3.

Fu un gran bel funerale, ammesso che ne esistano di belli. Durante la messa, Agnes era seduta nel primo banco, con Marion da un lato e i sette orfani dall’altro. I ragazzi erano pallidi, un po’ per la paura, giacché non capivano fino in fondo cosa stesse accadendo, un po’ per l’eccitazione provocata da tutta la gente che continuava ad avvicinarsi e ad accarezzar loro i capelli mormorando: «Dio vi benedica» o «Dio ti ama, figliolo» e infilandogli in mano qualche spic­ciolo. I più piccini fissavano le scintillanti monete d’argen­to a occhi sgranati. Non le conservarono a lungo però, per­ché Mark, dopo quello che riteneva un conveniente lasso di tempo, le prese in consegna per darle più tardi alla mam­ma. I bambini se ne separarono senza fiatare, anche Rory, sia pure dopo alcuni istanti di riflessione. Solo Frankie non li avrebbe mollati neanche morto. Quando aveva qualcosa, lui se lo teneva. Mark odiava il fratello: era il più egoista di tutti. Non divideva con nessuno quello che portava a casa, mentre se Mark rimediava un po’ di caramelle da Mr McCabe, l’edicolante di zona per conto del quale ogni mat­tina andava a recapitare i giornali, Frankie faceva il muso lungo finché la mamma insisteva che gliene regalasse qual­cuna. Aveva desiderato spesso che Frankie non fosse suo fratello. Era il cocco di mamma. Mark si rendeva conto che ogni madre ne aveva uno e non gli importava di non esser­lo, ma non riusciva a capire perché, con bambini così belli come Trevor e Cathy, o anche Dermo – impertinente, ma adorabile –, avesse scelto l’unico bastardo egoista della fa­miglia. Le mamme dovevano essere proprio cieche.

Era cominciato tutto con la meningite. Ricordava alla perfezione il panico che quella notte aveva invaso l’apparta­mento. L’ambulanza alla porta, Frankie che vomitava roba marrone, fetida e disgustosa. Lo rivedeva ancora con gli oc­chi chiusi e il viso imperlato di sudore, mentre gli infermie­ri lo portavano giù dalle scale e lo caricavano sulla vettura in attesa. La madre era sconvolta, il padre, pallido e tremante, non sapeva che fare. Lo avrebbero portato all’ospedale per le malattie infettive. Be’, aveva pensato Mark, non c’è altro da aggiungere. Due zii malati di tubercolosi erano stati ricove­rati lì e non ne erano più usciti. Tutti i ragazzi del Jarro sape­vano che quello era il posto in cui aspettavi che Dio ti venis­se a prendere. Non avrebbe mai più rivisto Frankie. Mark ricordava che, mentre l’ambulanza si allontanava, un bam­bino gli si era avvicinato e gli aveva chiesto: «Chi è?» «Mio fratello Frankie» aveva risposto lui. «Che gli è successo?» aveva domandato l’altro. Non ricordando la parola, e inca­pace di pronunciare «meningite», si era limitato a dire: «Sta schiattando» ed era rientrato in casa.

Quella notte, nelle sue preghiere, Mark aveva chiesto a Dio di salvare la vita a Frankie. Dio lo aveva esaudito. Sei settimane dopo il bambino era tornato a casa e da allora in poi la mamma lo aveva servito e riverito! Anche adesso, a distanza di anni, se Agnes gli chiedeva di andare a prende­re un secchio di carbone, e Mark si azzardava a suggerire che toccava a Frankie, lei gli rivolgeva un’espressione seve­ra, replicando come al solito: «Ricordati la meningite!» Il ragazzo aveva imparato una lezione preziosa: mai essere troppo precipitoso con le preghiere.

Quando il prete annunciò che la messa era finita, si for­mò una fila di persone che, una dopo l’altra, strinsero la mano a Mrs Browne e a Mark, accarezzando la testa dei bambini. Tutti, senza eccezione, dicevano ad Agnes: «Con­doglianze» e al suo primogenito: «Sei tu l’uomo di casa, adesso, ragazzo mio». Mark lo capiva… be’, quasi. Imma­ginava che significasse dover prendere il posto del padre: portare a casa i soldi e proteggere la famiglia. Si sentiva pronto e in grado di adempiere a entrambi i compiti. Però era un po’ preoccupato. Sperava che essere l’uomo di casa non significasse anche dover andare a letto con la madre… una prospettiva che non lo allettava affatto.

Il carro funebre si allontanò piano dalla chiesa. Alle sue spalle avanzava il corteo, guidato dalla famiglia Browne. La mamma era affiancata dai figli, Cathy le stringeva la mano sinistra, e Frankie era allacciato al braccio destro. Mark camminava dietro di lei badando a Trevor, Rory procedeva accanto al fratello maggiore, un gemello per ogni mano. Il cimitero di Ballybough distava un chilometro e mezzo. Du­rante il tragitto, il carro passò dalla James Larkin Court. Tutte le finestre avevano le tende tirate. Sulla porta di casa Browne era attaccato un cartoncino bianco col bordo nero. Diceva: ROSSO BROWNE RIP.

Il carro funebre indugiò per un istante, poi con un rom­bo riprese a muoversi. Erano già nei pressi del cimitero quando Agnes sentì il primo sibilo. All’inizio rimase per­plessa, ma ben presto una nuvola di vapore dal cofano della Ford Zephyr annunciò che qualcosa non andava. Il car­ro funebre si bloccò all’improvviso e la folla a rimorchio si arrestò scomposta. L’autista e il suo aiutante saltarono fuo­ri dalla parte anteriore del veicolo. Alcuni uomini si uniro­no a loro. Ne seguì un’ispezione collettiva del motore, poi una discussione su quanto fossero distanti dal cimitero, un argomento controverso. Sembrava davvero troppo lontano per portare a spalle la bara, e tuttavia non si poteva andare in macchina per paura di danneggiare il motore. Si decise di spingere la vettura fino all’ingresso del camposanto e di portare a spalla il feretro da lì in poi. Dal corteo furono chiamate altre persone e, con uno spintone, la Zephyr bal­zò in avanti.

«Mark, che c’è nella cassa lì dietro?» chiese d’un tratto Cathy.

«Papà» rispose Mark.

«È tornato?»

«Tornato? Da dove?» Il ragazzo pareva sconcertato.

«Mamma ha detto che papà è andato in paradiso… che c’è andato dopo il lavoro. Ora è tornato?»

«Sì» rispose Mark.

«Perché?» insistette lei.

«Perché non voleva perdersi il funerale».

Per tutta risposta, Cathy emise un semplice: «Oh» e co­sì proseguirono il cammino dietro al carro funebre a pro­pulsione umana.

Da venticinque anni Kevin Carmichael era dipendente della Solemn Sites S.r.l., proprietaria del cimitero di Bally­bough. Aveva iniziato come becchino e con gli anni era sta­to promosso direttore. Il suo lavoro gli piaceva, e di solito al camposanto tutto filava liscio come l’olio. Solo di tanto in tanto si verificava qualche piccolo intoppo. Durante lo sciopero del 1963, ad esempio, le famiglie furono costrette a scavarsi le fosse da sé, e una volta una nota prostituta di Dublino, che doveva riposare nella tomba di famiglia, a causa di un errore di trascrizione andò a finire tra le Suore della Divina Rivelazione. L’errore fu subito corretto e la fa­miglia della donna la prese sul ridere. Nessuno ebbe mai il coraggio di dirlo alle suore.

Quella però aveva tutta l’aria di una giornataccia, per il cimitero. Kevin si vantava della sua idea di scaglionare l’ar­rivo dei cortei con un intervallo di circa un quarto d’ora l’u­no dall’altro, per regalare a ciascuna famiglia un po’ di pri­vacy. Ma, per una serie di contrattempi, tre dei funerali at­tesi per quel giorno giunsero nello stesso momento. I Clar­ke si erano trattenuti ben oltre il previsto a causa dell’infar­to che aveva colpito il prete durante la messa. Prima che si riuscisse a chiamare l’ambulanza e a trovare un sacerdote di riserva, Thomas Clarke (il caro estinto) aveva accumulato già un ritardo di un’ora. Il secondo corteo, quello dei Browne, stava arrivando proprio allora, e con venti minuti di ri­tardo: il motivo era evidente, visto che la grossa Ford era spinta a braccia da dieci uomini paonazzi. Per colmo della sfortuna gli O’Brien erano invece puntuali come la morte. Perciò ora Kevin si ritrovava con tre funerali in contempo­ranea, e si prospettava una bolgia infernale.

Servivano persone in forze per portare a spalla Rosso, perché chi aveva spinto il carro funebre era esausto. Per il triste compito furono scelti quattro baristi di Foley che, in­sieme con i tizi delle pompe funebri, si mischiarono agli al­tri due cortei mentre il feretro attraversava la folla ormai immensa. Con le tre bare in fila, ebbe inizio la processione, e per un po’ andò tutto bene: il corteo era così numeroso che pareva quasi un funerale pubblico. All’improvviso, una delle casse ruppe le righe e deviò di lato. La fiumana di gen­te prese a rumoreggiare, chiedendosi: «E quello chi è?» La situazione si stava trasformando in una colossale versione del gioco delle tre carte. Infine qualcuno si decise, e un gran numero di persone andò dietro al feretro errante. I bambi­ni guardarono Agnes in attesa di istruzioni, e lei, risoluta come sempre, dichiarò: «Seguite quella a sinistra… Papà è lì!» Le sue parole passarono di bocca in bocca come quan­do si gioca al telefono senza fili. All’incrocio successivo quella a sinistra sterzò ancora più a sinistra e si inerpicò su una collinetta. Agnes e i figli la scortarono, imitati dalla marea di gente.

Dopo un altro mezzo chilometro, la bara fu appoggiata sulle due assi sopra la fossa. Lo sciame dei presenti le si ra­dunò intorno alla rinfusa, e quando ciascuno ebbe preso posto calò un silenzio di tomba. Padre Nostro, che sei nei cie­li… attaccò il prete, come la voce solista di un coro. La moltitudine si unì a lui e Agnes si asciugò una lacrima. I bambini le si strinsero accanto, facendola sentire un po’ meno sola. Diede un’occhiata alla gente. C’erano i vecchi amici e anche parecchie persone che non conosceva, ma del resto Rosso era molto popolare. Di fronte a sé vide una donna attraente, vestita di nero come lei, che singhiozzava. Non sapeva chi fosse. All’inizio rimase perplessa, poi poco a poco e per la prima volta nella sua vita cominciò a insi­

nuarsi in Agnes il sospetto che il marito avesse un’amante. Al termine della preghiera, mentre la bara veniva interrata, mormorò sottovoce: «Porco bastardo».

Nel frattempo, a quattrocento metri di distanza, il vero Rosso Browne veniva sepolto davanti ad appena quattro uomini. Com’era più che giusto, erano tutti baristi del pub di Foley.