Tutti sono concordi nel dire che fosse una bellissima giornata di luglio, una giornata che non c’entrava niente con la guerra, il mare e il sole di Bastia sulla destra, la fila di colline a sinistra, al centro la pista d’erba rasa, di un giallo caldo e profumato. Il tenente Duriez scivolò giú dall’ala dopo aver chiuso il cupolino, Antoine de Saint-Exupéry aprí la radio, disse: Colgate from Dress down number six, may I taxi and take off? Non amava parlare alla radio, venendo da un’epoca in cui la radio non c’era. Non amava parlare in inglese, veniva da un soggiorno in America dove aveva ripagato il trionfo dei suoi libri con nessuna parola che non fosse francese. Quella mattina era in Corsica, con ogni diritto alla propria lingua, ma l’aereo con cui stava per decollare era americano, e americana e francese la squadriglia, ciò che restava del Groupe II/33 de Grande Reconnaissance, grande ricognizione strategica, piú alcuni piloti statunitensi e gli uomini del camera repair. Americano era anche il controllo a terra, il nominativo di chiamata radio era Colgate, come il dentifricio. Colgate da Dress down numero sei, posso rullare e decollare? Fu anche l’unica mattina in cui Gavoille, il comandante René Gavoille che lui aveva descritto in Pilote de guerre come il meglio che la Francia potesse offrire, non era lí a vestirlo con la tuta termica, a metterlo nella carlinga come un orso in un barattolo, ad allacciargli le cinture, a controllare la bomboletta dell’ossigeno e il revolver, gli interruttori delle macchine fotografiche nella pancia dell’aereo, a dargli le ultime raccomandazioni. Due ore dopo, arrivando al campo, Gavoille sarebbe stato deluso da quel piccolo tradimento di Saint-Exupéry, decollare senza che lui fosse presente, ancora due ore e avrebbe rimpianto di non aver consumato egli stesso un piccolo tradimento ai danni dell’amico, un tradimento già concordato col comando americano per quella mattina: rivelargli un segreto importante, per esempio la data dello sbarco in Provenza, cosí che a norma di regolamento non potesse piú avere altre missioni, per via del rischio di essere catturato e di parlare. Ma come avrebbe potuto fare Gavoille? L’altro si sarebbe tappato subito le orecchie, avrebbe protestato, Gavoille ricordava bene qualche notte prima, quando avevano pianto assieme, e Saint-Exupéry lo aveva implorato di lasciarlo volare ancora, e infine gli aveva affidato l’enorme manoscritto di Cittadelle, di cui anni prima aveva letto alcune pagine a Benjamin Crémieux e a Drieu La Rochelle.
OK number six, you can taxi and take off, disse il controllo. L’aviere Charles Suty, un ragazzo che per sottrarsi alla leva di Vichy si era rifugiato in Africa del Nord arruolandosi nella II/33, tolse i tacchi ai carrelli. Saint-Exupéry dette piena potenza ai motori, rilasciò i freni. L’aereo cominciò la corsa di decollo, anche le colline e il mare di Bastia cominciarono a correre, corse la pista, e Antoine de Saint-Exupéry, Tonio o Saint-Ex, staccò per l’ultima volta la sua ombra da questa terra.
Ore 07.15, prua 2430, 7000 piedi, Foschia.
Ecco un viaggio breve verso una storia lunga, la storia riguarda il volo, il narrare e l’infanzia, ma anche una passione filosofica e civile dell’essere con gli altri e ben radicati in terra, alcuni uomini degli anni Trenta e Quaranta, qualcuno vivo ancora, il mistero di uno scrittore probabilmente precipitato in mare, e le coincidenze, che tutto governano. Il viaggio, il mio, potrebbe cominciare da qui, settemila piedi sul delta del Po, un vento leggero sposta appena la prua dell’aereo, vento da sud, uno scirocco cosí modesto e bonario che a rilevarlo sono soltanto gli apparati elettronici e le bussole, ogni tanto guadagnano qualche grado sulla rotta, fanno rapidamente carriera finché una pressione del piede o una piccola accostata a sinistra non li retrocede al rango stabilito, anzi qualcosa in meno per prevenire. Il giro dello sguardo che tiene d’occhio gli strumenti non è diverso dal giro che farebbe un cameriere per controllare tutte le stanze della casa prima della notte. Poiché quel cameriere sono io, mi sarebbe difficile attribuire al volo qualcosa di eroico o di mistico, il volo è soltanto una scienza del fare, della correttezza e dell’errore, della posizione e del comportamento. Oggi almeno è cosí, può darsi che fosse diverso quando Antoine de Saint-Exupéry portava la posta in Patagonia scavalcando di notte le Ande, o faceva il caposcalo dell’Aéropostale a Juby nel Sahara, o era pilota di guerra su Arras o su Grenoble, altri tempi, tempi eroici, oggi quell’eroismo non avrebbe motivo, e fortunatamente nemmeno la retorica che talvolta l’accompagnava. In questa mattina di luglio nessuno assume pericoli volontari, al contrario tengo le cose in ordine affinché il C 172 di cui sono cameriere scivoli tranquillo lungo l’aerovia Red 22. Se fosse un viaggio per mare parlerei della nave e delle onde, se camminassi a piedi come facevo da ragazzo parlerei delle scarpe e della fatica e del paesaggio, ma la pianura Padana qui sotto, dopo il decollo e la laguna, è invisibile nella gelatina di mango che l’avvolge, un orizzonte alto e opaco di foschia da caldo, e gli eventi del viaggio, al momento, sono soltanto questo sfiorare gli strumenti con la delicatezza con cui si raddrizza un quadro alla parete dopo averlo spolverato. Mi occupo del VOR di Chioggia in coda, del VOR di Bologna in prua, dell’ADF su Ferrara, del LORAN che interroga tre stazioni nel Mediterraneo e per suo conto calcola la posizione e la rotta, del DME che misura le distanze da tutti i luoghi e i riporti che non vedo, del transponder, dei giroscopi e dei variometri e degli altimetri, insomma la casa di cui mi occupo ha un certo numero di stanze. Tutto questo armamentario, che tra qualche anno sarà già obsoleto, potrebbe spegnersi di colpo per una panne, resterebbe pur sempre la bussola a liquido, dondolante e trascinante, che ogni aereo, dal piú grande al piú piccolo, porta nel cockpit. Bussola e orologio è quanto mi fu insegnato anni fa, prima che accedessi al Ramayana elettronico; e Bruno, cui debbo quell’apprendimento, è qui accanto a me, seduto all’altra cloche. Adesso Bruno è in pensione, termine che nessuno potrebbe pronunciare in sua presenza; nei viaggi lunghi accetta di accompagnarmi, c’è una maggiore affabilità, lavorio invisibile degli anni, ma il rapporto non è cambiato. Con gli occhiali sul naso, come un gatto in una favola, tiene davanti a sé la cartina strumentale con la prima tratta del volo, verso Alghero. La cartina è ripiegata tra le pagine di un libro di fotografie della squadriglia II/33 e di Saint-Exupéry, scattate ad Alghero nella primavera del ’44. Ogni tanto Bruno solleva lo sguardo dalla cartina e dalle fotografie, lancia un’occhiata al di sopra delle lenti, una di quelle occhiate che un tempo erano per me piú preoccupanti delle situazioni in cui andavo a cacciarmi, poi ritorna alle fotografie. Lo interessa soprattutto il P 38 Lightning, l’aereo con cui Saint-Exupéry scomparve: che aeroplano!, esclama, erano due caccia Mustang uniti per le ali, e accompagna il concetto con un sobrio gesto delle mani. Tutto in questo volo procede normalmente.
Ore 8.10, prua 201°, 8500 piedi. Ceiling and visibility OK.
L’orizzonte si è aperto sopra gli Appennini quasi di colpo, prima è apparso sulla cima del Monte Croce un circoletto di antenne nel bosco il cui segnale ho inseguito fin qui, poi il resto del paesaggio, venuto in superficie a poco a poco come un significato. Adesso Ginar e Marel non sono soltanto dei punti di riporto virtuali, coincidono con la curva di un fiume, col fondo di una pianura, con la periferia di una delle città che si addensano da qui al mare, Empoli? Pontedera? chissà, il mare è già visibile, e col mare l’Elba. Scendiamo lungo l’Ambra 12, ma all’immaginario astratto di linee rette, di triangolini e di radiali dell’aerovia si è sovrapposto il profilo reale del paesaggio, un precipitare sinuoso e caotico di campi, di corsi d’acqua verso la foce, di piccoli rilievi, quasi il paesaggio fosse la riprova di un’ipotesi mentale. A ogni riporto parlo con l’Ente di controllo, ne ho contati sette fin qui, gentili tutti, e con tutti ho scambiato parole professionali e veloci, come dovuto, in un massimo di densità. All’epoca di Saint-Exupéry le comunicazioni avvenivano in Morse, il marconista trascriveva e passava al pilota un foglietto con poche parole cruciali, e qualcosa di questa concentrazione è rimasta nei suoi libri, in quelle frasi brevi, un po’ apodittiche e fortemente intense, che giravano attorno ai fatti come se i fatti fossero un’ossatura che non c’è bisogno né tempo di descrivere (del resto il fatto in aviazione dura davvero pochi istanti). Il fatto irradiava un’energia di sentimenti che lo precedevano e lo seguivano, paura, euforia, senso del conflitto; il fatto univa la libertà alla responsabilità. Questo legame colpí André Gide, che presentò Vol de nuit al pubblico francese e scrisse: qui c’è una verità paradossale, la fortuna dell’uomo non è nella libertà, ma nell’accettazione di un dovere.
Dal volo gli vennero i personaggi e le storie ma anche i primi concetti di un sistema di pensiero complesso, elaborato negli anni, non sempre perfettamente congruente. Il primo tassello fu proprio la libertà come responsabilità. Era la responsabilità di cui si sentiva colmo la sera del 1927 in cui Didier Daurat, granitico direttore della Compagnia Latécoère, gli annunciò che il giorno dopo avrebbe dovuto compiere il suo primo volo postale da Tolosa a Casablanca. La responsabilità era un sentimento angoscioso e inebriante, fine supremo: il trasporto della posta. Col tempo diventerà la responsabilità-libertà di quelli che hanno scelto la linea aerea o il deserto ‘come altri scelgono il monastero’. Quelli, oltre a lui, sono Guillaumet e Mermoz, piloti in un’epoca in cui la meteorologia era un’arte divinatoria, i motori piantavano senza preavviso, si udiva un rumore di porcellane infrante e le eliche si fermavano, i rilevamenti a terra erano inesistenti e la regola, non scritta ma passata di bocca in bocca, era quella che il caposcalo confidò a Saint-Exupéry alla vigilia del suo primo volo postale: è molto bello navigare a bussola, in Spagna, molto elegante, ma si ricordi, sotto i mari di nuvole non c’è altro che l’eternità.
Cambiamo quota su richiesta dell’Ente di controllo, imposto la discesa da 8500 a 6500 piedi e comincio a guardare gli agglomerati lungo la costa toscana, fino alla punta di Piombino, e piú oltre indico a Bruno l’Elba. Da dove ‘vediamo’ i luoghi quando li nominiamo?, quando si dice Palermo, Sassari, Ancona o Ventimiglia o Buenos Aires, da quale punto di vista lo si dice? Qual è l’immagine che passa per la mente nell’infinitesima frazione di secondo che separa la città pensata dalla parola che la dice? Se era una città che conoscevo emergeva l’immagine di una via o di una casa, o l’emozione di un incontro, o il rimpianto di non aver incontrato nessuno. Altrimenti immaginavo quelle città nella regione di loro appartenenza, nei confini politici di uno stato, chiuse in un continente, le nominavo dal punto di vista della carta geografica. Volando, però, la geografia cambia dimensione, tra la carta che tengo ripiegata sulla tavoletta del cosciale e ciò che vedo fuori non c’è quasi differenza, la geografia non è scrittura della terra ma la terra stessa vissuta nell’attraversamento.
Un sentimento di responsabilità piú scavato – non la posta ma la patria – spingerà Saint-Exupéry a implorare di essere rimesso in linea di volo nella squadriglia II/33 con la quale aveva già combattuto in Francia la ‘strana guerra’, e che dopo la disfatta si era trasferita ad Algeri. Aveva quarantatre anni, troppo vecchio per il Lightning, l’addestramento su quella macchina fu come ricominciare da zero. La ricognizione aerea era una disciplina complicata, una missione poteva dirsi compiuta solo se si ritornava a casa con le fotografie, il vero colpo veniva inferto al nemico nelle camere oscure, nei bagni di sviluppo. Partecipò come gli fu consentito, diceva: se non partecipo a questa guerra, come posso parlare del mio paese? Ognuno ottiene ciò che vuole, lui ottenne la sua prima missione nel Sud della Francia; alla seconda, rientrando ad Algeri, atterrò lungo e finí in un vigneto. Gli americani gli tolsero l’aeroplano.
Ore 09.00, prua 201°, 4500 piedi. Ceiling and visibility OK.
L’isola di Montecristo è passata da parecchio sulla sinistra, siamo sul mare aperto, in pieno sole, centoquindici miglia di mare con due soli punti di chiamata, Bekos e Tallin, che giusto l’elettronica può stabilire sullo sfondo azzurro permanente e omogeneo con piccole navi dalla coda bianca. Acque territoriali italiane ancora, ma Bruno litiga già col potentissimo radar militare francese di Solenzara in Corsica cui appartiene la ‘proibita’ che stiamo attraversando, praticamente tutta quest’area del Tirreno; litiga in modo procedurale, dunque che si tratti di un litigio lo si può ricavare solo da una certa durezza nelle voci, la sua, quella del controllore. Per il resto ciascuno oppone i propri numeri: la zona è un poligono di tiro per la caccia, o salgo a quote troppo alte per la tangenza del nostro aereo, o imbocco un corridoietto libero davanti alla costa corsa (‘davanti a casa sua’ come dice Bruno chiudendo il microfono), e allungherei di molto. Il controllore ripete ciò che avevo già letto sull’AIP in aeroporto prima di decollare, «la proibita è intransitabile tutti i giorni feriali dall’alba al tramonto», Bruno risponde d’accordo, e io non cambio rotta. Se non ci sono problemi, cioè se Solenzara non richiama, in genere funziona a questo modo: gli operatori dicono ciò che sono obbligati a dire, noi rispondiamo come siamo obbligati a rispondere, poi però proseguo dritto tagliando il mare fino ad Olbia. Anche il volo ha i suoi bizantinismi.
Un pilota eccellente e istintivo, ma irregolare e distratto. Cosí lo giudicarono i suoi comandanti, Daurat all’epoca dell’Aéropostale, Alias all’epoca del volo di guerra su Arras, Gavoille negli ultimi mesi di Alghero e di Bastia. A dieci anni primo decollo con una bicicletta e un telo, decollo abortito. A vent’anni cadde a Bourget con un Hanriot HD-14 che aveva preso senza autorizzazione. A trentatre cappottò con un idrovolante Latécoère nella baia di Saint-Raphaël, faceva il collaudatore, specialità che meno di tutte gli si addiceva, invece di ammarare sulla punta posteriore degli scarponi toccò l’acqua in linea di volo orizzontale e un po’ appruato, inabissandosi e rischiando di annegare. Su un altro idro Laté gli si staccò in aria lo sportello, che aveva dimenticato di bloccare. A trentacinque anni, nel raid Parigi-Saigon, preparato male e all’ultimo momento per guadagnare centocinquantamila franchi, di notte pensò di essere sul Cairo e bucò le nubi cercando il mare, lo cercava ancora quando il Caudron Simoun si infilò nella sabbia a duecentosettanta chilometri l’ora. Uscirono indenni dall’aereo, lui e il meccanico Prévot, ma in pieno deserto; tre giorni dopo li raccolse il signor Emile Raccaud, direttore di uno sperduto stabilimento della Egyptian Salt & Soda Co. Ltd. A trentott’anni, durante un raid New York - Terra del Fuoco, inutile perché perfino senza premi, atterra in Guatemala. Non è un aeroporto ma una striscia d’erba con una pompa di carburante. In chissà quale lingua s’intende con l’uomo della pompa e ottiene la benzina, ma si guarda bene dal calcolare quanta ne viene messa, cioè quanto l’aereo peserà di piú. All’uomo della pompa chiede anche la direzione piú propizia per decollare, poi imbocca la pista cortissima, la percorre tutta, verso la fine il Caudron Simoun flotta nell’aria qualche secondo e si schianta a terra. Dai rottami di un incidente che non perdona una volta su cento Prévot uscí con una gamba rotta, Saint-Exupéry con una frattura alla mascella, piagato dappertutto, e con una lacerazione alla clavicola che gli anchilosò per sempre la spalla. Anni dopo, anche se avesse voluto lanciarsi col paracadute dal Lightning non avrebbe potuto farlo per via di quella vecchia ferita, a meno di non mettere l’aereo in volo rovescio, aprire il cupolino e lasciarsi cadere.
Eppure fu un pilota straordinario, erano cose che in quell’epoca, in quelle imprese, con quegli aerei, potevano accadere. Era distratto, una volta decollato si astraeva, certe rotte erano lunghe e noiose, prendeva appunti su un suo taccuino, anche la mattina dell’ultimo volo aveva un piccolo bloc-notes allacciato alla coscia. «Pourquoi risquons-nous si facilment notre vie pour acheminer des lettres?» domandava agli altri piloti di Cap Juby, senza attendere una risposta, cercando di capire se si rendessero conto della sproporzione. Perché rischiamo la vita per delle lettere? Fu un eccellente pilota, ma non come Mermoz, non come Guillaumet, il suo modello, Guillaumet che aveva passato trecentottantatré volte le Ande e una di quelle volte era caduto sopravvivendo su un ghiacciaio tra le cime per cinque giorni, Guillaumet che alla fine si era messo in marcia tra le montagne per uscire allo scoperto, affinché il suo cadavere venisse ritrovato e l’assicurazione pagasse sua moglie. Quando Guillaumet morí molti anni dopo nel Mediterraneo, Saint-Exupéry scrisse: io sono di Guillaumet.
Ore 09.45, Alghero Fertilia, pista 03-21. Vento da 160°, 6 nodi.
Eravamo secondi all’atterraggio, il DC9 che ci precedeva in finale si vedeva bene sul lato opposto del circuito, poi fu il mio turno. È sempre un bel momento, volo quasi librato, carrello fuori, full flaps, la prospettiva a poco a poco si appiana e riacquista normalità, poi sulla pista il richiamo col volantino e l’attesa, attesa che la terra ti riprenda. Dovrei raccontare di come fummo accolti alla base militare dell’aeroporto di Alghero, della cortesia di un colonnello pilota, della gradevolezza del suo ufficio, di come lui e il suo maggiore guardarono stupefatti le foto di quello stesso aeroporto cinquant’anni prima ascoltando una storia che non conoscevano, riconoscendo però l’hangar e le casette che ci sono ancora attorno alla pista orientata come allora; di come l’ufficiale ricostruí a sua volta le vicende della base, dismessa subito dopo la guerra e riaperta negli anni Cinquanta, di come Bruno mentre camminavamo tra gli hangar indicò alcuni vecchi T6 impolverati e abbandonati, dei biposto da addestramento americani su uno dei quali proprio qui ad Alghero aveva fatto il suo tirocinio; dovrei raccontare del sole caldo che filtrava attraverso i pini marittimi illuminando nell’ufficio del colonnello trofei e memorie di vecchie cerimonie, e delle cicale fuori e di Bruno e degli altri che parlavano di aerei andati, di amici andati, ricordi comuni, domande. Sembravano uomini di mare che si ritrovassero in un porto, naviganti; eppure l’aeronavigante non è il successore del navigante per mare né un suo aggiornamento, l’aereo non sta al cielo come la nave al mare. Ogni nave aveva un suo temperamento, una sua anima e una storia, ma per gli aerei il carattere appartiene semmai al modello, costruito in migliaia di esemplari, ed è solo questo ciò che ciascuno conosce e sperimenta in modo personale. E poi i rapporti tra chi vola non si allacciano a bordo ma a terra, parlando del volo, e nell’aereo manca la molteplicità umana dell’equipaggio, come passeggero sei solo col tuo vicino di posto, come equipaggio non sei mai in piú di cinque o sei, e per quanti si possa essere si è sempre troppo occupati. L’aereo non è come la nave che trasferisce le leggi morali della terraferma in una giurisdizione autonoma e ristretta, mettendole alla prova in modo estremo, l’aereo non conserva nulla della terra e della casa, in una nave si dorme, si ozia, si trama, c’è il tempo lungo della bonaccia, le attese afose nei porti, in aereo non c’è nulla delle consuetudini quotidiane, le sole regole che valgono sono regole dell’aria, regole operative. Si commettono errori, ma quasi sempre di ordine tecnico, difficilmente di ordine morale. Perché l’animo umano possa svelare la propria tenebra, per l’abiezione e le bassezze, ci vuole spazio, ci vuole tempo, e nell’aereo c’è troppo poco dell’uno e dell’altro, insomma, in volo si è temporaneamente privati del proprio Male che tace allibito di fronte alla proceduralità del tutto. Nel volo anche se uno si sforza di tirar fuori il peggio di sé è implacabilmente condannato a una certa nobiltà di spirito.
E questa fu la via che imboccò Saint-Exupéry. A lui ancor piú dei fatti, che accadendo concatenano il destino, stavano a cuore le azioni, e l’azione ha sul fatto sempre una preponderanza di intenzione. La sua azione non aveva nulla di vitalistico, anzi era spesso in partenza un’azione inutile, di cui scoprire o inventare la necessità: la missione su Arras che raccontò in Pilota di guerra era impresa vana nella Francia ormai agonizzante, ma gli era servita per narrare un sentimento profondo della disfatta, non solo disfatta dei francesi ma dei legami che tengono uniti gli uomini, disfarsi di ciò che unisce l’uomo all’Uomo, cioè al meglio di sé, e permette il circuito dall’uno all’altro. In Volo di notte aveva descritto un vero campione dell’azione, e non era il pilota Fabien che rischia, si perde e muore; era Rivière, il caposcalo, l’uomo che non vola, che se ne sta dietro una scrivania, che non agisce direttamente ma decide le azioni degli altri, vivendole una per una piú angosciosamente che se fosse lui stesso a compierle. L’azione era svuotata di ogni superficialità d’avventura, il coraggio era davvero l’ultima delle virtú, la piú povera e vanitosa. Al di là degli aeroplani, della posta e della guerra, i suoi libri sono una meditazione sulla possibilità di un Umanesimo in pieno Novecento, la contestazione del collettivismo come pura somma aritmetica delle individualità, una ricerca metafisica dell’Essere nella solidarietà con tutti gli altri. L’azione serviva unicamente a stabilire un legame tra gli uomini, liberava amore, era come una dolcissima appercezione che mette in chiaro la natura dei fatti, e fonda il loro significato. Per la sua mistica del legame fu uno scrittore essenzialmente religioso, sebbene si proibisse i nomi di Dio, fermandosi sulla soglia della propria domanda. Il tutto non senza retorica e un che di molto intenso e vago.
Una volta avevo visto la fotografia di un foglietto sul quale agli inizi del ’42, in America, aveva elencato i concetti chiave della Cittadella, righe di scrittura sottile che scendevano a raggiera, concetto del nomade e del sedentario, concetto del paesaggio costruito dall’andare, concetto della ‘meravigliosa collaborazione’, concetto delle domande che muoiono, concetto delle pietre e del silenzio, concetto dell’agenzia Cook, concetto del silenzio che nutre e della lentezza, concetto del tempo che cola e del tempo che riempie, concetto del domani, concetto del secchio, della pelle e della montagna, concetto della pace che è beatitudine, morte delle risposte e non riconciliazione.
Ore 16.30, a vista, 1000 piedi. 3/8 di altocumuli con base a 5000 piedi.
Volo basso seguendo il profilo della Corsica, è come una specie di ricalco, da cui mi distacco soltanto per tagliare sul mare le piccole insenature dopo Bonifacio, il golfo di Santa Manza, il golfo di Porto Vecchio, poi vado come va la costa. La rotta è questa sponda di terra con casette e barche che scorre veloce in fuori e in dentro, vicinissima. Senza il pilota automatico mi sento un po’ meno cameriere, o almeno un cameriere che guarda alla finestra e si diverte. Dal colonnello, ad Alghero, s’era fatto tardi e cosí ho portato Bruno a mangiare aragoste e frutti di mare nella baia di Porto Conte. Sarà per l’artificialità del volo, o per compensare la nobiltà di spirito, certo che c’è uno strano legame tra gli aerei e il cibo, e comunque con Bruno si finisce sempre cosí. A porto Conte, in realtà, l’ho portato per un’altra colazione, un pranzo d’addio di cinquant’anni fa. Il pranzo che offrirono alla squadriglia II/33 Saint-Exupéry e John Phillips, il reporter di Life autore delle fotografie, il giorno prima che questi lasciasse Alghero. Si riunirono nella villetta dov’erano ospitati Gavoille e gli altri ufficiali. La baia è rimasta come allora, brulla e con poche case. Finita la colazione ho domandato a Bruno se avesse voglia di aiutarmi a cercare quella villetta, era buffo vederlo poi tra le stoppie col libro in mano, cosí sudato e preso: guardava i due promontori che chiudono il golfo, li confrontava con lo sfondo delle fotografie, diceva piú su!, un po’ piú a destra!, no, non è quella. Prendeva la faccenda molto sul serio, come sempre. Dalle immagini di quella festicciola al tramonto nel cortile si ha l’impressione di una pattuglia di strani gentiluomini, un po’ fuori mano, un po’ fuori tempo, mistilingue, poetici e disarmati come i Lightning su cui volavano avendo sostituito cannoncini e mitragliere con le camere da ripresa. Chi conobbe Saint-Exupéry in quei giorni, o chi lo conobbe prima ancora nel Sahara, racconta dei giochi di prestigio che faceva, di come suonava il pianoforte rotolando due arance sulla tastiera, delle partite a scacchi o al gioco delle sei parole, dei teoremi matematici cui lavorava per ore; leggeva poche opere di fantasia ma divorava trattati d’ogni genere, e libri curiosi che chiedeva agli altri piloti di portargli dai loro viaggi. Il risultato di tali letture era sempre qualche esperimento di fisica o di metafisica, e nuovi numeri per i suoi spettacolini improvvisati. Non pontificava mai, sembrava curioso come i suoi ascoltatori del risultato delle proprie argomentazioni. Ad Alghero rientrava dalle missioni avvicinandosi al campo senza carrello, tutti pensavano a un’avaria o a una dimenticanza, gli facevano gran segnali, sparavano razzi colorati, partiva l’ambulanza, partiva il carro antincendio, lui a metà della pista batteva le ali in segno di gioco, riattaccava e ritornava all’atterraggio col carrello fuori.
Con metodo, Bruno ha poi trovato la villetta del pranzo d’addio: in parte cambiata, ridipinta chissà quando, poi abbandonata. Mi piacciono i musei ma mi piacciono anche i luoghi apparentemente senza storia, anzi in cui una storia c’è stata, ma nessuno la conosce o la ricorda piú. Nella mia infanzia era pieno di case come questa, abbandonate dopo la guerra, costruite con un pensiero dello spazio e della forma che la sconfitta aveva rinnegato, case in cui era successo qualcosa, ma non si sapeva cosa, mute, senza possibilità di raccontare. ‘Condannate’, come dicono i francesi con una bella espressione a proposito delle porte e delle finestre murate.
Eh sí, volo basso lungo la costa, Bastia è già in vista, l’operatore alla torre è una donna, parla l’unico inglese aeronautico comprensibile in Corsica. Faccio giravolte. Sono contento. No, il mito non c’entra nulla. Il volo ha avuto a che fare col mito finché non è stato umanamente realizzabile. Una volta inventato l’aeroplano, c’è una sola cosa al mondo con cui il volo è veramente connesso, ed è l’infanzia. I piloti non hanno ali piumate, non sono angeli e tanto meno eroi, sono bambini adulti, bambini nascosti, ben custoditi nella loro maturità, ben conservati dentro una delle imperturbabili professionalità che la vita ha loro assegnato, ma legati all’infanzia con un elastico da fionda che gli sbuca dalla tasca. Se poi tra l’infanzia e la morte c’è uno speciale rapporto, non saprei dire.
Ore 15.45 del giorno successivo, Bastia Porretta, pista 16-34. Calma di vento.
Siamo al punto attesa della pista 16, Bastia Porretta. Non riporto il meteo perché è un po’ complesso. Ci sono sul Mediterraneo nord-occidentale diversi tipi di nubi, con base a quote diverse, ma va meglio di qualche ora fa. Aspettiamo l’autorizzazione al decollo. Ieri sera abbiamo dormito a Erbalunga, dove i piloti della II/33 alloggiavano nei giorni della Corsica. Ho accompagnato Bruno in una passeggiata sul lungomare, dopo il caldo della giornata c’era una brezza leggera, benefica. A cena, in una vecchia trattoria nel porticciolo, si è detto soddisfatto del luogo e del vino, talmente soddisfatto e anche un po’ brillo che mi ha parlato di sua moglie, delle sue figlie, dei suoi progetti per il futuro. A un certo punto ha cambiato tono, si è guardato intorno: vuoi che questo Saint-Exupéry, se abitava a due passi, non venisse a mangiare qui? Mi sono messo a ridere, ho detto che non sapevo, forse sí, è possibile, magari si sedeva a quel tavolo di fronte ai barconi da pesca, magari fumava o guardava la notte, chissà cosa pensava.
Adesso, al punto attesa della pista 16, Bruno scruta la torre di controllo come se l’autorizzazione dovesse arrivare con un cenno della mano e non via radio. Stamattina l’ho portato al vecchio aeroporto di Borgo, una decina di chilometri piú a nord. Dietro una caserma dell’Armée de Terre abbiamo trovato la pista d’erba tra la laguna e la collina. Una pista d’erba non è diversa da un qualunque prato, eppure si vede che un tempo è stata una pista. Abbiamo camminato a lungo, l’abbiamo percorsa quasi tutta, in un sole tenue e un’aria piú fresca. Si distinguevano ancora tra le stoppie i raccordi in terra battuta. Su un lato c’era un piccolo rudere di metallo, una torretta aperta e arrugginita, con qualche traccia del bianco e rosso originali.
«India Golf India Oscar Mike, autorizzato allineamento e decollo uno sei. A sinistra dopo».
A sinistra dopo il decollo proseguiamo in una virata larga, facendo quota sul mare per scavalcare la collina. Poi andiamo per prua nordovest. All’una del pomeriggio del 31 luglio 1944 Gavoille aveva già chiamato tutti i centri radar alleati del Mediterraneo settentrionale. Nessuno lo aveva visto. Chi era con Gavoille nella saletta operazioni ricorda il tono frenetico con cui chiedeva notizie, e le ipotesi incruente che fece via via per giustificare quel ritardo, finché il tempo segnò il limite di autonomia del Lightning. Di questa specie di attese, quando era toccato a Mermoz sparito nell’Atlantico, Saint-Exupéry aveva detto: «Non conosco nulla di piú tragico del ritardo. Un compagno non atterra all’ora prevista. Un altro che doveva arrivare, o segnalarsi con un messaggio, resta muto. E quando sono passati dieci minuti, che nella vita ordinaria non darebbero nemmeno l’impressione di aver atteso, d’improvviso tutto si irrigidisce. Il destino ha fatto la sua apparizione. Tiene degli uomini in suo potere. Su di loro è stata pronunciata una sentenza. Il destino ha già giudicato e noi tratteniamo il respiro». Verso sera qualcuno scrisse nel giornale di bordo della squadriglia ‘Non rentrée’, dopo aver incollato alla pagina una fototessera di Saint-Exupéry.
Ciò che Gavoille non seppe quel pomeriggio, non lo seppe per il resto dei suoi anni, e come lui nessun altro. Dei racconti possibili o probabili, preferivo quello di Gavoille, che col tempo si fece una sua idea, e non smise mai di cercare. All’inizio pensò a una panne d’ossigeno. Arrivati a una certa quota i piloti dei Lightning aprivano le bombolette respirando una prima boccata d’aria del Massachusetts o dell’Ohio, dal sapore di vernice. Saint-Exupéry, grande e grosso com’era, consumava piú ossigeno di tutti, poteva aver avuto qualche problema, gli era già capitato una volta di dimenticarsi d’aprire l’ossigeno, poteva aver perso conoscenza contro il volantino, l’aereo coi motori a pieno regime era entrato in picchiata disintegrandosi per la velocità e finendo in mare. Poi verso la fine degli anni Settanta Gavoille, l’ormai generale in pensione René Gavoille che non tralasciava mai di chiedere in calce ai suoi articoli su Saint-Exupéry se qualcuno avesse visto, se qualcuno ricordava, ricevette dalla Costa Azzurra memorie e testimonianze, doveva essere bellissima la Costa Azzurra in quel giorno del ’44, bella un po’ piú di adesso, che già la intravvediamo dopo cento miglia di mare aperto, Bruno ed io, sotto un cielo veloce di nubi alte che vanno verso oriente. Ogni mattina la guerra offriva qualcosa, anche quella mattina ci fu spettacolo, un Lightning P 38 arrivò bassissimo dalle montagne, dalla valle a nord di Biot, basso e veloce, dietro di lui due caccia tedeschi; dal motore destro del Lightning uscí un refolo di fumo bianco, poi l’aereo si piegò di lato, piroettò sull’acqua, scomparve. Parecchie persone descrissero a Gavoille la medesima immagine, concorde nel luogo e nell’ora, mezzogiorno da poco passato. Altri ricordavano semplicemente di aver visto un aereo del tipo Lightning cadere in mare, e quello di Saint-Exupéry fu l’unico scomparso quella mattina sul Mediterraneo nord-occidentale. Il giorno dopo, l’allievo cacciatore Robert Heichele, che aveva vent’anni e morí in combattimento due settimane piú tardi, scrisse a un suo amico di aver abbattuto un Lightning il 31 luglio del ’44. Lo avevano intercettato, lui e il sergente Hogel a bordo dei loro FW 190 ‘naso lungo’ alle 11.56 tra Le Logis e Castellane, lungo la strada di Napoleone. Volava duemila piedi piú alto di noi, disse Heichele nel suo rapporto, non potevamo attaccarlo; con nostra grande sorpresa virò e cominciò a scendere, sembrava venirci incontro. Io feci una spirale in salita e mi sistemai in posizione di tiro, centocinquanta metri dalla sua coda. Sparai, lo mancai. Feci un tonneau riguadagnando una buona posizione, sparai di nuovo ma la raffica gli passò davanti. Lui cercò di sganciarsi buttandosi in picchiata, lo inseguii, quando fui a una trentina di metri tirai di nuovo. Vidi una scia bianca che usciva dal motore destro, l’aereo volò basso lungo la costa, cadde in mare.
Forse preferisco questo racconto perché è il meno misterioso, meno di un suicidio o di una distrazione o di un’avaria, o forse perché è il piú aeronautico, o perché piú di tutti si può falsificare, dimostrando che Heichele non è mai esistito, e che la sua lettera è tutta un’invenzione. Ma il mare è comunque quello qui sotto, vicino vicino, al largo di Saint-Tropez, Saint-Raphaël, Antibes, mare su cui volo veloce quasi a pelo dell’acqua, Bruno batte con l’indice sull’altimetro dalla sua parte, dato che non gli bado batte sul mio altimetro, quando si vola cosí bisogna stare attenti, c’è un effetto ottico per cui ci si crede piú alti, meglio non guardare l’acqua e guardare il cruscotto. Bruno si limita a battere col dito sugli strumenti, perché è sicuro di avermelo insegnato anni fa. Bruno è sempre Bruno.
Al telefono René Gavoille aveva una voce attenta, calma. Parlai con lui prima di partire, disse: quella mattina non doveva volare, fu un puro caso, io rimasi a letto perché la sera prima avevamo fatto tardi, lui si alzò presto, la notte non dormiva quasi piú, andò dall’ufficiale alle operazioni e ottenne il permesso di decollare. Non doveva volare, le mie istruzioni erano precise, ma cosí fu il destino. Fu l’unica volta in cui non c’ero, una missione che non gli spettava, una missione inutile, tenuto conto del pericolo e dell’imminente sbarco in Provenza. Andò sulla Savoia e fece le sue fotografie. Al ritorno, quando già era stato colpito, ebbe un’ultima emozione, passò ancora una volta sui luoghi della sua infanzia e della sua adolescenza. Riposa lí, in quel mare. Lei può immaginare che cosa accade quando un aereo a quattrocento chilometri l’ora si infila nell’acqua.
Ho tirato il volantino, ho fatto quota sufficiente, ho battuto due o tre volte le ali in segno di saluto. Bruno adesso è piú tranquillo. Nizza e Mentone sfilano via sulla sinistra. Non parliamo, del resto non parliamo quasi mai durante il volo. Ciascuno di noi pensa già a Genova e a Milano, a Verona e al filo quasi rettilineo che ci riporta a casa, a Venezia. Al tramonto, dopo l’atterraggio, faremo lunghi ed elastici passi per rilassarci dalle fatiche dei comandi. Sorrideremo, di nuovo ricongiunti alla nostra ombra.