1.

Dublino, 1970

 

Seduto sull’alto sgabello dietro al podio, al centro del pal­coscenico, Pat Muldoon osservò la platea che aveva davanti. Era uno spettacolo impressionante. Un pubblico di almeno cinquecento persone, tutte rivolte verso di lui, a testa china. Il silenzio era inquietante, l’unico rumore in quella sala gre­mita era il ronzio della macchina del bingo che mescolava le biglie numerate e le infilava a caso nel canale. Pat Mul­doon chiamava i numeri del bingo alla St Francis Xavier Hall dal 1962. In quegli otto anni non aveva mai visto il montepremi raggiungere l’enorme somma di quella sera. Il cartello improvvisato fuori dalla sala annunciava la cifra re­cord: MONTEPREMI DI 615 STERLINE – ANCORA 53 CHIAMATE! Sapeva che sarebbe stato vinto quella sera. Il primo a gridare «Controllo!» prima dell’estrazione del cinquantatreesimo numero avrebbe fatto man bassa. Lesse il numero sulla bi­glia che aveva in mano e gridò: «Quattro e quattro: qua­rantaquattro!»

Le serate del bingo alla Francis Xavier Hall, ogni merco­ledì e venerdì, di solito attiravano duecentocinquanta-tre­cento persone. Era stata l’entità del montepremi ad aver raddoppiato la folla nelle ultime tre settimane. Furono prese in prestito altre sedie dal centro ricreativo per acco­gliere il flusso di estranei arrivati da ogni angolo di Du­blino. Ciò nonostante, i giocatori abituali che sedevano sulle stesse sedie tutti i mercoledì e i venerdì di ogni setti­mana non ne furono in alcun modo disturbati – cosa im­portante, dato che sarebbero rimasti solo loro quando il montepremi fosse sceso di nuovo a cento sterline.

A circa due terzi della sala, verso il fondo e vicino al ga­binetto, era seduta Agnes Browne col suo allegro gruppo di sei persone. Accanto ad Agnes c’era Carmel Dowdall, vi­cina di casa di Agnes a James Larkin Court. Come Agnes, Carmel aveva una figlia di tredici anni. E per coincidenza entrambe le ragazze si chiamavano Cathy, ed erano intime amiche sia fuori che dentro la scuola. Seduta accanto a Car­mel, c’era una donna grassa, dal viso rubizzo, con la corpo­ratura di un uomo, e che, per di più, indossava il cappotto del marito. Era Nelly Robinson. Amica di vecchia data di Agnes, Nelly era un’ambulante di Moore Street, col banco a non più di quindici metri dal posto di Agnes. Sedute da­vanti a loro, stavano le gemelle di Nelly, note a tutti gli am­bulanti con gli affettuosi nomignoli di Splish e Splash. Le gemelle erano cresciute bene ma, benché parecchio carine, all’età di diciannove anni ancora non erano riuscite ad ac­caparrarsi un marito o un fidanzato fisso – forse perché, a causa della lisca che avevano tutte e due, non erano capaci di dire «Sei bellissimo» senza coprire di saliva il loro cor­teggiatore. Infine c’era un uomo anziano, Bunnie Morris­sey. Agnes e le altre conoscevano Bunnie solo per le serate al bingo. Vedovo da tempo, Bunnie, alla stregua di molti al­tri, usava il bingo come pretesto per uscire la sera. Arrivava ogni mercoledì e venerdì con una busta della spesa di pla­stica variopinta, da cui tirava fuori la cartella, la graffetta, le due penne da bingo – una rossa, una nera – e, per ultima, una logora pantofola scozzese spaiata.

Quest’ultimo oggetto aveva una storia interessante. Due anni prima, mentre scendeva dalle scale del suo ap­partamentino da pensionato di Dorset Street, Bunnie era scivolato, slogandosi la caviglia. A causa del conseguente gonfiore, Bunnie non era riuscito a infilare il piede nella scarpa destra. Perciò quella sera era arrivato al bingo con una scarpa sola, al piede sinistro, e con quella pantofola al piede destro gonfio. Dopo quindici anni di partite di bingo, quella fu la prima volta in cui Bunnie vinse qual­cosa – rimediò quindici sterline per aver fatto bingo, e du­rante il paio di secondi che impiegò a gridare «Controllo!» fu al centro dell’attenzione della sala. Da allora Bunnie non aveva mai iniziato una partita di bingo senza per prima cosa togliersi la scarpa destra e infilarsi la malconcia pantofola portafortuna. Purtroppo però, da quella volta, Bunnie non era più riuscito a vincere un solo centesimo, e tutte le serate terminavano con lui che scagliava la panto­fola nella busta di plastica, grugnendo: «Pantofola porta­fortuna, coglione che non sono altro!» Eppure la pantofola saltava sempre fuori, immancabile, prima di ogni partita di bingo.

«Uno e sette... diciassette». Mr Muldoon chiamò il do­dicesimo numero.

All’improvviso si levò un grido: «Controllo!», e tutte le teste si sollevarono all’unisono, guardando in direzione della mano alzata che stringeva la cartella color salmone e reclamava il premio per la cinquina.

«Solo al dodicesimo numero? Ma è presto» rifletté Agnes ad alta voce.

«Già, infatti, troppo presto» replicò Nelly, mentre en­trambe guardavano la mano alzata.

«Chi è?» chiese Carmel.

«La tizia con i denti gialli di Sheriff Street, Clarke, credo si chiami. Il marito fa i telegrammi, monta sempre in mo­tocicletta» Agnes informò il gruppo.

«Ho sentito dire che non è l’unica cosa che monta» pre­cisò Nelly, e tutti scoppiarono a ridere.

Lo scoppio di ilarità attirò lo sguardo della vincitrice, Mrs Clarke. Agnes incontrò i suoi occhi e le fece un cenno con la mano, sorridendole. «Prendi e porta a casa!» gridò. La donna sorrise e ricambiò il saluto.

Bunnie era troppo spazientito per ridere con gli altri. «Ho segnato a malapena un numero, porcaccia la miseria!» brontolò.

Anche le gemelle erano preoccupate.

«Mamma, ha chiamato il trentasssei?» chiese Splish, spruz­zando saliva sulle ginocchia di Agnes.

«No, non ancora. Non credo».

«Bunnie, sai se ha chiamato il trentasssei?» riprovò Splish.

«Che me lo chiedi a fare» rispose brusco Bunnie, ancora contrariato dalla sua malasorte. «Ho beccato a malapena un numero, porcaccia la miseria!» A sentirlo, sembrava quasi che la colpa fosse di Splish.

Seguì un breve intervallo durante il quale sarebbe stata controllata la cinquina. Con soli dodici numeri estratti, tutti ora pensavano che il montepremi sarebbe stato vinto davvero quella sera. Agnes approfittò dell’intervallo per ac­cendersi una sigaretta, come gran parte degli altri giocatori. La sala era percorsa dall’eccitazione, tutti se ne rendevano conto: una cinquina anticipata significava che il montepremi sarebbe andato.

Agnes spense il fiammifero ed espirò la prima boccata, poi, togliendosi un pezzo di tabacco dalla lingua, si voltò verso Carmel.

«Sai» dichiarò a un tratto, «la tua Cathy parla come uno scaricatore di porto».

«Che, Agnes?» chiese Carmel, che non aveva afferrato.

«La tua Cathy... parla come uno scaricatore di porto».

Carmel rifletté per un momento, poi iniziò ad annuire. «Sai, Agnes, hai ragione. È terribile, cazzo. E per di più è una stronzetta impertinente. Penso che abbia preso questo parlare sporco dagli O’Brien, all’ottantuno, rottinculo che non sono altro».

La macchina del bingo iniziò a ruotare di nuovo e, men­tre il pubblico si preparava, Mr Muldoon chiamò: «An­diamo per la tombola e per il montepremi. Occhio, il primo numero è...»

Ogni penna presente in sala rimase sospesa a mezz’aria, l’elettricità suscitata dall’attesa era tanto forte che quasi se ne sentiva il ronzio.

«Due grassone: ottantotto».

Dopo altri otto numeri, Agnes era riuscita a spuntarne sette. Nelly, che aveva notato il costante movimento della penna di Agnes, le bisbigliò: «Gesù, Agnes, vai come il vento».

«Lo so. Chiudi il becco, che mi rovini tutto!»

«Buon per te. Io non ho nemmeno un numero, merda» intervenne Bunnie.

«Sssh» disse Agnes quando Mr Muldoon chiamò il nu­mero successivo.

«Se lo meritava? Due e sei: ventisei».

Agnes non aveva il ventisei – e non aveva nemmeno i sei numeri seguenti. Ma nel corso delle successive quindici chia­mate spuntò in continuazione, e per un paio di volte due o tre numeri di fila, finché d’un tratto si rese conto che la sua cartella stava iniziando a riempirsi, e quando restavano solo quattro estrazioni a lei mancava un solo numero. Il sette.

«Gesù, vado per uno!» disse, a nessuno in particolare.

«Agnes va per uno» le fece eco Carmel, passando parola.

«Oh, mamma, sono così nervosa!» borbottò Splish, cap­tando l’improvvisa tensione.

«Su, dai... sette» disse Agnes con fervore, come se stesse pregando.

«Due anatroccoli: ventidue».

«Sette, sette... dai, sette» salmodiava adesso Agnes.

«Prendilo, Signore... Prendilo!... Oh, gesussanto, Agnes». Era Carmel.

«Chiudi il becco, chiudi il becco! Dai, sette».

«Mancano solo due chiamate» disse Bunnie, «e vado an­cora per tre. Sono fuori gioco».

«Il più alto: novanta».

Agnes si mise la mano sulla fronte ormai sudata. «Ah, ma che ti succede, Signore mio! Dai, il sette».

«E questa è l’ultima chiamata per il montepremi...»

«Solo soletto, il numero sette, ti prego, Dio. Solo soletto il numero sette» gemette Agnes.

«Solo soletto...»

«Sì! Sì! Dillo... Sette!»

«... il numero quattro».

Ci fu un istante di silenzio mentre tutti trattenevano il respiro e aspettavano l’inevitabile grido di «Controllo!». Ma non arrivò. Quasi nessuno, tranne chi le era accanto, sentì i gemiti di Agnes. Il non-evento fu accolto da un misto di sospiri, lamentele e risatine. L’enorme montepremi sarebbe stato di nuovo lì il venerdì dopo – solo che sarebbe stato an­cora più alto e, con le chiamate salite a cinquantaquattro, doveva per forza essere vinto.

Mr Muldoon proseguì, chiedendosi dove sarebbe andato a prendere le sedie in più che sarebbero servite per la riu­nione del venerdì.

«A qualcuno porta sfortuna: tredici».

Ancora nessun grido. Anche se il montepremi ormai era andato, c’era ancora la tombola, che valeva cinquanta ster­line. Non era da buttare via, non era affatto da buttare via.

«Un anatroccolo... il numero due».

Il tentativo di Bunnie Morrissey di balzare in piedi in­contrò un ostacolo. Spingendo con tutto il suo peso sullo schienale, nello sforzo di saltar su, spaccò la sedia e, men­tre questa andava in frantumi e crollava per terra, lui cadde all’indietro. La gamba destra schizzò in alto come la lama di un coltello a serramanico, facendo volare la pan­tofola portafortuna dall’altra parte della sala, dove colpì una donna anziana in pieno viso, spiaccicandole il sidro sulla bocca truccata e mandando schegge in tutte le dire­zioni. Mentre Bunnie sbatteva la testa per terra, gli venne fuori un «Controllo!» gorgogliato in modo a malapena udibile.

Mr Muldoon, non capendo cosa stava succedendo e pensando che si trattasse solo di un po’ di trambusto, sbottò: «State zitti laggiù, per favore».

Al che Bunnie, adesso supino, con braccia e gambe di­varicate, la penna da bingo a tre metri da lui, un braccio al­zato, perpendicolare al corpo, e la cartella stretta in mano,

gridò: «Controllo! Per la miseria, controllo!»

«Abbiamo un controllo da fare in mezzo alla sala».

Agnes guardò Bunnie e si alzò in piedi. Per un momento Bunnie pensò che stesse per mollargli un ceffone, invece si mise le mani sui fianchi ed esclamò: «Bunnie Morrissey, vec­chio stronzo!»

 

Nei tre anni trascorsi dalla prematura morte di Rosso Browne, la sua vedova Agnes e i sette figli avevano prospe­rato. Mark, il maggiore, continuava il suo apprendistato da falegname; Frankie era un bel ragazzo di sedici anni, anche se talvolta era difficile rendersene conto, perché si era rasato la testa, indossava una camicia scozzese e jeans larghi dal di­segno analogo, tagliati tra il ginocchio e la caviglia a mo­strare calzini scozzesi, sopra i quali indossava un paio di scarponi Doctor Marten’s rosso sangue. Era la moda degli skinhead. Il movimento aveva avuto inizio in Gran Breta­gna, con gruppi di giovani bianchi che trascorrevano le se­rate a bere sidro e a ballare al ritmo della musica reggae, per poi, come branchi di lupi, andare a caccia di pachistani, in­diani, sudamericani e gente di colore di ogni razza o credo, per pestarli. Frankie e la banda di teppisti cui si accompa­gnava erano a corto di bersagli. Dublino non aveva una po­polazione di indiani, sudamericani o, più in generale, di persone di colore, perciò erano gli omosessuali a fare le spese di tutto. E se non riuscivano a imbattersi in un omo­sessuale, quelle bande si accontentavano di chiunque appa­risse debole – quantomeno più di loro. Frankie Browne non se ne rendeva nemmeno conto, ma era un neonazista.

Il che poneva qualche serio problema al fratello minore, Rory. Appena raggiunta l’età lavorativa di quattordici anni, Rory aveva lasciato la scuola, e ormai da un anno era ap­prendista presso un parrucchiere. Ogni lunedì Rory vedeva arrivare i suoi colleghi e amici pieni di lividi e cicatrici per le aggressioni subite dalle bande di skinhead durante il fine settimana – per uno skinhead tutti i parrucchieri erano froci. Lui si concentrava sul suo lavoro, che amava, e ogni sera tornava a casa a piedi, facendo molta attenzione. Par­lava poco con Frankie e si fidava di lui ancor meno.

Dermot Browne invece era amico di tutti – scoppiava di energia, pieno di risate e sempre intento a qualche furta­rello. I suoi capelli biondi come l’oro brillavano sotto il sole mentre sfrecciava per il campo di calcio facendo sfoggio della sua abilità. Era popolare anche tra le ragazze. La sua carnagione chiara e gli occhi azzurri sorridenti facevano battere il cuore di gran parte delle amiche della sorella Cathy.

Purtroppo, non si poteva dire altrettanto del gemello di Dermot, Simon. Anche se, crescendo, balbettava di meno, lo strabismo dell’occhio sinistro era ancora lì, e an­cora evidente. Ciò gli fece guadagnare il soprannome di «Occhio Rintronato». Come Dermot, Simon frequentava il primo anno all’Istituto Tecnico St Declan. Ma a diffe­renza di Dermot, che sembrava eccellere in qualsiasi cosa, Simon doveva ancora scoprire il talento della sua vita. Non era la falegnameria. Pareva incapace di disegnare una riga dritta, e una volta per poco non si era tagliato il brac­cio sinistro con la sega. Non era la metallurgia. A scuola non gli fu più permesso usare il cannello per le saldature dopo che ebbe saldato un angolare di ferro nella morsa. L’unica cosa in cui era bravo era la religione. Amava pre­gare e si sentiva sicuro solo nel silenzio della chiesa, dove sedeva per ore e ore in solitudine. Il suo insegnante di re­ligione pensava che potesse addirittura avere la vocazione. Un altro dei suoi talenti era quello di trovare le cose. Agnes chiamava Simon il suo piccolo Sant’Antonio, e ogni volta che qualcosa andava perduto, Agnes diceva: «Aspettiamo che torni a casa Simon, lui la troverà». E in­fatti, entro pochi minuti dal suo ritorno, Simon recupe­rava l’oggetto smarrito.

Cathy Browne, a tredici anni, frequentava la terza me­dia, l’ultimo anno, alla Scuola Femminile Madre della Di­vina Provvidenza. Dopo lo scontro con suor Mary Magda­len, tre anni prima, Cathy fu lasciata più o meno in pace, e iniziò ad andare tanto bene a scuola che aveva pensato di iscriversi al liceo, cosa che mai nessun Browne aveva fatto prima di allora.

Trevor, a sei anni, stava ripetendo la prima elementare. Aveva fatto anche due anni di asilo. Veniva definito «tardo», un termine di cui Agnes non afferrava bene il significato. La maestra di Trevor, Miss Thomas, una volta aveva chiesto ad Agnes se ci fosse stato qualche caso di dislessia in fami­glia, e Agnes, pensando che si trattasse di una malattia tro­picale, aveva risposto indignata: «Certo che no! Poco ma si­curo che non sono mai usciti dal paese».

La stessa Agnes sembrava in gran forma. Le cose erano migliorate molto negli ultimi due anni, con Mark e Rory che portavano entrambi uno stipendio a casa. Ogni setti­mana Rory consegnava due sterline e Mark nove, che era solo un quindicesimo della sua paga. Il televisore in bianco e nero che Mark aveva noleggiato nel 1967 adesso era stato sostituito da un apparecchio a colori. Il salotto ed entrambe le camere da letto dell’appartamento erano state rivestite di tappeti, e anche se la cucina aveva ancora il linoleum, si trat­tava di un buon linoleum elastico, non di quelli che scric­chiolavano quando ci si camminava sopra. E adesso che po­teva permetterselo, Agnes andava a farsi i capelli una volta al mese. Andava al Wash & Blow, il salone dove Rory lavorava come apprendista e dove lei otteneva un venti per cento di sconto grazie al figlio. È sorprendente come una messa in piega riesca a tirare su il morale di una donna.

Era proprio a questo che Agnes stava pensando mentre si passava lenta la spazzola tra i capelli corvini. Si sorrise allo specchio. Pensava a Bunnie Morrissey e a quanto era stato buffo, la sera prima, vederlo giù per terra a gridare «Con­trollo!» Ridacchiò tra sé. Fuori, all’ingresso, sentì il tintin­nio della buca delle lettere e il flap della posta che atterrava sullo zerbino. Appoggiò la spazzola sulla toeletta, andò al­l’ingresso e raccolse la posta. La mise sotto braccio e si av­vicinò al bollitore per prepararsi una tazza di tè. Portò la tazza sul tavolo della cucina, si accese una sigaretta e iniziò ad aprire la posta.

C’erano tre lettere quella mattina. La busta azzurra con i bordi a strisce rosse e blu navy e il francobollo canadese era facilmente riconoscibile: veniva dalla sorella di Agnes, Dolly. No, non più Dolly, adesso era Dolores, Mrs Dolo­res Gowland. Agnes sorrise tra sé. Dolly era emigrata a To­ronto quindici anni prima, nel 1955, e per i primi due o tre anni aveva firmato tutte le sue lettere Dolly. Nel 1957 aveva iniziato a uscire con Larry Gowland, che lavorava «in banca, nientemeno», e dopo un corteggiamento di tre anni aveva sposato il pover’uomo. Fu così che, dal 1960 in poi, Dolly Redden aveva firmato tutte le sue lettere Dolores Gowland.

Quando Agnes ebbe aperto la busta e il foglio, le due banconote nuove da venti dollari che accompagnavano sempre le lettere di Dolly caddero sul tavolo. «Dio ti bene­dica, Dolly» disse Agnes ad alta voce. La lettera era piena delle solite notizie su come i due figli di Dolly, Jason e Me­lissa, andassero a scuola, e delle ultime novità riguardo all’irrefrenabile ascesa di Larry ai vertici della banca. Agnes si chiese quale malattia avesse Dolly questo mese – Dolly era ipocondriaca. La trovò nel terzo paragrafo: dermatite. Agnes lesse la parola e la ripeté un paio di volte tra sé: «Dermatite, der-ma-ti-te». Alzò gli occhi dalla lettera e li posò su Mark e Dermot che sedevano di traverso sul divano, rivolti l’uno verso l’altro.

«Mark!» chiamò.

«Sì, mamma».

«Cos’è la dermatite?»

Al suo posto rispose Dermot: «È qualcosa che viene agli stranieri perché non si puliscono bene il culo». Mark e Der­mot si sbellicarono dalle risate.

Agnes disse: «Non essere disgustoso, marmocchio» ma sor­rise anche lei.

«È vero, lo giuro» disse Dermot, che giurava sempre, a ogni piè sospinto.

«È vero, Mark?» chiese Agnes.

Mark scosse la testa, ancora ridacchiando. «A essere sin­cero, mamma, non lo so».

Agnes tornò alla lettera, adesso con un cipiglio che le in­crespava la fronte mentre si chiedeva che genere di sudice abitudini avesse preso la sorella da quando era emigrata in Canada.

Il motivo per cui Mark e Dermot erano seduti sul di­vano, uno di fronte all’altro, era il test. Il test era l’esame fi­nale che Mark avrebbe sostenuto all’istituto tecnico. Ormai diciassettenne, Mark aveva trascorso gli ultimi tre anni a frequentare una scuola di falegnameria part-time, mentre ancora lavorava come apprendista alla Fabbrica di Mobili Wise & Co., fondata nel 1940. Da quando era entrato nella fabbrica di Wise, più di due anni e mezzo prima, Mark aveva lavorato sodo, applicandosi nella sua attività. Amava il suo mestiere. Ogni mattina, quando andava al la­voro, fischiettava e si dedicava anima e corpo a qualsiasi compito assegnatogli da Mr Wise. Mentre lavorava sul le­gno ricurvo da cui si ricavavano gli schienali e le gambe delle sedie a forma di artiglio stretto su una sfera, il suo en­tusiasmo era quello di un artista dedito alla sua opera. In ef­fetti, alcuni degli oggetti realizzati, benché con soli due anni e mezzo di esperienza alle spalle, avevano riempito Mr Wise d’orgoglio per il suo giovane fenomeno. Anche se a Mark mancava ancora un anno e mezzo di pratica prima di diplomarsi, in molte occasioni Mr Wise aveva detto ad Agnes che Mark era abile quanto alcuni degli artigiani più esperti, e più alto e più robusto della maggior parte di loro. A soli diciassette anni, Mark superava già di più di tre cen­timetri il metro e ottanta, e quando iniziò a irrobustirsi po­teva essere definito quel che si dice un bell’esemplare.

Il piccolo Dermot, invece, aveva preso gli ormoni della crescita dal ramo materno della famiglia. Paragonato agli altri ragazzi di quattordici anni, Dermot era basso e magro. Quando lo descriveva agli estranei, Agnes diceva: «L’elastico delle sue mutande non basterebbe per fare un paio di giar­rettiere a un canarino». Dopodiché aggiungeva che, però, compensava ogni carenza fisica con un’astuzia sottile, con l’ingegno e l’inventiva. Perché Dermot Browne era tanto scafato che c’era da credere che quel termine fosse stato co­niato per lui.

Per un momento Agnes osservò i due ragazzi. C’era un legame tra loro che superava i trentuno mesi di età che li se­paravano. Lo vedeva negli occhi di Dermot – brillavano di ammirazione mentre ascoltava ogni parola pronunciata dal fratello maggiore, come se ognuna di esse fosse un’indi­menticabile perla di saggezza. Lo vedeva nel sorriso radioso di Mark ogni volta che Dermot entrava in una stanza, e lo sentiva nelle loro risate mentre ripercorrevano gli eventi della giornata, che Mark trascorreva da Wise e Dermot al­l’Istituto Tecnico St Declan. I racconti erano esagerati e ti­rati per le lunghe, ma non aveva importanza, perché il di­vertimento stava nel racconto stesso e non nella realtà dei fatti.

Riportando la sua attenzione sulla posta, Agnes piegò i biglietti da venti dollari e li infilò con cura nel borsellino. Li avrebbe cambiati più tardi all’ufficio postale, incassando trentadue sterline. La seconda lettera era di Mr Cart­wright, il preside dell’Istituto Tecnico St Declan, dove Frankie, Dermot e Simon studiavano. La comunicazione riguardava Frankie e la sua frequenza – o meglio, la sua as­senza. Mr Cartwright sottolineò che la sua pazienza con Frankie era ormai giunta al limite, e suggerì ad Agnes di fargli visita al più presto possibile per parlare del ragazzo. Agnes appoggiò la testa sulla mano e sospirò. Non riusciva a capire cosa c’era che non andasse in Frankie. Dei suoi sei figli era quello con cui si comportava in modo più acco­modante. Eppure lui sembrava non essere mai contento. Molte volte Agnes aveva fatto finta di niente davanti ai modi ribelli di Frankie. Ma più lei era arrendevole, più lui peggiorava. C’era grande attrito tra Mark e Frankie, anche se i ragazzi, e soprattutto Mark, evitavano ogni manifesta­zione di reciproca ostilità davanti ad Agnes. Frankie en­trava e usciva a piacimento, e di rado Mark parlava con lui,

o di lui. Mark alzò gli occhi dal suo manuale e vide l’espressione turbata sul volto di Agnes. «Che succede, mamma?» «Frankie ha di nuovo marinato la scuola» replicò lei, il

cuore pesante.

«Di nuovo?»

«Sì, tesoro... di nuovo».

Dermot si alzò e lasciò la stanza in silenzio, borbottando che andava al gabinetto. Non aveva un gran bisogno di an­darci, ma provava la vaga sensazione che se fosse rimasto lì sarebbe stato chiamato a testimone. E i Browne non fanno la spia.

Mark chiuse il libro, si avvicinò al tavolo e si sedette di fronte alla madre.

«Mamma, non voglio fare la spia, ma, maledizione, devi sapere che passa il tempo con quelle canaglie, gironzola tutto il giorno per strada, entrando e uscendo dalle botte­ghe degli allibratori».

«Allibratori! E dove li trova i soldi?» chiese Agnes.

Mark distolse lo sguardo. «Questo me lo devi dire tu, mamma».

Sapevano entrambi dove li trovava, i soldi. La maggior parte delle mattine, il borsellino di Agnes era un po’ più leggero della sera prima. Con sette figli, era difficile accu­sarne uno – tutti avevano le mani un po’ lunghe – ma in cuor suo Agnes sapeva che la mezza corona o i due scellini che sparivano ogni giorno finivano nelle tasche di Frankie. Non osava accusarlo apertamente, e nemmeno dar voce ai suoi sospetti, perché sapeva che Mark si sarebbe avventato contro di lui, e ricordava bene, dai tempi dell’infanzia, che non c’era nulla di più brutto di una lite in famiglia.

«Vuoi che gli parli io?» chiese Mark, anche se conosceva già la risposta.

«No. Cristo, no. Gli parlerò io stessa» ribatté lei in fretta – troppo in fretta.

«Be’, sarà meglio che tu lo faccia, mamma, perché ne ho abbastanza di lui! Non mi dispiace darti i miei soldi, ma sono per la casa, e per i più piccoli, non per gli allibratori o per il sidro».

Mentre parlava, Mark si alzò, tornò al divano – dove ri­prese il suo manuale – e ricominciò a studiare.

Era un’accusa esplicita, ma Agnes lasciò correre. Non poteva proprio difendere Frankie. Agnes si appuntò men­talmente di passare il giorno dopo al St Declan per parlare col preside. Ripiegò il foglio, lo infilò nella tasca del grem­biule e rivolse la sua attenzione all’ultima lettera.

Aveva uno stemma sulla busta: i tre castelli di Dublino. Sapeva quindi che proveniva dal Comune, anche se la cosa la sconcertava un po’. L’unica volta che aveva ricevuto una lettera dal Comune di Dublino era stata quando aveva avuto degli affitti arretrati da pagare. Ma adesso era in re­gola, e lo era stata anche l’anno passato. Strappò il lembo della busta e tirò fuori una lettera dall’aspetto molto uffi­ciale. Che diceva:

 

Gentile Inquilino,

il Comune di Dublino ha il piacere di annunciarle la messa in opera del Piano di Rinnovamento del Centro Storico. Il progetto a lungo termine prevede la demoli­zione delle case popolari del centro storico.

Il progetto verrà realizzato nei prossimi cinque anni ed eseguito zona per zona. (Una mappa delle zone è dispo­nibile per la consultazione presso gli Uffici della Sezione Edilizia del Comune di Dublino.)

L’area che comprende Lower Gardiner Street, Sean McDermott Street West, St Jarlath’s Street, James Larkin Court e James Larkin Road è la Prima Zona.

La demolizione di questa zona avrà inizio nel luglio del 1970. Ai residenti saranno forniti nuovi alloggi presso immobili ultramoderni in periferia, che verranno costruiti a Cabra, Dublino 7; a Finglas, Dublino 11; e a Coolock, Dublino 5. Le case e le zone sono state assegnate alle fa­miglie dopo un’estrazione a sorte, e a voi è toccata:

43, Wolfe Tone Grove,

Finglas Ovest,

Dublino 11.

Tutte le case sono a due piani con tre camere da letto, un salotto, un bagno, un gabinetto, cucina e giardino an­teriore e posteriore.

A nome del Sindaco e del Consiglio Comunale di Du­blino, vi auguro buona fortuna nella vostra nuova casa.

Distinti saluti,

James Jackson

Funzionario della Sezione Edilizia

Comune di Dublino

 

«Madre di Gesù!» esclamò Agnes.

«Che c’è?» chiese Mark.

«Ci buttano fuori».

«Ci buttano fuori? Che significa ci buttano fuori?»

Sconvolta, Agnes guardò Mark. «Stanno per demolire il palazzo... e ci mandano a vivere in campagna!»