzabile solo quando almeno uno dei due numeri da moltiplicare è piccolo.

L’impraticabilità del sistema romano nelle moltiplicazioni e nelle divisioni lo rendeva inadeguato per molte applicazioni di grande importanza nel commercio e negli scambi, come quando si trattava di convertire due valute o determinare una commissione per una transazione. Inoltre, i numeri romani non potevano in alcun modo offrire la base per una qualunque opera scientifica o tecnica. Le società che si servivano della numerazione romana ricorrevano a elaborati sistemi aritmetici in cui si effettuavano i calcoli utilizzando le dita o qualche strumento meccanico (diversi tipi di abaco); i numeri, di fatto, venivano usati soltanto per annotare i risultati. Anche se i sistemi di aritmetica basati sull’impiego delle dita potevano andare bene per i calcoli con numeri fino a 10.000, e anche se alcune persone diventavano talmente esperte nell’uso dell’abaco da essere in grado di eseguire i calcoli a una velocità quasi pari a quella che potrebbe oggi raggiungere un individuo munito di calcolatrice, questi metodi richiedevano comunque una notevole esperienza e destrezza; inoltre, dato che i passaggi del calcolo non venivano messi per iscritto, il risultato doveva essere accettato sulla fiducia.

Il sistema numerico che usiamo oggi, quello indo-arabico, è nato in India e sembra sia stato completato intorno al 700 d.C. I matematici indiani fecero diversi progressi nelle discipline che oggi identificheremmo con l’aritmetica, l’algebra e la geometria, anche se gran parte del loro lavoro era comunque motivato dall’interesse per l’astronomia. Il sistema si basa su tre idee chiave: le notazioni per le cifre, il valore posizionale e lo zero. La scelta di adoperare dieci simboli numerici di base – ossia, la scelta della base 10 per contare e fare aritmetica – è probabilmente una diretta conseguenza dell’abitudine di contare usando le dita. Quando arriviamo a dieci sulle dita, dobbiamo trovare un modo per ricominciare da capo senza perdere il conto. Tra l’altro, il ruolo giocato dal conteggio con le dita nello sviluppo dei primi sistemi numerici spiegherebbe l’uso, in inglese, del termine «digit» per indicare le dieci cifre: questa parola, infatti, deriva dal latino digitus, che significa, per l’appunto, «dito».C

Una tesi spesso ripetuta, anche se non dimostrata, per spiegare la scelta dei simboli con cui vengono rappresentate le cifre è che, se li tracciamo usando delle linee rette (una restrizione ragionevole, se pensiamo che a quei tempi gli uomini scrivevano su tavolette di creta usando uno stilo), il numero di angoli in ogni figura corrisponde al numero da essa rappresentato. Ciò, ovviamente, dipende dal modo in cui scriviamo ciascuna cifra. Ecco una rappresentazione in cui questa ipotesi si rivela corretta:

L’introduzione dello zero, che arrivò dopo le altre cifre, costituì un passo cruciale nello sviluppo dell’aritmetica indiana. Il vantaggio principale del sistema numerico indiano è che si tratta di un sistema posizionale: il valore di un numero si basa cioè sulla posizione occupata da ciascuna sua cifra. Ciò ci consente di addizionare, sottrarre, moltiplicare e anche dividere i numeri usando delle semplici regole, facili da apprendere, per manipolare i simboli. Tuttavia, per avere un sistema numerico posizionale efficiente dobbiamo essere in grado di mostrare quando una particolare posizione non è occupata da nulla. Per esempio, se non ci fosse un simbolo specifico per lo zero, l’espressione

13

potrebbe significare tredici, ma anche centotré (103), o centotrenta (130), o magari milletrenta (1030). Potremmo lasciare degli spazi tra le cifre per indicare che una particolare colonna è vuota; ma, a meno di non scrivere su una superficie suddivisa chiaramente in colonne, non potremmo mai sapere con sicurezza se un particolare spazio stia a denotare uno zero o se non si tratti invece soltanto della semplice distanza che separa due simboli. Con l’introduzione di un simbolo specifico per indicare uno spazio privo di valori, tutto diventa più semplice.

Lo sviluppo del concetto di zero richiese parecchio tempo. Dato che i simboli dei numeri erano visti come numeri essi stessi (come delle cose usate per contare il numero di oggetti in un insieme), 0 avrebbe dovuto essere il numero di oggetti in un insieme privo di membri – di oggetti –, il che non aveva senso. Altre società non furono mai in grado di arrivare all’introduzione dello zero. Per esempio, molto tempo prima che gli indiani sviluppassero il loro sistema, i babilonesi avevano messo a punto un sistema numerico posizionale sessagesimale, ossia a base 60. Le vestigia di questo loro sistema permangono nella nostra misurazione del tempo e degli angoli: 60 secondi equivalgono a un minuto, 60 minuti a un’ora, 60 minuti angolari corrispondono a un grado e 360 (= 6 × 60) gradi fanno un angolo giro, un cerchio completo. I babilonesi, però, non avevano un simbolo che denotasse lo zero, un limite che il loro sistema non riuscì mai a superare.

Gli indiani giunsero allo zero in due tappe. Dapprima, superarono il problema di denotare gli spazi vuoti nella notazione posizionale tracciando un cerchio attorno allo spazio che non conteneva valori (cosa a cui erano arrivati anche i babilonesi); da questo cerchio sarebbe nato l’odierno simbolo dello zero, 0. Il secondo passo fu quello di considerare quel simbolo aggiuntivo esattamente come gli altri nove, cosa che significava sviluppare delle regole per fare aritmetica usandolo assieme a tutti gli altri. Questo secondo passo – che comportò un cambiamento nella concezione fondamentale dell’aritmetica, secondo il quale le sue regole non operavano sui numeri stessi (da cui lo zero era escluso) bensì sui simboli dei numeri (che includevano lo zero) – fu la chiave di volta; col tempo, inoltre, esso avrebbe anche condotto a un cambiamento nella visione dei numeri stessi, fino alla maturazione di una loro concezione più astratta dove lo zero era incluso. La rivoluzione dello zero fu opera di un brillante matematico chiamato Brahmagupta.

Nato nel 598 nell’India nord-occidentale, Brahmagupta trascorse la maggior parte della sua vita a Bhillamala (l’odierna Bhinmal, nel Rajasthan). Nel 628, all’età di trent’anni, compose un poderoso trattato (in venticinque capitoli) intitolato Brahmasphuta Siddhanta (L’inizio dell’universo). In seguito, fu messo a capo dell’osservatorio astronomico di Ujjain, allora il più importante centro matematico dell’India, e nel 665, a sessantasette anni, scrisse un altro libro sulla matematica e l’astronomia, Khandakhadyaka.

Nel Brahmasphuta Siddhanta, Brahmagupta introdusse il numero zero descrivendolo come il risultato che otteniamo quando sottraiamo un numero da se stesso. Quindi precisò alcune proprietà elementari che lo zero deve avere; per esempio,

quando lo zero viene sommato a un numero o sottratto da un numero, tale numero rimane invariato; e un numero moltiplicato per zero diventa zero.

Enunciò le regole aritmetiche per maneggiare i numeri positivi e negativi (incluse le regole per lo zero) in termini di fortune (numeri positivi) e debiti (numeri negativi):

Un debito meno zero è un debito.

Una fortuna meno zero è una fortuna.

Zero meno zero è zero.

Un debito sottratto da zero è una fortuna.

Una fortuna sottratta da zero è un debito.

Il prodotto di zero moltiplicato per un debito o una fortuna è zero.

Nel mondo moderno i numeri sono presenti ovunque: fanno talmente parte della struttura della nostra vita quotidiana che finiamo per darli per scontati, senza renderci conto di quanto il sistema indo-arabico sia straordinario per scriverli e, in misura ancora maggiore, per usarli nei calcoli. Quando vediamo l’espressione «13.049», per esempio, la riconosciamo subito come il numero tredicimilaquarantanove. Ciò è notevole a parecchi livelli. Tanto per iniziare, è molto più semplice leggere l’espressione simbolica (e comprendere a che numero si riferisce) che non la descrizione in parole; per qualche motivo, ci sembra che la versione simbolica sia il numero, mentre l’espressione in parole sia soltanto una sua descrizione. E non si tratta soltanto di una nostra percezione: in anni recenti, gli psicologi sperimentali, usando tecniche di laboratorio e studi su individui che avevano riportato lesioni al cervello tali da distruggere le capacità numeriche e linguistiche, hanno dimostrato che il nostro cervello conserva i numeri assieme ai simboli che li rappresentano, e probabilmente attraverso di essi.3 La nostra comprensione dei numeri dipende dai simboli; non possiamo separare i simboli dai numeri che rappresentano.

Un’altra cosa degna di nota riguardo al nostro sistema numerico è che usando soltanto i dieci simboli (o cifre) 0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, possiamo rappresentare tutti gli infiniti numeri interi positivi, un’efficienza resa possibile dal ricorso alla notazione posizionale, in cui il valore effettivo di ciascuna cifra dipende dalla posizione da essa occupata. In un’espressione numerica, la cifra più a destra rappresenta se stessa; quella immediatamente alla sua sinistra rappresenta le decine, quella successiva le centinaia eccetera. Pertanto, nell’espressione numerica «538» l’8 denota otto unità, il 3 tre decine (o trenta) e il 5 cinque centinaia (o cinquecento). L’espressione numerica «538», letta da sinistra a destra, nel suo complesso denota il numero cinquecento e trenta e otto, ossia cinquecentotrentotto. In simboli:

538 = (5 × 100) + (3 × 10) + (8).

Il simbolo 0 ci permette poi di saltare una colonna: per esempio, «207» denota due centinaia più nessuna decina più sette unità, ossia duecentosette.

Di primo acchito, questa discussione potrebbe sembrare qualcosa di circolare – un po’ come dire che la parola «blu» significa il colore blu –, ma ciò non fa altro che confermare quanto ci siano familiari i numeri e il modo in cui oggi li scriviamo. I numeri non si identificano affatto con i simboli che usiamo per rappresentarli. Per esempio, c’è un solo numero tre, ma molti modi per indicarlo: «3» (in simboli), «three» (in inglese), «trois» (in francese), «drei» (in tedesco), «tres» (in spagnolo) eccetera.

La moderna notazione simbolica per i numeri e l’aritmetica è l’unica vera lingua universale del mondo. Il nostro modo di scrivere i numeri rende l’aritmetica (sommare, sottrarre, moltiplicare e dividere coppie di numeri) una faccenda del tutto banale: una volta che abbiamo disposto i due numeri nella posizione corretta (nel caso dell’addizione, della sottrazione e della moltiplicazione, uno sotto l’altro, con le rispettive cifre allineate verticalmente a partire da destra), il resto del calcolo è una pura procedura meccanica, una semplice routine.

Questo straordinario sistema numerico si diffuse gradualmente verso Nord a partire dall’India, assieme ai mercanti che, viaggiando fra il Nord Africa e l’Oriente, lo imparavano e iniziavano a impiegarlo nelle loro transazioni commerciali. Alla fine del XII secolo, il sistema indo-arabico era in uso nei porti mercantili di tutta la costa meridionale del Mediterraneo; Leonardo lo portò quindi dall’altra parte del mare, in Italia.

In realtà, le cifre e l’aritmetica indo-arabiche avevano già fatto (separatamente) la loro comparsa in Italia prima ancora della nascita di Leonardo, ma non avevano avuto successo: le prime erano state considerate come una mera curiosità, mentre la seconda era conosciuta soltanto all’interno di una ristretta cerchia di studiosi.

Dopo l’invasione araba della Spagna, nel 711 d.C., era iniziato un regolare rapporto di viaggi e scambi commerciali fra la penisola iberica e il mondo arabo, scambi che avevano portato con sé anche la trasmissione di libri e conoscenze. Il più vecchio manoscritto latino contenente le cifre indo-arabiche (che non mostrava però come andavano usate nei calcoli) è il Codex Vigilanus, una raccolta di documenti storici scritta nel 976 in Spagna e rinvenuta nel monastero di Albelda de Iregua, nella provincia di La Rioja. Il manoscritto è una copia, fatta dal monaco Vigila, di un’opera precedente, le Etimologie di Isidoro di Siviglia. In linea con una pratica allora comune, Vigila incorporò nel testo i propri commenti, aggiungendo a una descrizione delle cifre indo-arabiche la seguente premessa: «Dobbiamo sapere che gli indiani hanno un ingegno sottilissimo e superano tutti gli altri popoli nell’aritmetica, nella geometria e nelle altre arti liberali. Ciò emerge chiaramente nelle nove cifre di cui si servono per indicare tutti gli altri numeri, di qualunque ordine e grandezza. Esse hanno le seguenti forme».D

Può darsi che Vigila fosse venuto a conoscenza delle cifre arabe attraverso alcuni cristiani colti dell’Andalusia (mozarabi) che erano emigrati nella Spagna settentrionale; o, magari, le aveva viste usare sulla variante dell’abaco sviluppata dal francese Gerberto d’Aurillac, che in seguito sarebbe diventato papa col nome di Silvestro II. Nel 967, quando Gerberto aveva più o meno la stessa età di Fibonacci al momento del suo arrivo a Bugia, il giovane francese si recò in Catalogna, dove studiò matematica per tre anni sotto la supervisione di Attone, vescovo di Vich. Mentre si trovava in Spagna, Gerberto venne a sapere dei numeri indo-arabici e se ne servì in un tentativo di migliorare l’efficienza dell’abaco.

L’abaco monastico di Gerberto aveva ventisette colonne (tre per le frazioni). La sua innovazione principale consisteva nel fatto che, anziché usare gruppi di più gettoni, si impiegavano dei singoli gettoni contrassegnati da alcuni simboli: un particolare simbolo denotava che il gettone in questione stava per se stesso, un altro che stava per due gettoni originali, un altro ancora che stava per tre e così via, fino a un simbolo che indicava che il gettone in questione stava per nove gettoni originali. Questi gettoni così contrassegnati erano chiamati apices, dal latino apex, probabilmente perché erano a forma di cono e i segni di Gerberto adornavano le loro punte. Gerberto aveva un migliaio di questi apici intagliati in pezzi di corno, e i simboli che li contrassegnavano erano una forma primitiva delle cifre indo-arabiche; mancava lo zero, dato che, nell’abaco, quest’ultimo veniva rappresentato da una colonna priva di gettoni e, pertanto, non aveva bisogno di un proprio segno specifico.

L’abaco di Gerberto rimase popolare nell’insegnamento dell’aritmetica fino ad almeno la metà del XII secolo. Ciononostante, non veniva usato dai mercanti, poiché, pur mostrando il valore posizionale (con un singolo simbolo in ogni colonna), come strumento di calcolo non era molto efficiente, dato che richiedeva un continuo scambio di simboli. Nell’adottare le cifre indo-arabiche come meri contrassegni, Gerberto si era lasciato sfuggire la vera forza di questa aritmetica. Tuttavia, sembra che con la comparsa dell’abaco di Gerberto il mondo occidentale cristiano abbia visto per la prima volta i numeri indo-arabici. Come avrebbe in seguito scritto uno dei discepoli di Gerberto a proposito del suo maestro: «Usava nove simboli, con cui era in grado di esprimere ogni numero».4 Due manoscritti che descrivono lo strumento di Gerberto affermano che quest’ultimo portò «nel mondo latino i numeri dell’abaco e le loro forme».5 Un secolo e mezzo dopo, Guglielmo di Malmesbury dichiarò che Gerberto aveva «strappato l’abaco agli arabi».6

Gerberto non fu il solo a non riconoscere la potenziale forza dei nuovi simboli: per più di un secolo, gli europei li consideravano soltanto dei segni curiosi che adornavano i gettoni dell’abaco. Anche se il Codex Vigilanus era stato scritto in Spagna, questo Paese adottò il nuovo modo di fare aritmetica solo molto tempo dopo l’Italia. Il più antico manoscritto francese che abbia anche solo descritto le nuove cifre – senza impiegarle nei calcoli – risale al 1275, molto dopo la comparsa in Italia del Liber abbaci, e la nuova aritmetica iniziò a diffondersi fra i mercanti francesi soltanto parecchi decenni più tardi.

Le cifre indo-arabiche – intese meramente come simboli per denotare i numeri – erano già arrivate a Pisa nel 1149 ed erano state usate per compilare le «Tavole pisane», delle tavole astronomiche ritenute le traduzioni latine di alcune tabelle arabe risalenti alla fine del X secolo.7 Sembra comunque improbabile che Leonardo si sia imbattuto nelle nuove cifre durante la sua infanzia pisana: quando i nuovi simboli giunsero per la prima volta in Europa, infatti, vennero scritti alla maniera degli arabi (nella cosiddetta «forma orientale»), mentre nel suo Liber abbaci Leonardo li tracciò in modo differente, nella «forma occidentale», quella che ci è oggi familiare.

Anche i metodi dell’aritmetica indo-arabica avevano già raggiunto l’Europa prima della nascita di Leonardo, ma nessuno si era accorto delle loro potenzialità pratiche. Mezzo secolo prima che Leonardo si recasse in Nord Africa, gli studiosi europei avevano tradotto in latino due importanti manoscritti arabi, composti dal matematico persiano Abū ‘Abdallāh Muḥammad ibn Mūsā al-Khwārizmī (780-850 d.C. circa).

Il primo, scritto intorno all’825, descriveva l’aritmetica indo-arabica. Il suo titolo originale ci è ignoto; forse non ne aveva neppure uno.8 Non esiste nessun manoscritto arabo originale, e l’opera è sopravvissuta soltanto attraverso una traduzione latina fatta probabilmente nel XII secolo da Adelardo di Bath. Anche la traduzione originale latina non aveva un titolo, ma gliene venne dato uno quando fu stampata, nel XIX secolo: Algoritmi de numero Indorum («I numeri indiani, di Al-Khwārizmī»).9 La versione latinizzata del nome di al-Khwārizmī che compare in questo titolo (Algoritmi) diede origine al nostro moderno termine «algoritmo», con cui ci riferiamo a un insieme di regole che specificano un calcolo. Talvolta l’opera viene anche indicata con le prime due parole con cui si apre il testo, Dixit algorizmi («Al-Khwārizmī disse»), o, ancora, col titolo Sul calcolo con i numeri indiani; più spesso, però, viene citata semplicemente come l’«Aritmetica di al-Khwārizmī».

Il secondo libro di al-Khwārizmī, completato attorno all’830, era intitolato al-Kitāb al-mukhtas·ar fī hīsāb al-jabr wa’l-muqābala, traducibile in termini letterali come «Il compendio sul calcolo attraverso restaurazione e opposizione» o, più colloquialmente, «Il compendio di algebra».10 Si tratta di un antico trattato su quella che oggi chiamiamo «algebra», un nome che deriva proprio dal termine al-jabr contenuto nel titolo. La frase al-jabr wa’l-muqābala si traduce letteralmente come «restaurazione e opposizione», o, più liberamente, come «compensazione di un’equazione». Oggi gli studiosi tendono a riferirsi a questo libro come all’«Algebra di al-Khwārizmī». Nell’Algebra, al-Khwārizmī ha sviluppato un approccio sistematico alla soluzione delle equazioni lineari e quadratiche, fornendo un’ampia spiegazione di come si risolvono le equazioni polinomiali fino al secondo grado.

Al-Khwārizmī aveva scritto i suoi libri per i mercanti e gli uomini d’affari, mentre le loro traduzioni latine europee erano soprattutto indirizzate a (e lette da) altri studiosi. Interessati esclusivamente ai vantaggi di questo sistema nel campo della matematica, i traduttori non si resero conto della loro potenziale importanza per quanto riguardava il mondo del commercio; per giungere a questo fu necessario attendere il viaggio in Nord Africa del giovane Leonardo Pisano.

A Il familiare strumento di calcolo oggi generalmente noto come abaco, con delle palline infilate su una serie di cordicelle attaccate a un telaio di legno, non era usato nell’Europa medievale ma viene dalla Cina, dove era chiamato xuan pan; a volte, pertanto, viene indicato – in modo più corretto – come l’«abaco cinese». L’«abaco europeo» era invece costituito da una tavola con una serie di righe parallele su cui si facevano scorrere i gettoni (o «contatori») per rappresentare i diversi numeri; nel medioevo era diffuso in tutta Europa, e in alcuni luoghi veniva ancora utilizzato alla fine del XVIII secolo.

B Gli storici non hanno però sempre adottato questa distinzione di grafia e, purtroppo, la traduzione inglese del Liber abbaci usa la variante con una «b» sola.

C Per fare aritmetica, qualunque altra base che abbia più o meno la stessa grandezza andrebbe ugualmente bene: per citare una battuta dell’umorista, compositore di canzoni e matematico Tom Lehrer, l’aritmetica in base 8 non è più difficile di quella in base 10, «se vi mancano due dita».

D«Scire debemus in Indos subtilissimum ingenium habere et ceteras gentes eis in arithmetica et geometria et ceteris liberalibus disciplinis concedere. Et hoc manifestum est in nobem figuris, quibus designant unumquemque gradum cuiuslibet gradus. Quarum hec sunt in forma.»