CAPITOLO 7

Il dopo Fibonacci

Verso la fine del XIII secolo, e forse già durante la vita di Leonardo, comparvero i primi manoscritti di istruzioni pratiche di aritmetica composti in volgare per i non esperti (e, in particolare, per la comunità mercantile), manoscritti che all’alba del XV secolo sarebbero presumibilmente ammontati a un migliaio o anche più. Circa quattrocento di essi sono sopravvissuti fino a oggi, ma ogni congettura sul numero complessivo di quelli che vennero scritti può essere al massimo una stima ben ponderata, dato che con ogni probabilità la maggioranza è andata perduta. In termini di contenuti, comunque, erano tutti simili. Al pari del Liber abbaci, spiegavano come scrivere i numeri usando le dieci cifre da 0 a 9, come funziona il sistema posizionale e come calcolare con numeri interi e frazioni; fornivano tutti un gran numero di esempi svolti, la maggior parte dei quali concernevano problemi pratici di affari; e, sempre come nel Liber abbaci, i loro autori fornivano spesso delle tabelline di moltiplicazione e delle tavole di radici quadrate, così da facilitare la soluzione dei problemi più complessi. Erano però molto più brevi del capolavoro di Leonardo, contando in media un centinaio di fogli (scritti su fronte e retro) ciascuno. Un foglio tipico conteneva cinque problemi risolti, per un totale di circa quattrocento problemi per libro.

Questi libri divennero noti come libri d’abbaco o trattati d’abbaco. Sulla maggior parte di essi non era riportato il nome del loro autore; spesso erano illustrati, e alcuni recavano delle annotazioni secondo le quali erano stati offerti in dono a patroni e grandi mercanti. Erano palesemente scritti per un pubblico locale, dato che le unità monetarie utilizzate nei problemi tendevano a concentrarsi sulla valuta di una particolare città o regione. Spesso l’autore esordiva con la promessa di spiegare «l’arte dell’abaco al modo della città di…». Per quanto riguarda gli esemplari più scadenti, non sappiamo perché o per chi furono composti; in alcuni casi, forse, si trattava solo di quaderni di appunti personali, non destinati all’uso di altre persone all’infuori del loro anonimo autore.

Per quanto la proliferazione dei libri d’abbaco sia stata davvero notevole, ai giorni nostri quasi nessuno sapeva della loro esistenza prima che, negli anni Sessanta del Novecento, lo storico Gino Arrighi iniziasse a pubblicare le trascrizioni dei loro contenuti.1 Nel 1980, lo storico Warren Van Egmond preparò e pubblicò un catalogo di più di 250 manoscritti italiani d’abbaco composti prima del 1600 e giunti fino a noi.2 I libri nel catalogo di Van Egmond mostrano una tendenza generale alla crescita in questo nuovo genere letterario: ne era stato pubblicato uno nei venticinque anni dal 1276 al 1300, otto nel quarto di secolo successivo (1301-1325), dieci nel 1326-50, sei nel 1351-75, diciannove nel 1376-1400, sedici nel 1401-25, trentanove nel 1426-50, cinquantasei nel 1451-75, sessantasei nel 1476-1500 e il resto dopo il 1500. Anche se un’estrapolazione dai manoscritti sopravvissuti può offrirci soltanto una stima molto approssimativa dei numeri effettivi di libri d’abbaco prodotti, è comunque chiaro che il mondo commerciale italiano nutriva un considerevole – e crescente – interesse per l’apprendimento della nuova aritmetica.

Molti libri d’abbaco si limitavano perlopiù a presentare degli esempi svolti – una sorta di modelli di cui gli uomini d’affari si sarebbero potuti servire senza bisogno di una reale comprensione degli argomenti –, ma alcuni autori si addentravano un po’ più in profondità nelle questioni matematiche, componendo dei trattati pensati probabilmente per l’uso nelle scuole, come testi di riferimento e fonti di esempi per gli insegnanti. In genere, questi libri dal carattere più didattico si aprivano con una breve prefazione che spiegava la natura e l’utilità della matematica.

Un aspetto curioso dei libri d’abbaco è dato dal loro continuo uso della forma retorica. Dopotutto, il Liber abbaci aveva mostrato al mondo occidentale come scrivere i numeri nella forma simbolica indo-arabica e come usare questi simboli per fare i conti. Ciò dipende in parte dal contesto educativo in cui questi trattati erano composti, che si concentrava sull’insegnamento orale, la memorizzazione e la ripetizione ad alta voce. L’obiettivo era quello di ricordare le cose a memoria, e i manoscritti erano visti come un mezzo per catturare una lezione orale. Questo spiega perché, nei testi d’abbaco, i problemi erano spesso introdotti da una frase come: «Se ti dico…», e quando c’era un qualche risultato intermedio da mettere da parte per un uso successivo, lo studente veniva invitato a «tenerlo a mente». Nelle loro spiegazioni scritte dei calcoli, gli autori arabi precedenti scrivevano anche i numeri in parole anziché in cifre; quando ricorrevano a una presentazione simbolica, quest’ultima si riduceva perlopiù a un diagramma finalizzato a mostrare al lettore che cosa avrebbe potuto scrivere su una lavagnetta una persona intenta a svolgere un calcolo.

Un secondo fattore che impediva l’adozione della notazione simbolica era dato dal fatto che le copie dei manoscritti dovevano essere realizzate a mano. Gli scribi professionisti erano in grado di produrre delle copie dall’aspetto elegante e curato, ma non sempre avevano una sufficiente dimestichezza con gli argomenti trattati; in particolare, molti non comprendevano la funzione delle rappresentazioni simboliche, e c’era il rischio che finissero per mutilarle, abbreviarle o saltarle del tutto.3 Per evitare che la matematica presente in un testo finisse perduta, era consigliabile non ricorrere all’impiego dei simboli; solo con l’avvento delle macchine tipografiche, nel XV secolo, gli autori iniziarono a usare espressioni simboliche.

Anche se la maggioranza dei problemi nei libri d’abbaco erano di natura economica, i loro autori seguirono le orme di Leonardo includendo anche un certo numero di rompicapi più bizzarri.A In particolare, i problemi di inseguimento godevano di una certa popolarità. Per esempio:

Una volpe è 40 passi davanti a un cane, e 3 passi di quest’ultimo corrispondono a 5 passi della prima. Vogliamo sapere in quanti passi il cane raggiungerà la volpe.B

Fin verso la fine del XV secolo, tutti i trattati d’abbaco venivano copiati a mano e avevano pertanto una circolazione limitata. Il primo che venne dato alle stampe, un volume anonimo e privo di titolo oggi noto come l’Aritmetica di Treviso (o Larte de labbacho), fu pubblicato a Treviso nel 1478, solo ventiquattro anni dopo la stampa della Bibbia di Gutenberg in Germania. Scritta per un pubblico generale da un autore ignoto e composta nel dialetto veneziano dell’epoca, l’Aritmetica di Treviso si serviva di problemi commerciali per spiegare le operazioni di addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione.4

Un libro più ragguardevole scritto nel solco della tradizione abbachistica vernacolare è la Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalita, l’opera erudita composta dal matematico Luca Pacioli pochi anni dopo, nel 1494. Una differenza significativa tra il libro di Pacioli e l’Aritmetica di Treviso è data dal fatto che il primo si occupa anche dei numeri negativi. Il concetto di numero negativo era una novità in Europa, e si ritiene che Pacioli sia stato il primo a fornirne una spiegazione in un libro stampato; dal canto suo, l’ignoto autore dell’Aritmetica di Treviso, nel contesto della sua trattazione delle sottrazioni, aveva metodicamente aggirato il problema scegliendo sempre, nei suoi esempi, un minuendo maggiore del sottraendo.

Il libro di Pacioli viene oggi considerato come una pietra miliare nella storia della matematica. Come il Liber abbaci, era un testo voluminoso: circa seicento fogli stampati, scritti fitti. E, sempre come l’opera di Leonardo, trattava l’aritmetica sia dal punto di vista pratico, sia sotto una prospettiva teorica. Tuttavia, nonostante tutta la sua sottigliezza matematica, era chiaramente pensato come un manuale d’istruzioni a uso del mondo dei mercanti. Conteneva delle tabelle di moltiplicazione fino a 60 × 60, presentava le tavole di diverse unità monetarie, discuteva i pesi e le misure usati nei vari Stati italiani e offriva una delle prime spiegazioni della contabilità a partita doppia. Come molti altri libri d’abbaco, includeva anche un «tariffario» per la comunità mercantile. I tariffari, o «libri di mercantia», erano elenchi di informazioni pratiche come i pesi, le misure e i sistemi monetari in uso nelle maggiori città commerciali dell’Europa e del Mediterraneo, gli itinerari delle rotte commerciali, le liste delle fiere più importanti e altre cose simili. Gli elenchi di questo genere venivano anche pubblicati separatamente. Il primo tariffario dato alle stampe fu il Libro che tratta di mercanzie et usanze dei paesi di Giorgio di Lorenzo Chiarini, pubblicato a Firenze nel 1481, un estratto del quale fu incluso da Pacioli nella sua Summa.

Il fatto che un matematico di talento come Pacioli abbia scritto un libro sull’aritmetica elementare e l’algebra pratica indirizzato ai commercianti mette in luce come per tutto il XIII, il XIV e il XV secolo (e anche oltre) l’espansione della matematica – e in particolare dell’algebra – in Europa sia stata in gran parte spinta dal mondo degli affari. Gli autori dei migliori libri d’abbaco presero i metodi algebrici che Leonardo aveva descritto nelle sue opere e li divulgarono come uno strumento pratico (che, del resto, era anche il modo in cui gli arabi avevano concepito l’algebra, nonché la ragione stessa per cui l’avevano sviluppata). L’algebra non venne insegnata come una disciplina accademica nelle università europee fino alla metà del XVI secolo. Come afferma la storica Diane Finiello Zervas, tutta la matematica necessaria per progettare e costruire le famose porte del battistero fiorentino si poteva trovare in un tipico libro d’abbaco.5

La proliferazione dei libri d’abbaco fu accompagnata dalla parallela diffusione, in tutta Italia, delle scuole di aritmetica, chiamate «scuole d’abbaco» o «botteghe d’abbaco», dove i ragazzi imparavano a usare il sistema numerico indo-arabico.6 La prima testimonianza dell’esistenza di una scuola d’abbaco si trova negli statuti del comune di Verona del 1294, che citano la nomina del maestro Lotto di Firenze come insegnante di matematica. Oltre a insegnare ai ragazzi nelle scuole, molti dei «maestri d’abbaco» impartivano le loro lezioni anche agli adulti, che imparavano a usare questo sistema nel mondo commerciale o diventavano essi stessi organizzatori di scuole e insegnanti.

In genere, i bambini italiani frequentavano la scuola elementare fra i sei e gli undici anni di età. A quel punto, i loro genitori potevano scegliere fra mandarli a una scuola di grammatica oppure a una scuola d’abbaco. Nelle prime, che di norma duravano quattro o cinque anni, i ragazzi imparavano a padroneggiare la grammatica latina e a leggere i testi latini, preparandosi per una carriera come chierici, notai, avvocati o medici (o per insegnare a loro volta in una scuola di grammatica, dove era essenziale possedere delle solide basi nella conoscenza del latino). Le scuole d’abbaco, che duravano due anni, erano pensate per istruire i futuri uomini d’affari insegnando loro la matematica e la contabilità. I testi e le lezioni erano in volgare. Alcuni genitori cercavano di sfruttare entrambe le possibilità, mandando i loro figli prima a una scuola di grammatica per due o tre anni e quindi a una scuola d’abbaco per altri due. Leonardo da Vinci e Niccolò Machiavelli studiarono entrambi in una scuola d’abbaco;7 il maestro di da Vinci, Benedetto da Firenze, fu anche l’autore di un testo molto copiato (e molto plagiato), il Trattato d’abacho.8

I maestri d’abbaco seguivano uno specifico programma che, in genere, comprendeva la lettura e la scrittura in volgare, l’aritmetica, la geometria, la contabilità e talvolta anche la navigazione. Il programma più dettagliato oggi conosciuto è quello della scuola di Cristofano di Gherardo di Dino, maestro a Pisa nel 1442:

Questo è il modo in cui l’abbaco viene insegnato a Pisa, dall’inizio alla fine del periodo di apprendimento degli studenti.

  1. Per prima cosa, quando il ragazzo arriva a scuola, gli viene insegnato a tracciare le figure delle cifre, vale a dire 9, 8, 7, 6, 5, 4, 3, 2, 1;
  2. Quindi, impara a tenere i numeri sulle mani, cioè le unità sulla mano sinistra e le decine, le centinaia e le migliaia sulla destra.
  3. Quindi, gli si insegna a tracciare i numeri sulle tavolette: prima i numeri di due cifre, poi di tre, di quattro e così via. Quindi impara come tenerli sulle mani.
  4. Quindi, gli vengono spiegate le tabelline di moltiplicazione e impara a scriverle sul libretto, partendo da uno per uno fa uno fino a dieci per dieci fa cento; gli studenti devono impararle perfettamente a memoria.
  5. Quindi, si insegna a fare le divisioni.
  6. Quindi, a moltiplicare le frazioni.
  7. Quindi, a sommare le frazioni.
  8. Quindi, a dividere le frazioni.
  9. Quindi, si spiegano la maturazione degli interessi semplici e a fine d’anno.
  10. Quindi, si spiega come misurare le terre, o come calcolare il quadrato di un numero.
  11. Quindi, come calcolare sconti semplici e sconti a fine d’anno.
  12. Quindi, come calcolare le once d’argento.
  13. Quindi, si spiegano le leghe d’argento.
  14. Quindi, si fanno i confronti fra due quantità.
  15. E si noti che, per fare i suddetti calcoli, gli studenti devono usare le matite secondo il loro livello. E a volte devono fare le addizioni con le mani, a volte sulla lavagna; talvolta, poi, possono essere loro assegnati dei compiti aggiuntivi, a discrezione del maestro.
  16. Si noti anche la seguente regola generale: ogni sera si assegnano loro dei compiti per il giorno dopo, a seconda del loro livello. E quando c’è in mezzo una festività, i compiti vanno raddoppiati.

I documenti indicano che fra il 1340 e il 1510 nella sola Firenze operavano una ventina di scuole d’abbaco; nel 1343, gli studenti che le frequentavano erano fra i 1000 e i 1200, una frazione significativa della popolazione maschile in età scolare.9 Una situazione simile si riscontrava anche a Venezia, Milano, Pisa, Siena, Lucca e in tutte le altre maggiori città d’Italia. Da un passo della Cronica fiorentina di Giovanni Villani si deduce che qualche anno prima, nel 1338, circa il dieci per cento di tutti i ragazzi della cittadina di San Giovanni frequentavano la scuola d’abbaco mercantile, mentre il cinque per cento circa andavano alla scuola di grammatica latina (i bambini che imparavano a leggere erano più della metà del totale).10 Anche se oggi questi dati di affluenza scolastica ci sembrano bassi, essi rivelano comunque una sostanziale crescita nel numero di individui provvisti di competenze matematiche.

Nelle città più grandi, come Venezia o Firenze, le scuole d’abbaco erano di proprietà degli insegnanti privati che le gestivano e che accettavano gli studenti giorno per giorno dietro il pagamento di un compenso versato direttamente dai loro genitori. Il caso più tipico, però, era quello delle scuole fondate da ricchi mercanti (che godevano di una forte influenza sulle autorità pubbliche) che volevano che i loro figli venissero istruiti nella matematica commerciale. Le istituzioni comunali procedevano quindi ad attirare i maestri d’abbaco da altre località e preparavano dei contratti che specificavano il numero di anni per cui avrebbero dovuto lavorare, il numero di studenti che potevano tenere e la percentuale delle rette d’iscrizione che avrebbero dovuto versare al comune. Di solito i contratti duravano da uno a tre anni. In cambio, i comuni riconoscevano ai maestri l’esenzione dalle tasse – totale o ammezzata – e il diritto di raccogliere rette scolastiche, e fornivano loro libri di testo, oggetti di cancelleria e una casa in cui vivere (dove alcuni insegnanti davano anche lezioni private a pagamento).

Una volta che gli studenti di una scuola d’abbaco avevano appreso i rudimenti del sistema numerico indo-arabico e della sua matematica, veniva loro mostrato come risolvere i problemi pratici, come gli scambi fra diversi tipi di beni o valute; altri quesiti potevano poi riguardare la ripartizione dei profitti, per esempio nei casi in cui ogni socio investiva una certa somma per poi magari ritirarne una data percentuale. Venivano studiati anche i contratti di lavoro, in cui l’imprenditore concordava il pagamento di un determinato stipendio per un certo periodo in cambio di una prestazione d’opera che avrebbe dovuto produrre una specifica quantità di beni. Con le lezioni sulla contabilità, gli studenti imparavano a prendere nota di pesi, lunghezze, dimensioni e altre informazioni quantitative e qualitative sui beni. Quasi certamente, la maggior parte dei libri d’abbaco erano pensati come testi di riferimento per gli insegnanti di queste scuole; dato che la soluzione di ogni problema era riportata subito dopo la sua enunciazione (come nel Liber abbaci), questi volumi non erano concepiti per essere usati come i manuali moderni, dove lo studente risolve i problemi e quindi controlla le risposte che ha ottenuto con le soluzioni riportate a fine libro.

I libri e le scuole d’abbaco si diffusero in risposta a una domanda provocata dai cambiamenti che, all’epoca, stavano investendo la vita commerciale italiana, e che richiedevano una maggiore dimestichezza coi numeri da parte della cittadinanza. Ai tempi dell’infanzia di Leonardo, il commercio era ancora rappresentato dai singoli individui che si recavano al mercato portando i loro beni; i calcoli richiesti si potevano eseguire con facilità usando le dita o ricorrendo a un abaco tradizionale, cosa per cui bastavano i rudimenti più semplici dell’aritmetica. Nel corso del XIII secolo, però, prese piede un modo radicalmente nuovo di fare affari: i viaggi per mare diventarono più veloci e più affidabili grazie ai miglioramenti nella navigazione, dovuti in gran parte all’introduzione della bussola e allo sviluppo dei portolani (carte marittime basate su una descrizione realistica di coste e di porti). Anche l’eliminazione della pirateria, poi, contribuì a rendere più sicuri i trasporti via mare. La nascita di quello che oggi considereremmo come un moderno sistema bancario internazionale portò con sé una serie di strumenti finanziari come cambiali e lettere di credito, e la nuova industria delle assicurazioni marittime iniziò a garantire una certa protezione contro l’eventuale perdita di un vascello in una tempesta. Lo sviluppo, grazie ai banchieri fiorentini, della moderna contabilità a partita doppia facilitò poi la crescita di forme più complesse di organizzazione aziendale.

Tutto ciò condusse alla nascita di conglomerati commerciali guidati da direttori che vendevano e compravano restandosene a casa, nei maggiori centri commerciali italiani come Pisa, Firenze e Venezia, senza bisogno di salire sul ponte di una nave o di recarsi di persona in un mercato straniero. I mercanti di questo genere non si occupavano direttamente dei beni materiali, che venivano di fatto maneggiati da altri, bensì di libri di contabilità, lettere e cambiali. Questo nuovo mondo aveva bisogno dell’aritmetica simbolica descritta da Leonardo nel Liber abbaci e insegnata dai maestri delle scuole d’abbaco; i vecchi metodi basati sui numeri romani e sull’uso di un abaco meccanico non erano semplicemente più all’altezza del compito.

Anche se la superiorità del sistema numerico e dell’aritmetica indo-arabici portò alla loro rapida adozione da parte di numerosi mercanti, per un certo tempo l’opposizione pubblica impedì la loro accettazione universale. In genere questo avveniva perché le nuove cifre rendevano più difficile la lettura dei libri mercantili. Inoltre, alcuni contabili affermavano che le nuove cifre facevano aumentare i rischi di alterazione: stando a un manuale di contabilità veneziano, «si usano soltanto le vecchie cifre in quanto non possono essere falsificate con la stessa facilità di quelle della nuova arte del calcolo, dove l’una può essere trasformata senza sforzo nell’altra, come lo zero in un 6 o in un 9, o molti altri casi simili».11 I tribunali italiani davano precedenza legale ai documenti scritti utilizzando i numeri romani rispetto a quelli dove comparivano le cifre indo-arabiche.

Un gruppo che aveva un evidente interesse a ostacolare il cambiamento era costituito dal ristretto numero di persone esperte nell’uso dell’abaco meccanico, alcune delle quali cercarono di fatto di impedire la diffusione dei nuovi metodi. Per esempio, negli statuti dell’Arte del Cambio di Firenze del 1299 c’era un proclama che proibiva ai suoi membri di usare i nuovi numeri.12 Nel 1348, poi, l’Università di Padova richiese che gli elenchi dei suoi libri riportassero i prezzi in numeri romani («Non in cifre, ma in chiare lettere» stabiliva l’ordinanza).13

A causa di queste opposizioni, per un certo tempo i mercanti italiani continuarono a usare i numeri romani nei loro libri mastri. Talvolta comparivano anche delle forme miste dove il sistema posizionale veniva combinato con le cifre romane, come IImIIIcXV per 2315. Il cambiamento era però inevitabile: il sistema indo-arabico era molto più funzionale e, verso la fine del Quattrocento, era ormai stato adottato dalla stragrande maggioranza dei mercanti italiani.

Fu la crescita del mondo commerciale italiano a spingere per l’adozione di modi più efficienti di fare matematica. Fra l’XI e il XV secolo, il reddito pro capite nell’Italia settentrionale giunse a triplicarsi. Alla fine del XIV secolo, molte imprese commerciali italiane avevano una portata globale, e circa centocinquanta banche italiane operavano in più nazioni. Certo, l’aritmetica non fu né la causa né l’unico fattore di questa crescita. Il suo ruolo fu più simile a quello dell’ossigeno rispetto al fuoco: ci vuole del combustibile per accendere e mantenere viva una grande fiamma, ed è facile non accorgersi di quel gas invisibile che pure riveste un’importanza cruciale nel quadro di questo processo; tuttavia, in assenza di una quantità sufficiente di ossigeno ci ritroviamo solo con dei tizzoni che bruciano a fuoco lento.

Con il declino di Pisa – iniziato poco dopo la morte di Leonardo –, nel XV secolo Firenze era diventata uno dei centri più importanti delle attività legate alla nuova aritmetica e alle sue applicazioni, in particolare nel campo della finanza. Un esame dei libri mastri della Banca dei Medici ci mostra la diffusione dell’uso dei numeri indo-arabici in ambito finanziario.14 La famiglia Medici, citata per la prima volta in un documento del 1230, proveniva dalla regione agricola del Mugello, a nord di Firenze. La loro ascesa al potere iniziò sotto Cosimo de’ Medici verso la fine del XIV secolo. Dopo aver accumulato un capitale nell’industria tessile, nel 1397 fondarono la Banca dei Medici, che nel corso del secolo successivo sarebbe diventata l’istituto di credito più grande e più rispettato d’Europa, con almeno otto filiali commerciali sparse per tutto il continente. Il duraturo contributo dei Medici al mondo degli affari, al commercio e alla contabilità fu la messa a punto del sistema a partita doppia per registrare crediti e debiti. Anche se le sue origini possono essere fatte risalire all’epoca romana, nella sua forma moderna il sistema venne usato per la prima volta dai contabili che lavoravano per i Medici a Firenze. A partire dal 1406, nei loro registri iniziarono a comparire spesso i numeri indo-arabici nella colonna delle descrizioni; dal 1439, i numeri indo-arabici sostituirono quelli romani nei quaderni provvisori (diari, brogliacci eccetera), ma fu solo nel 1482 che la numerazione romana venne abbandonata in tutti libri mastri definitivi dei Medici, tranne uno. Dal 1494 in poi, in tutti i registri contabili dei Medici vennero usate soltanto le cifre indo-arabiche.15

Ci volle però più tempo perché il sistema indo-arabico si diffondesse anche oltre i confini italici. Nel 1494, i cambiavalute di Francoforte tentarono di proibirne l’uso (come avevano fatto i fiorentini due secoli prima), persuadendo le autorità cittadine a promulgare un’ordinanza che stabiliva che «i contabili devono evitare di calcolare con le cifre».16 L’aritmetica dell’abaco tradizionale rimase quella predominante nell’Europa del Nord fino alla fine del XVI secolo; col tempo, però, il nuovo sistema si sarebbe imposto anche lì, in virtù della sua indiscutibile superiorità. La forza propulsiva che spingeva il cambiamento trovò espressione nel termine popolare con cui venivano indicate le cifre indo-arabiche in Italia: figura mercantesco, cifre mercantili. E si trattava di una forza che trascendeva i confini nazionali. Come Leonardo a Bugia, i cittadini del Nord Europa si resero conto del valore della nuova aritmetica attraverso gli affari. Molte di quelle interazioni avevano luogo in quella che era allora diventata la capitale commerciale non solo dell’Italia, ma del mondo intero: Venezia.

Già ai tempi di Leonardo, la città dei canali minacciava di sottrarre a Pisa il primato di centro commerciale più importante d’Europa. Riferendosi a Venezia, nel 1267 un commentatore scrisse che «le mercanzie passano attraverso questa nobile città come l’acqua scorre dalle fontane».17 Nel XV secolo, la Repubblica veneziana era ormai diventata l’indiscussa capitale commerciale del mondo e controllava un vasto impero territoriale che includeva, oltre alla stessa Venezia, le città di Ravenna, Treviso, Padova, Vicenza, Verona e Brescia. I mercanti veneziani facevano affari con la maggior parte dell’Europa, spingendosi a nord fino al Mare del Nord e al Mar Baltico – arrivando ai grandi centri commerciali di Gand, Bruges, Anversa, Amsterdam e Londra – e a sud e a est fino ai Paesi arabi dall’altra parte del Mediterraneo.

Assieme al suo rango di capitale commerciale del mondo, a partire dal XIV secolo Venezia venne anche vista come una fucina di nuovi metodi affaristici basati sulla matematica, e i mercanti di tutta Europa vi giungevano per imparare l’arta dela mercandanta, l’arte mercantile italiana. In Germania, i primi divulgatori della nuova aritmetica vennero chiamati «cossisti» (dal termine «cosa», con cui veniva indicata l’incognita in un problema algebrico). Ben presto, gli uomini d’affari tedeschi iniziarono a studiare sempre più numerosi la Welsche Praktik, il modo in cui gli affari, l’aritmetica commerciale e i cambi di valuta venivano fatti all’estero. I mercanti tedeschi che venivano a Venezia a fare affari erano talmente tanti che, per sistemarli, la città costruì un fondaco speciale, il Fondaco dei Tedeschi, una struttura di cinque piani, con un grande cortile, in grado di ospitare più di ottanta mercanti (accompagnati dalla servitù) per volta. Gli stranieri venivano a imparare tutte le nuove pratiche affaristiche che gli italiani stavano sviluppando e utilizzando con ottimi risultati in ambito bancario, finanziario e assicurativo, nei cambi e nel commercio all’ingrosso, nella manifattura e nell’amministrazione delle colonie. Il mondo commerciale si stava rapidamente trasformando in quel mercato globale che oggi ci sembra qualcosa di scontato.

Alla base di tutte queste innovazioni c’era la nuova aritmetica che Leonardo aveva importato da Bugia. Il fatto stesso che il primo libro d’abbaco dato alle stampe (l’Aritmetica di Treviso) sia stato composto nelle vicinanze di Venezia – Treviso fu conquistata dalla Repubblica nel 1339 – non fu certo un semplice caso: Venezia era la città dove la domanda di questo nuovo, potente strumento era di gran lunga più forte.18 Come scrisse l’ignoto autore dell’Aritmetica di Treviso al termine del suo libro: «Ecco miei carissimi fornita lopera co desiderio grande da mi richiesta. La quale se co tanto studio versereti: co quanto lha impetrata li vostri ardenti desiderii: non dubito vi riportara incredibile frutto».19

Alla fine del XVI secolo, l’intera Europa aveva ormai adottato il sistema indo-arabico; una delle conseguenze fu l’inizio della sua inesorabile ascesa al dominio mondiale nel commercio e nella finanza, il principio di una rivoluzione commerciale che dipendeva dai nuovi metodi, potenti ed efficienti, per lavorare con i numeri. La rivoluzione aritmetica, di per sé, poteva ormai dirsi conclusa. Ma a chi va riconosciuto il merito di averle dato l’avvio? Potremmo essere tentati di rispondere «a Leonardo»: il Liber abbaci era stato pubblicato con una tempistica perfetta, il suo contenuto era accurato e ampio – con moltissimi esempi pratici – e Leonardo aveva raggiunto la celebrità già durante la sua vita. Ma siamo proprio sicuri che questa risposta sarebbe quella corretta?

A Un celebre problema di questo tipo presente nel Liber abbaci riguarda la crescita di una popolazione di conigli; avremo modo di discuterlo più avanti, nel capitolo 9.

B Da un libro d’abbaco del XIV secolo scritto da Paolo dell’Abbaco; la traduzione è di Arrighi (1964, p. 78). Può essere facilmente risolto usando l’algebra simbolica moderna, che riduce il rompicapo alla soluzione di un sistema di due equazioni, c = v + 40 e 5v = 3c. La risposta, quindi, è: dopo 100 passi della volpe (v) o 60 del cane (c).