La vita di Mark stava per avere una svolta positiva, e il suo interesse nei confronti dell’altro sesso iniziava a monopolizzare ogni ora del giorno e della notte. Al contrario, le inclinazioni di Rory erano piuttosto ambigue. La cosa che gli piaceva di più delle ragazze erano i loro vestiti, la sensazione dei collant sulla pelle, e sognava di truccarsi come loro. A scuola, tra i compagni, era chiamato «checca», ma nessuno aveva il coraggio di dirglielo in faccia. Tutti sapevano che Rory, checca o no, era sempre un Browne, e non conveniva mettersi contro i Browne.
Questa protezione non si estendeva a Cathy, essendo lei l’unica Browne a frequentare la scuola femminile. Andava all’Istituto della Madre della Divina Provvidenza, a Ryder’s Row, un severo collegio di suore. Per i suoi dieci anni, Cathy era intelligente.
Era anche molto amata dalle compagne e assai graziosa. I capelli corvini, tagliati all’altezza delle spalle, erano sempre brillanti, così come i grandi occhi castani a malapena visibili dietro la frangetta che scostava di continuo con la mano. In effetti fu la sua acconciatura a provocare l’incidente ribattezzato più avanti come «il caso della frangetta e della suora».
Quel giorno, un lunedì, era iniziato male per lei. Si svegliò al grido di Mark che le annunciava che erano le otto. Quando il fratello tirò le tende, il caldo sole di giugno irruppe nella stanza.
«In piedi, Cathy» sbraitava Mark.
«Sono in piedi» replicò lei assonnata, tentando di seppellirsi sotto le coperte.
«No, che non sei in piedi… Su, muoviti!» disse lui, tirando via le coperte e lasciandola in camicia da notte sul letto spoglio.
«Dai, Mark» si lagnò lei.
«Dai un bel niente! Forza, Cathy, in piedi».
Mark si accertò che tutti fossero fuori dal letto, prima di uscire di nuovo. Come ogni mattina, si era alzato alle cinque, insieme alla madre. Dalle cinque e un quarto alle sei e mezza faceva il giro del latte con Larry Boyle, poi andava da McCabe. Correva a consegnare cinquanta giornali, rincasava alle sette e mezza circa, mangiava il porridge, svegliava gli altri e alle otto e un quarto andava a scuola. Anche se era a soli dieci minuti di distanza, doveva uscire con un po’ di anticipo per lasciare Trevor in Sean McDermot Street da nonna Reddin, che badava a lui finché Agnes, la sera, non passava a prenderlo.
Cathy rovistò nel cassetto della biancheria. Niente mutande! Passò a quello dei ragazzi, la mamma spesso le infilava lì per sbaglio. Zero! Neanche l’ombra. Si diresse verso il bagno. Sullo stendino pieno ce n’era un paio, ma umido. Rimase ferma per un istante a grattarsi la testa. Pensò: mi sa che oggi è giorno di spillette. Aveva ribattezzato così le mutande della madre, la cui stoffa in eccesso veniva appuntata sul davanti e tenuta ferma da una spilla da balia in modo che non le scivolassero di dosso e non si afflosciassero. Erano brutte da vedere ma funzionavano, e le tenevano caldo il sedere.
Dopo aver mangiato una fetta di pane tostato, Cathy uscì con indosso le spillette. Passò spedita attraverso il traffico del centro, e all’angolo di Cathedral Street si incontrò con Ann Reddin, la cugina. Poi si incamminarono insieme verso il banco di Agnes in Moore Street. A Cathy piaceva passare di lì ogni mattina mentre andava a scuola. La mamma le preparava il «pranzo»: un panino con marmellata di fragole e un frutto. Le dava una controllata e poi la mandava a scuola. Cathy mangiava la frutta durante il primo intervallo, lasciando il panino per l’intervallo lungo, quando
poteva annaffiarlo con la bottiglietta di latte omaggio dello Stato.
Anche se il sole non era proprio cocente, le suore avevano spento il riscaldamento. Perciò la classe era un po’ freddina quando Cathy e le trentadue compagne di classe si alzarono in piedi per recitare l’Ave Maria in irlandese. Dopo l’Amen, si fecero il segno della croce e si sedettero. Suor Magdalen, l’insegnante, cominciò a pulire la lavagna. Si alzò una nuvola di polvere di gesso, illuminata dai raggi del sole che filtravano dalle quattro finestre divise in sedici pannelli. La suora si mise a scrivere.
Cathy, come suo solito, appoggiò la testa su una mano e si guardò intorno con aria trasognata. La Dichiarazione d’Indipendenza irlandese, in cornice, era circondata dalle foto dei firmatari. Sono morti per noi, pensò. Di fianco campeggiava un’enorme croce cui era appeso un Gesù tutto triste, il costato trafitto e sanguinante. Anche lui è morto per noi, pensò ancora, chiedendosi se qualcuno fosse mai «vissuto per noi». Sulla parete est, priva di finestre, erano appesi altri quattro ritratti. Vicino all’interruttore della luce c’era John F. Kennedy. Morto. Si chiese: sarà morto per noi, oppure è morto e basta? Poi papa Giovanni XXIII, a detta di suor Magdalen un brav’uomo che faceva del bene. Accanto a lui c’era il primo dei vivi: Éamon de Valera, il presidente della Repubblica Irlandese. Cathy pensava spesso che il suo lavoro doveva essere orribile, a giudicare da quanto sembrava infelice nelle fotografie. Era contenta di essere una femmina, così non c’era il rischio che diventasse presidente! L’ultima foto era quella dell’arcivescovo McQuaid, un uomo che incuteva terrore, uno che aveva le chiavi del paradiso e il potere di spedirti all’inferno. Rabbrividì. Mancavano due settimane alla cresima, quando si sarebbe trovata faccia a faccia con lui. Era terrorizzata. Se non avesse saputo rispondere alle sue domande di catechismo, l’avrebbe cacciata dalla chiesa e sarebbe stata dannata per l’eternità. Cancellò quel pensiero dalla mente e guardò la lavagna.
C’era la parola MEDICO scritta in maiuscolo a lettere grandi. Suor Magdalen spiegò: «Oggi il medico vi farà una visita. Questo però non interferirà con le lezioni e con la preparazione al Santo Sacramento della Confermazione. Lascerete la classe a gruppi di cinque. Vi spoglierete nel guardaroba, restando in mutande, poi aspetterete in silenzio sedute fuori dalla sala mensa finché non vi chiameranno. E mi raccomando, non vi azzardate a fiatare! Quando avrete finito dal medico, rivestitevi e tornate in classe di corsa e in silenzio. Tutto chiaro?»
Ci fu un coro di «Sì, suor Magdalen». Cathy, però, non si era unita alle altre voci. Era impallidita. Spogliarmi! pensò in preda al panico. Restare in mutande! Si sentiva svenire. La spilla che le reggeva le mutande le parve pesante come un’ancora. Arrossì. Le tremavano le mani. Fissò il crocifisso: Ti prego, Gesù, aiutami, fa’ che non mi debba togliere i vestiti… Ti prego, fa’ qualcosa…
Suor Magdalen aveva ripreso a parlare. «Voi cinque andrete per prime, poi procederemo in senso antiorario». Indicò la fila di banchi più vicina alla porta. Cathy li contò cinque a cinque, fino al suo, che sarebbe stato nel quarto gruppo. Doveva guadagnare tempo, cercare di cambiare banco per rientrare nell’ultimo gruppo, solo così poteva sperare di squagliarsela durante la ricreazione. Trentacinque minuti erano abbastanza per tornare a casa, disfarsi delle spillette e indossare le sue mutande, che per allora sarebbero state asciutte. E se anche non lo fossero state, meglio un paio umido che essere chiamata «Mutande Mosce» per il resto della vita scolastica!
Nella pausa delle undici passò all’azione. Durante l’intervallo di dieci minuti aveva tentato di convincere tutte le tredici ragazze degli ultimi tre gruppi. Aveva offerto loro la frutta, il panino e il latte, ma invano. Alle undici e un quarto era di nuovo in classe, seduta allo stesso banco di prima. Suor Magdalen ordinò di tirare fuori il catechismo e le alunne cominciarono a studiare le risposte alle eventuali domande dell’arcivescovo McQuaid. Alle undici e venti, un colpetto delicato alla porta. La suora attraversò l’aula, il crocifisso che le ciondolava alla cintura, e aprì. Seguì un brusio sull’uscio socchiuso e la pia suora rientrò in classe annunciando: «Bene, ragazze, il medico vi aspetta. Il primo gruppo può uscire!» Le cinque vittime si alzarono una dopo l’altra: sembrava che dovessero andare al patibolo. Si strinsero e uscirono in fila indiana. La lezione proseguì.
«Chi è Dio?» tuonò suor Magdalen.
«Dio è l’Essere Perfettissimo, Creatore e Signore del Cielo e della Terra» risposero tutte in coro.
Cathy guardò l’orologio. Ascoltò il ticchettio del tempo che passava.
«Cos’è la Santissima Trinità?» tuonò ancora suor Magdalen. Stavolta il suo lungo dito candido indicava Cathy. Che si alzò.
«Ci sono…»
«Silenzio».
«…tre…»
«Ho detto silenzio! Cathy Browne!» La ragazzina si interruppe e, da dietro la frangetta, sbirciò la suora che le si avvicinava piano. «Quante volte devo ripetertelo?» Cathy a quella domanda non sapeva rispondere. Le braccia della donna schizzarono fuori dalla pettorina, spalancate come se stesse per essere crocifissa. «Ti sembro un pappagallo?»
Cathy fu tentata di rispondere: No, sorella, un pinguino. Ma si trattenne.
«Signorina Browne, ho chiesto se ti sembro un pappagallo!»
«No» mormorò.
«Come hai detto?»
«No, suor Magdalen!» Cathy ora aveva alzato la voce.
«Bene. Quindi sai che non ho intenzione di ripeterti ogni santo giorno che devi toglierti i capelli dagli occhi, giusto?»
«Sì, suor Magdalen».
«Be’, allora fallo!» sbraitò la suora, e tutta la classe sobbalzò.
Cathy si portò la mano alla fronte e con uno scatto della testa mandò indietro i capelli, che le scoprirono gli occhi, belli e spaventati.
La suora sorrise. «Bene. Allora, cos’è la Santissima Trinità?»
«Ci sono tre persone divine in un solo Dio: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo».
La porta si aprì e le prime cinque vittime rientrarono.
«Seduta, signorina Browne» disse suor Magdalen, allontanandosi. Cathy si sedette e la frangetta le ricadde di nuovo sugli occhi. Guardò l’orologio: mezzogiorno meno venti.
Dio, pensò, venti minuti non bastano! Con questo ritmo sarebbe rimasta in mutande prima dell’intervallo.
Non farti prendere dal panico, si disse, forse le prossime ci metteranno di più. Macché. Il secondo drappello rientrò in classe prima di mezzogiorno. A mezzogiorno e sedici tornò il terzo. Toccava a lei. Il suo gruppo si alzò. Tremava, uscendo dalla porta. Il corridoio era deserto e le cinque ragazzine andarono a spogliarsi in guardaroba senza fiatare. Cathy aprì le cinghie di cuoio dei sandali e, pian piano, iniziò a toglierseli. Aveva il respiro affannoso. Mentre si levava i calzini, i suoi occhi cominciarono a riempirsi di lacrime. All’improvviso nello spogliatoio entrò una donna: graziosa, sì, ma non certo una bellezza da copertina. Per Cathy, però, era bella come un angelo, perché disse: «Spiacente, ragazze, ma il medico è in pausa pranzo, tornatevene in classe e sarete chiamate subito dopo l’intervallo».
Cathy si rivestì per prima. Rientrò in aula e, mentre una di loro spiegava a suor Magdalen cos’era successo, lei rivolse lo sguardo al gigantesco e triste Gesù, mormorando: «Grazie».
Il cortile risuonava di strilli. Più di duecento alunne si godevano la ricreazione. Alcune saltavano la corda, mentre un altro gruppo cantava Down in the valley where the green grass grows.
Erano le ragazze di terza. Quelle di quarta e quinta facevano rimbalzare il pallone sul capanno per le biciclette, cantando Plainy a packet of Rinso, e quelle di prima media ridacchiavano parlando di ragazzi e di chi aveva baciato chi. Cathy Browne, incurante di tutto, escogitava la fuga nascosta dietro al capanno: unica complice, la cugina Ann.
«Perché devi tornare a casa?» le chiese.
«Devo e basta, tutto qui. Adesso vuoi chinarti per favore?»
Ann si piegò per farle da gradino e aiutarla ad arrivare alla sommità del cancello. Cathy allungò la gamba e si aggrappò all’inferriata: «Uno, due e…» Barcollò perché l’altra si era raddrizzata di colpo, dichiarando: «Se ti prendono, ti ammazzano».
«Ann Reddin, vedi di rimanere chinata, altrimenti ti mollo un calcio nel sedere così forte che ti faccio uscire la scarpa dalla bocca!» Era infuriata. La sua complice obbedì.
Ma anche se aveva Cathy in piedi sulla schiena, Ann non teneva il becco chiuso. «Se ti prendono, sarà meglio che tu non mi metta in mezzo!» grugnì, mentre la cugina le si staccava dalla schiena e scavalcava il cancello. I suoi piedi non avevano nemmeno toccato terra che decollarono di nuovo, sfrecciando verso casa. Dopo dieci minuti era sul pianerottolo, davanti alla porta. Aprì la cassetta delle lettere e diede uno strattone al filo di lana azzurra che spuntava fuori. Poco a poco nella fessura comparve la chiave di casa. La fece scivolare in fretta nella serratura ed entrò. Volò verso il lavandino. Le mutande erano asciutte! Si cambiò di gran carriera e nel giro di neanche due minuti stava scendendo le scale a precipizio.
Arrivò a scuola ansimante e sudata. Le ragazze erano ancora in cortile. Ce l’aveva fatta! O no? Adesso non sapeva come rientrare. Che stupida era stata! Si nascose dietro allo stipite della porta del macellaio, accanto all’ingresso principale – ben chiuso – dell’istituto. L’unica persona che ne possedeva la chiave era la direttrice, cioè suor Magdalen, la sua insegnante. Un’automobile lucida rosso vinaccia, che scintillava sotto il sole pomeridiano, le passò davanti, fermandosi all’entrata. Ne scese il medico, che infilò la mano in tasca e prese una chiave. Cathy intravide un filo di speranza. Si chinò e corse a piccoli passi lungo l’inferriata, fino alla colonna. L’uomo stava armeggiando con la serratura. Cathy urlò dentro di sé: Ti prego, non girarti da questa parte… ti prego… ti prego. Lui non lo fece, ma appena la serratura scattò, disse, rivolto al cancello: «Aspetta che risalga, poi abbassati e cammina di fianco all’auto. Andrò piano».
Cathy era sbalordita. Il medico aprì i due enormi battenti e, tornando verso la portiera, la guardò in faccia, sorrise e le strizzò l’occhio! Poco prima di risalire in macchina le disse: «Allora, sei andata a casa a cambiarti le mutande?»
Cathy era allibita: le aveva letto nel pensiero! No, non le aveva letto nel pensiero. Quell’uomo andava in giro per le scuole da quindici anni, e sapeva come andavano le cose. L’auto avanzò piano. Lei si accovacciò e si aggrappò alla maniglia, sgattaiolando dentro. Quando il medico richiuse i battenti, Cathy era già in mezzo al cortile. Lo cercò con gli occhi e lui le sorrise. Agitò una mano. Lui rispose con un cenno del capo. La campanella suonò.
Cathy tirò fuori la lingua più che poteva. Il medico gliela schiacciò col bastoncino di un lecca lecca e le puntò la torcia in fondo alla gola.
«Ancora» disse.
«Aaaaaah».
«Bene». Tolse la stecca e, tenendola tra il pollice e il palmo della mano, la spezzò in due e la gettò nella pattumiera. Scrisse qualcosa nel suo taccuino e le accarezzò la testa.
«Okay, mia piccola fuggiasca, stai bene. Torna pure in classe».
Cathy saltò giù dalla sedia e si diresse verso la porta. Posò la mano sul pomello e si fermò. All’ultimo momento si girò, stringendo ancora la maniglia, e disse: «Dottore?» Lui le dava le spalle, ma si voltò: «Sì?» Lei si ravviò la frangetta e disse: «Grazie!» Il medico sorrise: «È stato un piacere… e, a proposito, belle mutande!»
Cathy ridacchiò, uscì e si avviò verso il guardaroba. Non aveva più rimesso piede in classe dalla ricreazione, dato che lei e le altre quattro ragazze erano andate dritte a farsi visitare. Mentre si rivestiva pensò che il piano aveva funzionato alla perfezione, e che valeva davvero la pena di vivere! Ignorava che, dopo l’intervallo, Ann, non vedendola tornare, si era spaventata. Appena le alunne avevano ripreso posto, sua cugina aveva alzato la mano. Quando suor Magdalen le aveva chiesto cosa voleva, lei, in lacrime, aveva confessato l’accaduto. La frittata era bell’e fatta! Cathy entrò in aula e percepì un’atmosfera di disastro incombente. Tuttavia non la sfiorò il sospetto di esserne la causa, e si sedette al suo banco. Suor Magdalen non disse niente e proseguì con la lezione d’inglese.
Sembrava tutto normale, anche se Cathy continuava a notare strane occhiate da parte delle compagne.
Suonò la campanella che annunciava il termine delle lezioni e l’insegnante assegnò i compiti: «Stasera non dimenticate le domande che vanno dalla sessantacinque alla settanta, sarà la prima cosa che affronteremo domattina. A proposito, signorina Browne, tu rimani qui, ti devo parlare».
La classe si alzò e recitò a voce alta l’Ave Maria. Solo la ragazzina che le stava accanto si accorse della voce tremante di Cathy. Di lì a poco l’aula si svuotò, piombando in un silenzio di tomba. Cathy era rimasta sola, seduta al suo banco. Suor Magdalen, come al solito, aveva accompagnato le altre in fila indiana fino all’ingresso principale, ma sarebbe tornata da un momento all’altro. Cathy sentì lo scalpiccio farsi sempre più vicino. Era così spaventata che le sembrava di avere un chiodo arrugginito in bocca. La suora entrò, chiuse la porta e andò alla cattedra. Senza guardarla aprì il cassetto superiore, in cui si trovavano la Bibbia, il registro delle frequenze – un trattino per gli assenti, un cerchio per i presenti –, una scatola di gessetti e «l’Ira di Dio», una cinghia di pelle larga quattro centimetri, spessa un centimetro e mezzo e lunga trenta. Qualcuno, da qualche parte del mondo, si era seduto di fronte a un tavolo da disegno e aveva concepito quell’arnese al solo e unico scopo di picchiare i bambini. Non serviva a nient’altro, ed era pure un oggetto costoso. La donna non lo tirò fuori, ma infilò la mano nel tiretto. Non l’aveva ancora degnata di uno sguardo, teneva gli occhi fissi sull’Ira di Dio. Fece un respiro profondo. Poi, espirando, domandò: «Signorina Browne, mi piacciono le bugie?»
«No, suor Magdalen». Cathy sapeva cosa impugnava la suora.
«E i bugiardi?» chiese ancora, continuando a fissare la cinghia.
«No, suor Magdalen». Una lacrima le scivolò sulla guancia.
«Vieni qui» intimò l’insegnante, tirando fuori l’Ira di Dio e sbattendola sulla cattedra. La ragazzina si diresse, con passo malfermo, verso la suora che ora la scrutava con espressione torva.
«Cosa si meritano i bugiardi?» chiese a voce bassa e roca.
Cathy chinò la testa e borbottò qualcosa.
«Alza la voce, ragazzina!»
La piccola trasalì di terrore. Ora le lacrime le scorrevano sul viso, colandole giù dal mento tremante. La lunga frangia era umida e appiccicata alle guance.
«L’Ira di Dio» pianse.
«L’Ira di Dio» ripeté la donna. «Quindi non ti conviene mentirmi proprio qui» e indicò il crocifisso, «davanti al Salvatore». Adesso suor Magdalen pareva tremare quanto Cathy. «Allunga la mano» intimò, come se stesse consigliandole di fare la punta alla matita. Lei obbedì e tirò indietro le dita in modo che il palmo teso sporgesse verso l’alto. Chiuse gli occhi.
«Perché hai lasciato la scuola, oggi?»
La domanda era semplice, la riposta imbarazzante. Cathy aveva paura di mentire al cospetto del Salvatore, eppure non riusciva a confessare, la verità non le voleva uscire di bocca. Sciac! Il dolore le si irradiò nel braccio, salendole alla testa e facendole formicolare le dita e il palmo.
«Sono in attesa di una risposta, signorina» dichiarò la suora, sollevando di nuovo la cinghia di pelle.
La ragazzina aprì un occhio. Una figura gigantesca e scura incombeva su di lei, la mano puntata verso il Cielo, la cinghia ciondolante come la lingua di un animale selvatico. Si ritrasse e corse alla porta. Suor Magdalen fu colta alla sprovvista, ma fu abbastanza lesta da acchiapparla prima che riuscisse a scappare. Cathy aveva stretto i pugni e li aveva ficcati sotto le ascelle. La donna la prese per il gomito e la trascinò senza sforzo sul pavimento lucido fino alla cattedra. Buttò a terra l’Ira di Dio e, sempre tenendola ferma, rovistò nel cassetto.
«Ora ti faccio vedere io, signorina… signorina… sciattona!» esclamò, mentre le dita ricomparivano agitando un paio di forbici cromate.
Quando arrivò a casa, Cathy aveva smesso di piangere. Appena fece il suo ingresso nel caos dell’appartamento, sua madre le disse: «La cena è nella pentola, ma fa’ i compiti prima di mangiare. Dove cavolo hai preso quel coso?» Indicò il berretto di lana con pompon che la figlia aveva in testa. Era anche noto come «cappello da scimmia», in onore di Mike Nesbith dei Monkees, il suo gruppo musicale preferito.
«Me l’ha regalato Ann Reddin».
«Be’, mi sembra un affare da scemi» osservò Agnes. Ma sapendo che i ragazzi sono ragazzi, non interferì. «Io vado da Marion. Quando torno a casa voglio trovarti a letto».
Cathy andò in camera e pianse di nuovo.