Mark bussò. Faceva freddo, si gelava. Malgrado avesse chiuso il più possibile i lembi del cappuccio e fatto fare alla sciarpa svariate volte il giro del collo, l’aria penetrava lo stesso. Bussò di nuovo. Udì dei movimenti dall’altra parte, poi uno scatto e l’uscio che si socchiudeva. Mr Wise sbirciò fuori e subito spalancò la porta.
«Mark! Vieni dentro prima di congelarti».
Il ragazzo entrò, e Mr Wise chiuse subito la porta per non fare entrare il freddo. Andarono in salotto, dove c’era il camino acceso.
«Togliti il cappotto, figliolo».
«Ah, non c’è problema, Mr Wise, sono passato solo un momento».
«Toglitelo lo stesso, altrimenti sarà come non averlo addosso quando uscirai».
Mark se lo tolse.
«Allora, qual buon vento ti porta dalle mie parti durante le vacanze?» Mr Wise si sedette sulla poltrona, Mark su una sedia.
«Mr Wise… lei conosce un sacco di gente importante, vero?»
«Vero. Alcuni che lo sono davvero, altri che credono di esserlo».
«Già… be’… vorrei comprare un biglietto per il concerto di Cliff Richard a mia madre, e mi chiedevo se lei conosce qualcuno che può rimediarmene uno».
«Chi è Cliff Richard?»
«Non sa chi è Cliff ? Lei dev’essere l’unica persona in Irlanda a non saperlo. È un cantante».
«Oh! Be’, i nomi non sono il mio forte. Dunque, fammi
pensare! Chi conosco?» Chiuse gli occhi e appoggiò la tempia al pollice e al medio. Dopo qualche istante ritrasse la mano e si strinse nelle spalle. «No! Non mi viene in mente nessuno, Mark, mi dispiace». Pareva dispiaciuto sul serio.
«Non c’è problema. Pensavo che poteva essere una buona idea, tutto qui».
Mark fece per rimettersi il cappotto. Mr Wise si alzò e puntò un dito in aria.
«Però ho un’idea».
«Quale?»
«Perché non ti fai fare un autografo per tua madre?»
«Un’auto-frego? E cos’è?»
«Se vai al teatro con un taccuino, magari durante il giorno, lui ti ci metterà una firma. E se gli spieghi la situazione, potrebbe perfino scrivere due o tre righe per tua madre».
«Lo farebbe davvero?»
«Val la pena di tentare, no?»
Mark sorrise. «Sì, altroché, Mr Wise. Grazie tante».
Si abbottonò il cappotto e Mr Wise lo accompagnò alla porta. Ma prima di andarsene Mark tirò fuori dalla tasca un pacco regalo e glielo consegnò.
«Senta, lo so che non ci crede, ma… ecco, buon Natale comunque».
Il vecchio prese il regalo e gli strinse la mano. «Un felice Natale anche a te, figliolo, grazie».
Mark uscì e la porta si chiuse alle sue spalle. Da lì al Capitol erano solo quindici minuti a piedi. Camminò di gran carriera per scaldarsi. Era felice di aver dato il dopobarba a Mr Wise: sua madre non lo aveva mai usato, nemmeno una volta! Da Eason comprò un taccuino, poi, a passo svelto, colmò il breve tratto di strada che lo separava dalla biglietteria del teatro. C’era la stessa ragazza che aveva accolto Agnes dieci giorni prima. La testa di Mark spuntava a malapena dal bancone.
«Ehi, signorina!» chiamò.
La ragazza, assorta nella lettura di una rivista, alzò gli occhi. «Che vuoi?»
«Dì a Cliff Richard che gli voglio parlare».
«Come? Col cavolo che glielo dico!»
«Perché no?»
«Non è che molla tutto ed esce a parlare con uno stronzetto come te!»
«Bene, d’accordo. Allora qual è la sua porta? Andrò io da lui».
«Va’ a farti fottere da qualche altra parte. Avanti, smamma!»
«Ehi, voglio solo il suo auto-frego su questo». Mark spinse il taccuino verso di lei. La ragazza era tornata alla rivista e lo ignorò. Lui insistette.
«Ehi! Dai, digli che è per mia madre, si chiama Agnes. Chiedigli di scriverle un messaggio».
Lei si sporse in avanti e chiamò: «ARTHUR! Arthur, vieni un po’ qui!» Le doppie porte del teatro si aprirono, e un grassone in divisa militare venne fuori a passo di marcia.
«Che succede, Gillian?» chiese con voce cavernosa.
«Questo stronzetto… non vuole andarsene, mi sta dando il tormento».
Mark alzò la testa e sorrise all’usciere. «Salve! Dovrei far mettere una firma a Cliff Richard su questo». Porse il taccuino all’uomo, e quello lo agguantò, lo spezzò e lo buttò nel cestino dell’ingresso. Dopodiché, secondo la gloriosa tradizione dei buttafuori, disse: «Okay, figliolo! Adesso vaffanculo! Aria!»
Sbigottito, Mark fissò la pattumiera. L’usciere gli si avvicinò per spingerlo fuori, ma lui lo affrontò.
L’omone, in piedi a gambe divaricate e con le mani appoggiate sui fianchi, vide la rabbia sul suo volto e sorrise. «Senti, figliolo, non mi scocciare. E adesso smamma!»
Il piede di Mark si mosse più in fretta di quanto l’usciere si aspettasse, e colpì un punto delicato in mezzo alle gambe.
«Ahh… bastardo!» urlò l’omone, paonazzo. Mark corse verso l’uscita, e incontrò il primo problema. Come molti teatri, il Capitol aveva sei porte di vetro, e durante le ore d’ufficio ne rimaneva aperta solo una, ma Mark non ricordava da quale era entrato. Puntò verso quella all’estrema sinistra. Sbagliato! Passò alla successiva. Chiusa! Quella dopo era la via verso la libertà, ma l’usciere lo precedette.
«Bene, signor bulletto dei miei coglioni, provaci ancora».
Mark aveva incontrato il secondo problema.
Nel tempo impiegato da Mark per tornare a casa, il suo occhio sinistro si era chiuso quasi del tutto, e aveva cominciato a cambiare colore: dal porpora era passato al nero. Quello era stato il primo colpo, poi Mark era caduto sul freddo pavimento di mattonelle. Le scintillanti scarpe di cuoio nero dell’usciere gli avevano coperto di lividi la schiena e il petto. Mark aveva zoppicato fino all’appartamento. Agnes lanciò un urlo vedendolo in quello stato.
«Che ti è successo?» Corse da lui.
«Una scazzottata… niente di che».
«Hai male?»
«No, sto bene» mentì.
Dermot balzò in piedi dalla sedia davanti alla tivù. «Gesù, che spettacolo. Chi ha vinto?»
«È finita pari».
«Chi è stato, Marko? Mallet Maguire?» Dermot certe cose le sapeva.
«No, un tizio di Pearse Street».
Agnes si voltò di scatto verso di lui. «Sta’ lontano da Pearse Street. Lì usano i coltelli, mi hai sentito?»
«Sì, mamma, ti ho sentito».
Andò in camera e si sdraiò. Dermot lo seguì e si sedette sulla sponda del letto. Guardò il fratello e sorrise. «Allora, Marko, com’è andata? Chi te l’ha data, ’sta lezione?»
Mark gli raccontò tutto.