Capitolo 17

È faticoso riprendere il mio vero-finto lavoro. Sono nervoso e ho il cuore a pezzi. Provo a convincermi che questo lavoro monotono mi offre il ritiro migliore per poter attraversare il dolore del lutto.

Vegeto aspettando la mia prossima destinazione e il tempo si dilata. A volte annotare i deliri e i complotti denunciati dai pazienti mi aiuta ad ammazzare le giornate.

Un tipo rallentato dalle medicine ci urla: “Mica siete uomini, voi. Siete puttane. Sono sicuro che m’avete fatto venire l’Aids co’ ’sti prodotti”. Un’altra volta il sorriso infantile di un uomo obeso mi gela il sangue, soprattutto quando aggiunge: “Quando ero piccolo graffiavo mia sorella”. Graffia ancora, ma oggi tocca a sua madre. O ancora il ragazzino senza fissa dimora che si spaccia per uno studente di Scienze politiche e una volta mi confida: “Stavo male, sono andato dal dottore e lui mi ha detto che non c’era posto. Allora l’ho fatto nero”.

La lista delle persone rinchiuse in sé stesse è infinita. Un turco si è estratto un dente perché secondo lui sua moglie gli ci aveva inserito un microfono per spiarlo; uno schizofrenico dall’accento inglese è stato fermato, alla Gare de Lyon, con un coltello in mano e rivendicava il diritto di “tagliarsi un pezzetto di brownie”.

Due pazienti mi hanno commosso. In modo particolare Odile, una che ormai è di casa. Quando entra nel corridoio un’infermiera l’accoglie con un “Ciao Odile, da quanto tempo!”. Questa donna di cinquantotto anni ne dimostra dieci di più. La diagnosi dei dottori è sempre la stessa, dal primo dei suoi cinquantuno ricoveri nel 1986: soffrirebbe di una ‘psicosi deficitaria’. Altri specialisti, più semplicemente, parlano di ‘debilità mentale’.

A volte la ricoverano in ospedale, altre no. È senza domicilio fisso da quando aveva quattordici anni e vive tra la strada e gli ospedali psichiatrici. In cinque mesi ha conosciuto cinque strutture differenti: soprattutto ad Auxerre, Tolosa e nel sud di Parigi. Oggi ha voluto rubare un portafoglio negli armadietti prima di essere fermata dalla polizia.

“Ricoverarla in ospedale è come svuotare il mare con un bicchiere, non serve a niente”, sospira un’infermiera.

E poi c’è Bongo, fermato una notte perché correva dietro alla gente per strada con un bastone. Si era appena fatto di crack, una settimana dopo essere uscito di galera. Quando l’ho visto nel corridoio mi ha colpito quanto somigliasse a Thierry Paulin, l’assassino di signore anziane degli anni Ottanta. Bongo ha i capelli biondi ossigenati come lui e lo stesso spazio tra gli incisivi.

Lo psichiatra dell’Infermeria ha chiesto di riportarlo dalla polizia. Bongo lo viene a sapere e dà di matto. In preda al panico, batte come un fabbro sulla porta della sua camera.

“Traditori, ecco che siete!”.

Grida ancora più forte davanti allo psichiatra che viene a misurargli la temperatura.

“Eccolo! Il traditore! Io, a lei, gli ho raccontato la vita mia!”.

Il medico instaura un dialogo e parla piano. Mi avvicino e spio la scena, nascosto nel vano della porta. Dall’altro lato, quattro sorveglianti riempiono la camera. Decidono di legarlo.

“Non è pazzo”, spiega il medico. “Ha solo capito che lo aspetta il centro di detenzione amministrativa. Lo sa bene”.

Un Cra è solo una gabbia in cui non fai altro che aspettare prima di ritornartene da dove sei venuto. Vale a dire la fine dei sogni per un migrante. Qualche minuto dopo tre sbirri vengono per portarlo via.

Qui i pazienti arrestati non godono pienamente né dello status di pazienti, né dello status di persone sotto custodia della polizia – dal 2009, in teoria, hanno diritto a un avvocato. Ma stando ai fatti, in quindici mesi di presenza, non ho mai visto una toga nera.

Quando qualcuno arriva qui, incontra prima un tirocinante e poi viene sistematicamente sedato e legato. A meno che – caso raro – la persona non sia venuta da sola. La sedazione può assumere due forme: un liquido da ingoiare se il paziente è calmo, un’iniezione sulla chiappa in caso di ribellione. Quando il detenuto è troppo ‘di marmo’ (che in gergo sta per ‘fuori come un balcone’) la dose di sedativo viene caricata.

Poi arriva la contenzione, cioè si lascia il paziente legato. Tra il 15 e il 17 luglio 2009, il controllore generale dei luoghi di privazione di libertà aveva ispezionato l’Infermeria e scritto un rapporto, in cui indicava: “I motivi per il ricorso alla contenzione, indicati sul registro, in alcuni casi non sono sufficientemente espliciti. Dovrebbero essere chiari e precisi”. Un eufemismo, perché secondo le mie osservazioni la contenzione dei pazienti è quasi sistematica, indipendentemente dal motivo della loro presenza.

Questo rapporto, poi, aveva evidenziato tra le altre cose la mancanza di docce per i pazienti, di campanelli (devono picchiettare per chiamare gli infermieri), di pigiami di tutte le misure, di persiane funzionanti nelle stanze…

Nel 2019 il controllore generale invia un altro rapporto in cui esprime di nuovo perplessità per lo statuto “poco chiaro” dell’istituzione: una struttura psichiatrica affidata alle forze di polizia.

I pazienti che ho visto arrivare qui erano tutte persone non accompagnate e spesso precarie. “Sono i dimenticati da Dio e dagli uomini”, mi ha detto un giorno un’infermiera. Persone in crisi, tossicodipendenti, senza fissa dimora, migranti, gente quasi sempre al verde, proveniente dagli arrondissement più popolari di Parigi, il Diciottesimo, il Diciannovesimo e il Ventesimo.

Nei miei giorni liberi sono andato a consultare l’archivio dell’Infermeria, alla Biblioteca nazionale François Mitterand. Una tesi del 1977 dedicata proprio all’Infermeria riferisce che le persone ammesse provengono il più delle volte da “una popolazione a predominanza maschile, giovane, socialmente ed economicamente svantaggiata, quasi sempre in stato di ebbrezza o di scompenso psicotico acuto che è alla base di un disturbo della quiete pubblica più o meno grave”. Più avanti si legge: “Tra queste persone, un terzo sono senza fissa dimora, un terzo sono lavoratori immigrati. Così, i nostri pazienti sono reclutati in prevalenza da un sottoproletariato di disoccupati, clochard e profughi”.

Quarant’anni dopo il cast è identico.

***

Nei mesi passati ad aspettare la mia destinazione successiva, alla fine ho dimenticato di essere ufficialmente uno sbirro. Il posto di autista è quasi diventato un lavoro come un altro per portare a casa la pagnotta. In questa fase di fluttuazione, io e la mia ragazza ci siamo lasciati. Ho anche mollato il mio coinquilino per andare a vivere da solo, in un monolocale di quindici metri quadrati a Vincennes. È stata come una muta, per preparare la mia vita successiva.

Dentro casa ho poggiato sulla scrivania una foto di mio padre mentre sorride e sta per fare una battuta. A volte gli parlo, mi fa stare meglio.

E poi, finalmente, una mattina ho potuto inoltrare la domanda di trasferimento. Giusto qualche riga, in cui sostenevo di voler completare la formazione per preparare il concorso di agente di polizia: “Il mio obiettivo è familiarizzare con il lavoro di squadra nel commissariato e nel pronto intervento, e perfezionarmi nelle tecniche di azione e nello studio delle procedure”.

Ho avanzato tre richieste: i commissariati del Diciannovesimo, del Diciottesimo e del Ventesimo arrondissement, in quest’ordine. Quelli con la reputazione di essere i più sensibili di Parigi. Perché proprio il Diciannovesimo per primo?

A marzo 2016 un caso di violenza della polizia ha scosso questo commissariato, e ne rimasi parecchio colpito. L’evento accadde a margine delle manifestazioni contro la Loi Travail, al liceo Hénri Bergson, vicino al parco di Buttes-Chaumont.

Un video mostra un poliziotto che dà un pugno a uno studente. L’adolescente di quindici anni cade a terra per la violenza del colpo. Se la cava con una frattura del setto nasale e sei giorni di prognosi. Quelle immagini suscitarono un’emozione fortissima. Bernard Cazeneuve, allora ministro dell’Interno, le definì “scioccanti”. Il poliziotto venne condannato a otto mesi di prigione con la condizionale, ma il tribunale penale di Parigi non registrò la condanna sul suo casellario giudiziale. Così ha potuto continuare a esercitare la professione.

Lo stesso giorno, quel 24 marzo 2016, un altro poliziotto del Diciannovesimo arrondissement, dopo aver subito un lancio di oggetti, soprattutto uova, fece ‘uno sgambetto’ a un ragazzo, poi prese per il collo uno studente e lo trascinò per una trentina di metri. Il 24 maggio 2018, due anni dopo i fatti, venne condannato a quattro mesi di prigione con la condizionale e le due vittime a seicento e a settecento euro di multa. Ha potuto continuare a esercitare la professione.

Mi ha colpito un dettaglio, di questo caso: i colleghi del poliziotto imputato hanno detto tutti di non aver notato nessun gesto violento. Il procuratore che aveva chiesto l’ordine di carcerazione sospeso, per il poliziotto responsabile del pugno, definirà questa solidarietà tra colleghi “volontà di non dire niente”.[8]

La mia prima scelta è stata accettata.

 

8 Lucas Burel, “Violences sur un lycéen: œuf, farine et ‘omerta policière’ à la barre”, L’Express, 11 novembre 2016.