Capitolo 15
“È la corte dei miracoli, qui”. Olivier, un infermiere, spara questa frase parlando di una paziente appena arrivata. Occupa la prima stanza, a sinistra nel corridoio. Sta in piedi dietro la porta e dal vetro rettangolare segue il viavai degli assistenti. Posso vederla dalla saletta in cui me ne sto seduto. Mi bevo il terzo caffè della mattinata. Di punto in bianco, la paziente batte forte contro la porta.
“Nazisti che non siete altro! Che ci sto a fare io qui, devo andare al lavoro!”.
Nei primi minuti un’infermiera andava da lei per provare a calmarla. Ora non più.
“Senti un po’, tu! Sfaticato con gli occhiali, che non fai nient’altro che berti caffè senza fare un cazzo!”.
Ce l’ha con me? Faccio finta di niente. Jérémy, accanto a me, si scompiscia dalle risate. Ora comincia a parlare tedesco. Riconosco la lingua ma non capisco niente. Non le risponde anima viva, allora abbandona il tedesco.
“Mi avevate promesso un pasto!”.
Il cibo arriva ma lei lo trova “disgustoso”. Butta le coperte a terra, rovescia l’insalata di barbabietole. I cubetti rossi restano a terra e un succo color rubino cola per il corridoio.
“Non stiamo qui per dialogare coi pazienti”, spiega un infermiere. “Sono in crisi, allora li leghiamo e li trattiamo. Il dialogo viene dopo, all’ospedale”.
“E vai, pure oggi c’abbiamo l’animazione!”, mi sorride Jérémy.
L’infermiere finisce per sedare la paziente. Io e Jérémy assistiamo a queste scene senza fare niente. Il nostro compito è guidare, solo guidare.
Durante le mie tre settimane di presenza, Jérémy mi ha parlato della sua vita prima di questo lavoro. Lavorava a contratto in una fabbrica siderurgica del gruppo ArcelorMittal, guadagnava 1800 euro al mese. Ma già da parecchio voleva fare lo sbirro. Quando è diventato Ads è sceso a 1340 euro netti. All’infuori dei poliziotti in uniforme che vengono a lasciare o a prendere un paziente, Jérémy è l’unico poliziotto con cui ho a che fare al lavoro.
***
Stamattina dobbiamo trasferire una donna all’ospedale Bichat, a Porte de Saint-Ouen, a nord di Parigi. Non vuole lasciare la stanza, si rifiuta di vestirsi, grida, e nel corridoio si forma un assembramento.
“Non voglio! Voglio restare qui!”.
Due sorveglianti la trascinano fuori dalla camera. Esce con i piedi puntati in avanti. Resta accovacciata nel corridoio. Un caschetto marrone impeccabile le incornicia il viso contratto. Il pigiama blu le struscia per terra, non vuole salire in ascensore.
“Se non viene, si ritroverà per terra!”, si sgola un sorvegliante.
Bernard le afferra il collo del pigiama e la fa cadere. Lei si sdraia completamente. Intorno, non fiata nessuno. Resta sdraiata, in lacrime, coi capelli negli occhi e in bocca. Il pigiama le si apre un po’, s’intravede la spalla destra.
Accorrono altri infermieri a cercare una sedia a rotelle, lei si dimena ancora, la forzano.
Al piano terra sale sull’ambulanza, sorvegliata da un infermiere e da un sorvegliante, e si addormenta. Jérémy guida. Io lo accompagno per passare il tempo. Lui sospira.
“Questa gente è inutile. Ma ti pare normale? Ci sono infermieri, persone a loro disposizione, e loro a che servono? A niente, si fanno assistere”.
“Questa gente è malata”, dico io impassibile. “Che vuoi fargli?”.
“Un colpo secco”.
Alcuni sorveglianti e infermieri sono d’accordo con lui. Cambia solo il mezzo: un colpo di pistola o fucile per il mio collega, un’iniezione letale per gli altri.
La donna si sveglia soltanto davanti all’entrata dell’ospedale, cinquanta minuti più tardi. Ricomincia il suo teatrino. Con il viso contratto scruta l’infermiera, intensamente.
“Troia! Pure te mi stai sul cazzo!”.
Getta un’occhiata al vecchio sorvegliante.
“E te, coso! Stronzo! Non mi toccare!”.
Ci vuole tutta la diplomazia e la calma dell’infermiera per farla sedere sulla sedia a rotelle e portarla dentro.
Al ritorno l’infermiera e il sorvegliante russano nell’ambulanza ormai senza pazienti.
Jérémy si ridesta. Mi parla del dipartimento in cui è nato, l’Aisne. In un reportage su TF1 di poco tempo fa, nel programma Sept à huit, se n’è parlato per il forte consumo di droghe.
“Qualche ragazzo che veniva a scuola con me, che conoscevo bene, si faceva di eroina e compagnia bella”.
Abbassa il tono della voce.
“L’eroina, io l’ho provata una volta. Ma vabbè, è finita là. Quando facevo sport c’era un amico, era poliziotto pure lui, che mi diceva spesso che i poliziotti erano delinquenti che avevano messo la testa a posto”.
Rientriamo all’infermeria, sono le 20.15. Jérémy stacca prima e io resto per gli ultimi due viaggi. Ci siamo messi d’accordo. Mi ha detto che ha appena chiesto il trasferimento. Ben presto andrà in un altro dipartimento di polizia e sarà sostituito da un nuovo Ads.
Annoto alla rinfusa i motivi di ammissione: disturbi del comportamento nel proprio domicilio, sulla pubblica via o perfino all’aeroporto Charles-de-Gaulle; violenze sul treno ad alta velocità; minacce contro una donna incinta; furto di una camionetta.
Richiudo il quaderno. Devo farmi violenza per mantenere i riflessi da giornalista sul mio nuovo terreno. In verità, ho gli occhi fissi su un’altra realtà.
Domani devo alzarmi presto e tornare dai miei genitori. Lo stato di salute di mio padre è peggiorato in poche settimane. Ormai ha bisogno di un respiratore per camminare. Il minimo sforzo diventa una sofferenza. La chemio prevista non ci sarà più, è troppo debole. Ha le guance scavate, il morale a terra. A casa, abbiamo capito.