Non c’è un momento preciso né un giorno fissato, non ti sarà preannunciato da alcun segno esteriore, nulla nei comportamenti e nel paesaggio sarà diverso dall’abituale, il sole a filo della pista, la pista che finisce nel mare, niente comunque ti farà presagire che è giunto il momento, per te, di trovarti su un aeroplano senza passeggeri, senza piloti, senz’altri che non sia tu stesso, come nel peggiore dei sogni. Puoi parlare ad alta voce, non v’è divieto, puoi cantare o sudare, non v’è chi se ne accorga, puoi girarti verso destra e guardare il posto vuoto dove abitualmente siede il tuo maestro, considerare quel vuoto come la piú sconsolante rappresentazione del vuoto assoluto, la piú struggente sensazione d’abbandono. Puoi tirare indietro le manette, fermare l’elica, aprire il portello, sganciare le cinture e scendere sollevando le braccia: qualcuno venga a prendere l’aeroplano che stai lasciando lí, allineato all’inizio della pista per il tuo primo decollo da solo. Una decisione di grande saggezza, una decisione onorevole. Ma con quale coraggio? Il tuo comandante è davanti all’hangar, ti guarda non meno perplesso, non meno preoccupato di te, conosci quel modo dei comandanti di scrutare il cielo da aruspici, meteorologi e padri di famiglia; sull’aeroporto è già stato sospeso il traffico per questo tuo primo decollo da solo; per quanto sia presto al mattino e deserto l’ambiente, le pessime figure hanno sempre un vasto, insospettabile pubblico.

Sei lí, qualunque istinto o dolore o malformazione d’inconscio ti abbiano portato a credere che fosse possibile per te trovarti in una simile situazione, sei lí coi piedi disperatamente puntati sui freni affinché l’aereo non decida al tuo posto e cominci a rullare da solo – per il suo primo decollo da solo, probabilmente –; a questo punto tornare indietro sarebbe assai piú complicato che andare avanti, perciò puoi illuderti ancora una volta di non avere scelta dopo aver preparato il cammino affinché cosí fosse, e adesso, nell’ultimissimo istante, teso e muto, vuoi solo vedere come andrà a finire, vuoi andare fino in fondo, al fondo della pista, verso quell’attimo di disequilibrio con cui tutto si solleva, s’impenna, staccando la tua ombra da terra.

Ancora qualche minuto fa ti sedeva accanto un comandante, imperturbabile e a braccia conserte, la tua riserva di irresponsabilità nell’errore (il dio errore), di svagatezza nel compierlo, ancora qualche minuto fa la giornata era normale e imprevedibile, vorresti tornare a quel momento, o anche prima, alla tranquillità inconsapevole con cui sul piazzale facevi i controlli girando attorno all’aereo come se fosse appena uscito di fabbrica e tu ne fossi il primo collaudatore, mentre eri semplicemente un allievo pilota e l’aereo era stato perfettamente ispezionato dai meccanici come ogni giorno, torneresti a quando nel cockpit sfioravi con le dita gli strumenti spuntando ad alta voce parole da un elenco che conoscevi a memoria, liturgia del mattino, preghiera manuale dell’anche questo è a posto, aspettando che il comandante salisse a bordo per la messa in moto, saliva sempre all’ultimo momento, non aveva tempo da perdere lui. Bruno non era solo un comandante, era un capo indiano, un vecchio capo indiano di pochissime parole, di ancor minori spiegazioni. Bruno era un maestro che non spiega, e di come questo fosse possibile in una materia tanto delicata bisognerà parlare piú avanti. L’idea della manovra, in Bruno, coincideva con una disciplina e un rigore assoluti, ma a lui interessava l’intuito, una manovra correttamente eseguita non era ancora nulla, il minimo presentabile, non te lo diceva naturalmente, ma si capiva che era cosí, volare era tutt’altro che una manovra ben fatta. Lui non spiegava, si comportava come se tu sapessi già, e quello che non sapevi, cioè tutto, dovevi ricavarlo dal silenzio delle sue occhiate, delle sue facce, dal suo modo di riprenderti nelle manovre con cenni rapidi e senza sonoro indicando col dito uno strumento o l’orizzonte fuori o un riferimento invisibile nel cielo, questo per lui era imparare. Meno che mai ti avrebbe annunciato quando fosse arrivato per te il momento di volare da solo. Come tutti, pregavi che arrivasse tra la sesta e l’ottava ora a doppio comando, altrimenti, questo lo sapevi, non sarebbe arrivato mai piú.

Poi Bruno era salito a bordo e tu avevi cominciato ad aspettare: aspettare che inforcasse gli occhiali da presbite e trascrivesse i dati iniziali del volo, aspettare che nel contempo facesse un cenno con la mano che significava metta in moto e andiamo via, aspettare d’essere autorizzato dalla torre al rullaggio, e poi sulla soglia della pista d’essere autorizzato all’allineamento e al decollo, aspettare era una parte costitutiva del volo quanto il volare, aspettare controllando e ricontrollando, c’è sempre un modo utile di impiegare l’attesa, c’è sempre qualcosa da fare a bordo prima di spingere avanti le manette e cominciare a correre sobbalzando, e ripensandoci adesso avresti dovuto farlo. Quando l’ordine cosmico o il complesso degli eventi o la coincidenza delle cose si erano disposte finalmente al via, avevi dato potenza, rilasciato i freni, guardato il contagiri e l’anemometro, accompagnato i movimenti imbardanti dell’aereo verso sinistra e verso destra contenendoli coi pedali. La corsa di decollo è una metamorfosi, ecco una quantità di metallo che si trasforma in aeroplano per mezzo dell’aria, ogni corsa di decollo è la nascita di un aeroplano, anche questa volta l’avevi sentita cosí, con lo stupore di ogni metamorfosi; verso la fine della trasformazione e della pista senti che l’aeroplano prorompe, non è piú terrestre, troppi sobbalzi, troppe imbardate di qua e di là, a terra non lo tieni piú, meglio volare che correre cosí, aspetti solo che diventi definitivamente un aeroplano, vorresti che lo fosse già, a quel punto talvolta viene su da solo, e appena viene su si acquieta, altre volte basta una leggera, leggerissima chiamata con il volantino. Tu avevi chiamato con delicatezza, appena qualche millimetro per non strappare l’aereo da terra, poi senza badarci avevi tirato ancora, come ripetere una parola detta a voce troppo bassa e non sentita. Tiravi piano ma l’aereo non veniva. Tiravi con piú continuità ma l’aereo non ti seguiva. Tiravi decisamente e l’aereo non saliva. Avevi guardato la pista e ti eri accorto di essere oltre la metà, vedevi la striscia di mare delle bocche di porto, guarda come si avvicina, anzi guarda il cruscotto e gli strumenti, concentrati meglio, e tu ti eri rivolto agli strumenti ad uno ad uno come se chiedessi loro di darti ragione in una lite di strada, e te l’avevano data, i valori erano quelli, ma l’aereo non si staccava da terra. Senza voltarti avevi cercato di cogliere il profilo di Bruno, profilo di pietra, braccia conserte, sguardo fisso davanti a sé, sembrava che aspettasse; ma c’era poco da aspettare, la pista finiva, l’aereo non si staccava, e non avevi piú lo scampo per frenare. Concentrati ancora, guarda gli strumenti, guarda meglio, e a forza di guardare finalmente avevi visto, ecco cosa mancava, chi l’avrebbe detto?, mancavano i flap, la leva dei flap era tutta su, flap a zero, ti eri dimenticato i flap. Ci saranno stati quaranta metri di pista ancora, non di piú, poi il mare, avevi cercato di far scivolare la mano dai comandi del motore verso i flap senza che Bruno se ne accorgesse, avevi una fretta disperata di abbassare quella leva, la pista finiva sul serio, con la sinistra tenevi il volantino, con la destra avevi dato un colpo secco alla leva quasi di nascosto. Tale era la velocità accumulata che appena i flap cominciarono a scendere dal dorso delle ali l’aereo venne risucchiato in alto, preso di peso e staccato da terra, come liberato, trascinato su, in alto sopra il terrapieno con cui la pista finí in quello stesso istante, sopra le bocche di porto, sopra la laguna e sopra il mare.

Il silenzio di Bruno era apparso subito preoccupante, meglio dire qualcosa. Tu avevi detto ci siamo dimenticati i flap, col tono di un’osservazione distratta, con un plurale ironico che coinvolgeva anche lui in quella dimenticanza, sebbene lui mai si sarebbe dimenticato i flap, e poi tu eri ai comandi e tua la responsabilità, lo sapevi benissimo. Bruno non aveva risposto e tu avevi proseguito la salita in attesa di indicazioni; dopo il decollo lui annunciava sempre il programma del volo, quale sarebbe stato il menú di oggi, stalli e viti? virate strette? navigazione? emergenze motore? avvicinamento radar a un aeroporto? Ma Bruno non aveva detto nulla, non una parola e nemmeno un’occhiata, aveva fatto semplicemente un ampio gesto circolare con la mano, un gesto in discesa che nella rotazione comprendeva una virata sul mare, un rapido rientro sull’isola, un atterraggio immediato, e dalla bruschezza del gesto avresti detto per sempre definitivo. Ecco il programma.

La paura di prima, la paura della pista che finiva era niente a confronto con la desolazione di adesso, anche l’anima doveva essere arrossita; se fosse stato possibile saresti sceso lí, nell’aria, lasciandogli l’aereo; poi avevi sperato di congedarti almeno con un bell’atterraggio, anzi un atterraggio perfetto, gli avresti fatto vedere tu che capolavoro di ultimo atterraggio gli facevi, ma nel finale, sugli alberi che inspiegabilmente delimitano ogni campo d’aviazione, avevi preso un refolo di turbolenza: leggero squilibrio dell’aereo, correzione immediata, atterraggio su una sola ruota, rimbalzo, nuovo atterraggio, rimbalzo ancora, atterraggio. Puntavi dritto verso gli hangar, volevi arrivarci il piú presto possibile, ma al momento di imboccare il raccordo avevi avvertito una resistenza ai pedali, adesso non riesco piú nemmeno a girare a terra ti dicevi, poi avevi capito che Bruno bloccava la pedaliera dalla sua parte, stava frenando l’aereo sul bordo della pista. Cos’altro c’era ancora? Tu avevi messo l’elica al minimo, Bruno ti aveva scrutato con un’occhiata rapida. Poi fissandoti meglio aveva detto: se la sente di andare su da solo?

Non fingere, hai capito benissimo, del resto è accaduto soltanto pochi istanti fa; hai capito perfettamente e hai dovuto fare il giro di tutte le tue emozioni per venirne a capo, e poi un altro giro per contenerle e mostrarti né troppo felice né troppo deciso, e rispondere se lei pensa di sí, forse sí. Bruno ha aperto la radio, ha chiesto alla torre di sospendere il traffico sull’aeroporto, ha spiegato il motivo della sua richiesta. Poi ti ha detto guardi che tutto sarà diverso, decollerà prima, salirà piú veloce, io la seguirò da terra al bordo del campo, faccia tutte le chiamate radio con me come se parlasse con la torre. Ti aveva dato un’ultima occhiata inserendoti in un controllo generale: di ciò che traspariva sul tuo viso, delle manette, delle cinture allacciate, del cockpit dell’aereo. Anche del portello, una volta fuori, si era assicurato che fosse chiuso bene.

Solo, eccoti solo, ‘solista’, cosí nei documenti aeronautici viene registrato questo volo, come se fossi un suonatore di violino, e invece sei una persona sola dentro un aeroplano al centro della pista che adesso apre la radio e comunica di essere pronto all’allineamento e al decollo, e ancora non credi che sia vero, ma allineato lo sei già, pronto difficile dirlo, Bruno risponde autorizzato e ti ricorda i valori del vento, nodi e provenienza, ma chi ha tempo di pensare al vento, di immaginare da dove viene e quanto è forte, si vedrà, ormai hai spinto in avanti le manette, sollevi le punte dei piedi dai pedali, si vedrà tra un istante, l’aereo già corre, a un quarto di pista ti chiedi ancora come mai Bruno abbia deciso il tuo decollo da solo invece di cacciarti via per sempre, a metà pista cominci a sentire qualcosa che ha a che fare con la responsabilità, anche se non sai bene di chi, poi a mano a mano che l’aereo si trasforma in aereo tu ti trasformi in Bruno e diventi comandante di te stesso, e in questa nuova dimensione ti controlli e ti riprendi e ti correggi come un allievo. Ci sono le cose da fare e queste cancellano ogni altro pensiero, e solo dopo le cose da fare, dopo che hai chiuso ciò che andava chiuso e aperto ciò che andava aperto e regolato ciò che andava regolato, adesso che l’aereo vola livellato nel cielo, adesso guardi il mare e l’orizzonte nella foschia leggera del mattino e per la prima volta li vedi non soltanto come punti di riferimento per controllare le virate o le salite e le discese, sono il paesaggio cui d’ora in poi potresti appartenere, cosí come a terra appartieni ai fiumi e alle montagne.

Scivoli lungo la costa in una sensazione di immobilità e di durata, a destra l’isola, a sinistra il mare, scivoli ripensando alla prima volta che sei salito quassú con Bruno, la prima volta che hai volato senza mettere mano ai comandi, volo di ambientamento e prova, prima ancora della visita medica, tu sedevi a destra, che bel panorama, Bruno aveva fatto quota tranquillo e a un certo punto ti aveva domandato le sue cinture sono ben strette?, e tu avevi risposto distrattamente di sí, lui aveva tirato fuori gli occhiali, si era piegato verso la placchetta di metallo al centro del cruscotto dove un avviso in inglese indicava i limiti acrobatici di quell’aereo, senza lasciare il volantino aveva sfiorato col dito le lettere in rilievo, tre giri di vite e non di piú aveva letto ad alta voce, come se quell’aereo non lo conoscesse a memoria, e come se anche tu dovessi essere messo al corrente che dopo il terzo giro di vite non ci sarebbe stata speranza di uscirne, poi senza aggiungere altro si era tolto gli occhiali e aveva picchiato l’aereo mandandolo in vite, tutto di te fu proiettato in avanti, precipitaste seduti roteando sull’asse, laggiú la riva e la spiaggia giravano in senso contrario come nei film, tre giri aveva detto, ma a te sembrarono trenta o trecento, adesso muoio con questo signore che non conosco, che ne sapevi allora che Bruno era Bruno, che era stato pilota acrobatico e pilota collaudatore, che negli anni del dopoguerra si era guadagnato da vivere facendo piroette in pubbliche gare, che aveva trentamila ore di volo su ogni tipo d’aeroplano? Pregavi Iddio che quel signore coi capelli bianchi fosse perfettamente consapevole e abile in ciò che faceva, che l’aereo tenesse, che quella vorticosa picchiata avvitante finisse al piú presto.

Per non parlare della volta successiva, quando ti fece sedere subito a sinistra, posto del comandante, figurarsi; della vasta offerta di strumenti e orologi e chincaglieria elettronica sul cruscotto ti illustrò il minimo indispensabile, poi ti ordinò di decollare, puntaste direttamente sul mare aperto, verso il largo, in una giornata grigia e cupa, e poco alla volta quel grigiore compatto divenne una massa pastosa indistinguibile e ipnotica, fu allora che Bruno disse di colpo torniamo indietro, dov’è l’aeroporto? Ti voltasti per dare un’occhiata attraverso i vetri posteriori, ma lo spettacolo dietro era uguale a quello davanti, grigio e grigio a perdita d’occhio, nessun lembo di terra, niente che fosse diverso da quella calma visiva terribile e piatta. Domandasti a tua volta sí, appunto, dov’è l’aeroporto?, Bruno rispose alzando le spalle, è lei ai comandi disse, è lei che deve saperlo, adesso lei ci riporta a casa. Cominciasti una lenta virata a sinistra, puramente ad intuito, che cosa conoscevi allora delle bussole, delle rotte inverse, degli strumenti di posizione indecifrabili per te?, e cosí per sola memoria dello spazio e orientamento istintivo cominciasti a virare a sinistra e ancora a sinistra, e quando ti sembrò che potesse bastare raddrizzasti l’aereo, allora ti girasti verso Bruno aspettando un assenso o un diniego ma di nuovo ricevesti nient’altro che un’alzata di spalle. Avanzavi nel grigio, proteso in avanti verso il parabrezza per vedere meglio, per indovinare una costa, ma la costa non si vedeva, guardavi da ogni parte ma da nessuna parte si vedeva terra, finché nel grigio apparve una linea piú grigia, sottile e lontana, ecco la costa, ma quale costa, in che punto?, bravo, avevi trovato la terra, ma l’aeroporto non c’era, neppure la città e nemmeno la laguna, eravate piú a sud. Quando la costa divenne un paesaggio reale, Bruno indicò la direzione col gesto dei carovanieri, disse si ricordi, decollando da un luogo deve prendere la posizione, se a quel luogo vuole tornare.

La voce di Bruno alla radio adesso ti chiede di venire all’atterraggio; per forza di cose, il primo atterraggio da solo è l’altra faccia del primo decollo da solo, guai se non ci fosse. La voce di Bruno alla radio ha sempre una filatura d’incertezza e di preoccupazione, te n’eri già accorto ascoltandola in torre una volta con l’operatore, Bruno si affaccia alle parole con prudenza e da chissà dove, come se le parole andassero usate in casi eccezionali e quando proprio non si può fare diversamente; questa volta l’incrinatura è piú profonda, maggiore la preoccupazione, forse perché gli alberi al fondo della pista ti nascondono alla sua visuale e lui da terra ti domanda in linguaggio aeronautico la tua posizione e subito dopo in parole povere ti chiede se tutto va bene, e tu in linguaggio aeronautico dai la tua posizione e rispondi che sí, tutto va bene. E finalmente, mentre fai i controlli del sottovento, mentre togli l’antighiaccio e arricchisci la miscela e riduci motore e metti dieci gradi di flap, finalmente capisci che il primo decollo da solo è l’incontro di due paure, la tua, la sua, paure reciproche e concordi di due persone costrette a fronteggiare un evento avendo soltanto una conoscenza parziale. Che cosa conosce Bruno di te? Niente. Pura intuizione. Ti ha mai visto nelle tue scene isteriche? Nei momenti di distrazione assoluta? Ti ha mai visto quando t’incanti e ti perdi nel vuoto e te ne vai lasciando il tuo corpo come un giornale ad occupare un posto nel quale non sei piú? Nei momenti di rabbia fredda, sorda, gelida, di puro odio? – forze del male che ti piacerebbe agire. E che cosa direbbe Bruno se sapesse che uscendo la sera dall’aeroporto e incamminandoti verso casa componi canzoncine tipo questa, e poi vai a tempo:

The night has arrived

the planes sleep

the tower is off

the fax makes a beep

se tu fossi Bruno, gli metteresti in mano un aereo a uno cosí? Come può aver deciso che eri pronto, che cosa conosce Bruno di te? ciò che può aver valutato attraverso una pratica assai circoscritta come il pilotaggio, un’attitudine e un fare misurabili certo, ma il resto, tutto il resto di una persona, quello che piú conta, e conta anche nei cruciali momenti di emergenza aeronautica, è costretto a intuirlo, a dedurlo appunto attraverso quel fare, quel poco che hai fatto; ed è qui che lui rischia, se ci fosse una panne proprio adesso?, un motore non sa chi è ai comandi, le probabilità non hanno memoria delle circostanze o dell’anzianità di volo. L’altra persona, tu in questo caso, dovrebbe conoscere abbastanza di sé, almeno si spera, ma di quel fare aeronautico, del ‘sapere del pilota’ che in questo momento della sua vita, in questo suo primo atterraggio da solo, gli sembra cruciale chissà se conosce abbastanza, ed è qui che tu rischi. Qui, in quest’ultima virata dove ti appare la città frontale, sulla destra l’isola, laggiú l’aeroporto; apri la radio, chiama il finale, flap tutti fuori, carrello, luci di atterraggio. Eccolo lí Bruno, piccolo piccolo tra l’erba al bordo della pista, con il viso verso l’alto e la ricetrasmittente all’orecchio, cosí va bene ti dice, cosí va bene ripeti a te stesso controllando le distanze e l’assetto, sei seduto su un patrimonio di velocità da smaltire, di quota da dissipare, la discesa è il momento di maggiore ricchezza del volo (il corpo per primo avverte questo patrimonio da spendere, questa ricchezza della discesa, della caduta, questa felicità del peso ritrovato e della gravità), abbassa il muso dell’aereo, lascialo andare, lasciati andare, vieni giú planando sopra gli alberi, se non fossi cosí concentrato e teso ti accorgeresti dell’ombra che il sole alle spalle ti proietta davanti, di come si ingrandisce sull’erba e tocca prima di te, la tua ombra ha già atterrato, il tuo aereo ha già atterrato, lasciati andare, poggia le ruote centrali sull’erba e per un attimo tieni l’aereo sospeso cosí, subito dopo anche il ruotino davanti aderisce, adesso devi solo frenare, poco alla volta, deciso, frenare finché ciò su cui sei seduto e ti porta, rallentando, non sarà piú un aeroplano.

Non ti resta che risalire verso gli hangar, taxi to park, manovra cui Bruno ti ha autorizzato via radio prima di passarti alla torre, dato che l’aeroporto riapre al traffico; è solo l’autorizzazione a un contropista, ma a te sembra un’autorizzazione piú ampia, autorizzato a qualcosa che si è appena iniziato e cui solo un evento ultimativo potrebbe porre fine, un’autorizzazione principale con piccole autorizzazioni corollarie, come quella ad una considerazione meno severa da parte del meccanico che alza gli avambracci incrociati al termine della striscia gialla che stai ricalcando col ruotino, segnale di fine e di arresto, chiusura motore.

(Se nella memoria esistesse un comparto per le prime volte, pensi controllando che tutto sia spento, metteresti il primo decollo da solo nella stessa regione della prima volta in amore, perché l’intensità è quella; curioso però che la prima e piú travolgente compenetrazione con un’altra creatura si trovi per te in compagnia della prima e piú grande solitudine, radicale, ‘solista’ nell’aria).

E tra le novità, quando scendi dall’aeroplano, c’è non dico un sorriso, ma almeno uno sguardo sgravato da parte di Bruno, e un ‘tu’, uno di quei tu che non accorciano le distanze, anzi, né scompongono il portamento, ma che piú tardi nel suo ufficio – se può chiamarsi ufficio una vecchia scrivania anni quaranta, una rastrelliera di carte aeronautiche, un dondolo e un monitor con l’Italia e le nubi viste come le vede in quest’istante un satellite meteo – ti consentirà, mentre quel comandante perennemente in camicia bianca e cravatta firma sul tuo libretto il primo decollo da solo, di domandargli nella nuova dimensione del tu come mai proprio oggi, perché proprio stamattina che ti sei dimenticato i flap e per poco non finivate in mare; e consentirà a lui, con un’occhiata rapida e sorpresa, di risponderti perché oggi?, stupito che tu non abbia compreso. Per l’errore, per via dell’errore, hai visto l’errore. Ma il tono è sbrigativo, quasi sottovoce, come si trattasse di una cosa ovvia, e oltretutto segreta. Quando altrimenti?, conclude restituendoti il libretto. Tu, appena fuori dell’ufficio, ti fermi nella luce obliqua del mattino e sfogli le pagine, cerchi la dicitura, la firma che ti immette definitivamente nei luoghi del celeste errore, dove ogni errore è una cicatrice, ma non evita la ricaduta.