Quando, alle quattro del mattino successivo, la sveglia suonò a tutto volume, Agnes allungò il braccio e lo mosse a tentoni sul comodino prima di far atterrare la mano sulla sveglia e spegnerla. Non riusciva ad aprire gli occhi, sembrava che le palpebre le si fossero incollate. Aveva dormito solo tre ore, dopo aver aspettato Frankie fino all’una per cercare di parlargli. A quell’ora non era ancora rientrato, perciò lei era andata a letto.
Si alzò con calma e puntò di nuovo la sveglia alle sei e trenta. Mentre andava in bagno, entrò in punta di piedi nella camera da letto dei figli e appoggiò con delicatezza l’orologio ticchettante accanto a Mark. I ragazzi ora avevano un materasso ciascuno, grazie a Mark. Aveva comprato del legno di pino piallato e un po’ di resistente tessuto a strisce da Mr Wise a un prezzo all’ingrosso, e la stanza adesso aveva sei letti a muro, tre da un lato e tre dall’altro. Dormivano tutti e sei. Agnes dovette allungarsi un po’ per guardare nel letto di Frankie. Stava dormendo anche lui, e il naso di lei formicolò nel sentire l’odore di sidro stantio. Per di più, era vestito. Si morse il labbro inferiore e chiuse gli occhi, poi sospirò e lasciò la stanza, chiudendosi piano la porta alle spalle.
Dopodiché si ritrovò impegnata nelle solite faccende mattutine. Iniziò a preparare i sei pranzi al sacco. Andò nel bagno, dove sciacquò e strizzò la biancheria che aveva lasciato in ammollo nella vasca la sera prima. Stese tutto sul filo fuori dalla finestra sul cortile. Incastrò una stecca tra il filo e il davanzale per stenderci su altra roba. L’unica cosa che aveva lavato e che non doveva essere appesa era il bellissimo maglione rosa di cachemire che Pierre le aveva comprato il Natale precedente. Per quello mise un asciugamano per terra, ci appoggiò il maglione sopra e poi stese un altro asciugamano sul maglione. Raccolse tre paia di pantaloni, uno di Dermot, uno di Rory e uno di Mark, insieme al suo cappotto di gabardine; li avrebbe lasciati alla tintoria Marlowe di O’Connell Street più tardi. Alle quattro e mezza di mattina era seduta a bere una tazza di tè e a fumare una sigaretta. Dieci minuti dopo scendeva le scale, con la carrozzina e i due taglieri per il pane e, nella mattinata ancora buia, iniziava la sua passeggiata di venti minuti fino al mercato della frutta. Un’ora e tre quarti dopo, Agnes era a Moore Street, a montare la tettoia di tela sopra al suo banco, mentre al 92 di James Larkin Court la sveglia tornava in vita sul cuscino di Mark.
Mark la spense e si alzò in fretta, si infilò un paio di jeans, tirò su la lampo e andò in cucina. Accese tutti e quattro i fornelli a gas – ci fu un piccolo put put quando ciascuno di essi si animò. Li avrebbe lasciati in funzione mentre si lavava e si spazzolava i denti, in modo da riscaldare la cucina. Andò in bagno e si lavò. Tornando in camera da letto passò dalla cucina dove ora c’era un bel calduccio, e spense i fornelli. Poi entrò in camera e svegliò con dolcezza Dermot.
«Dermo, Dermo... i giornali, Dermo». Parlava in tono sommesso.
Stordito, Dermot borbottò: «Come?»
«I giornali. Sono le sette meno venti. Dai, altrimenti farai tardi».
Da quando Mark aveva iniziato a lavorare per Wise, Dermot lo aveva sostituito nel suo giro di consegne. Dermot non era un lavoratore volenteroso come Mark, e ogni mattina per lui era difficile trovare l’entusiasmo per correre a infilare i giornali nelle cassette delle lettere col freddo e con la pioggia.
Quando Dermot si fu lavato e vestito, Mark aveva preparato una tazza di tè e qualche toast intriso di burro. Cominciarono a mangiare.
«Cosa è successo ieri sera con Frankie?» chiese Dermot, togliendosi il burro dal mento.
«Non lo so» disse Mark, sbrigativo.
«Gli ha dato una ripassata?»
«Non credo. Comunque io non ho sentito niente».
«La scuola lo espellerà. L’ho sentito dire al preside, ieri».
«Non gli posso dare torto. È uno stronzo».
«No, non è vero, è solo... diverso». Dermot difendeva Frankie.
«Ah, sei troppo giovane per capire».
«Che vuoi dire? Ho solo due anni e mezzo meno di te».
«Sì? Be’, due anni e mezzo è parecchio tempo. Quando tu sei nato, io già camminavo, amico». Mark sottolineò le sue parole puntando la crosta del pane tostato verso Dermot.
Dermot lo guardò per un istante, poi disse molto serio: «Cammini da quando hai due anni e mezzo?»
«Già» rispose Mark.
«Gesù, devi essere spompato».
I due ragazzi risero a crepapelle, Mark lasciò cadere la crosta sul piatto, prese la tazza, si avvicinò al lavello e la lasciò sullo scolapiatti.
«Bene, andiamo» annunciò.
Lanciò a Dermot il montgomery, si infilò la giacca a vento imbottita e uscì col fratello per andare a lavorare.
Agnes fece pausa alle 10, lasciando ad Annie la Grassa il compito di occuparsi del banco. Le ci vollero solo cinque minuti per arrivare a piedi alla Sezione Edilizia del Comune di Dublino di Jervis Street. Non era preparata allo spettacolo che la accolse quando vi giunse. Era un vero e proprio pandemonio. Sembrava che tutti i residenti della Prima Zona fossero arrivati nello stesso momento per protestare. I corridoi erano gremiti di persone che chiacchieravano e brontolavano. A metà corridoio, in piedi accanto a una panca, c’era un uomo alto con i capelli grigio argento, che indossava un completo, camicia e cravatta, e lenti bifocali. La maggior parte delle lamentele e degli insulti sembravano diretti a lui.
Agnes riconobbe Birdie Kerrigan di St Jarlath’s Street. I Kerrigan vivevano nel centro di Dublino da un centinaio d’anni almeno. Birdie pareva spaventata e confusa.
«’Giorno, Birdie. È terribile, maledizione» le disse Agnes.
«Coolock, Agnes! Coolock, merda! Dove cazzo sta Coolock, Agnes?» esclamò lei, tra le lacrime.
«Lo so, tesoro, è orribile» Agnes tentò di consolarla. Ma Birdie proseguì: «I ragazzi non troveranno mai la strada di casa! Non so nemmeno come si scrive, Coolock!» Era sconvolta.
Agnes la prese sottobraccio e le diede una pacca sulla spalla, sapendo che Birdie non sapeva nemmeno scrivere «città». Ma non importava, capiva che cosa intendeva. Doveva esserci un altro centinaio di persone lì altrettanto terrorizzate e in ansia per il proprio futuro. Per i funzionari del Comune si trattava solo di un trasloco, ma per quelle persone, che si sentivano parte del centro di Dublino da tutta la vita, era come una deportazione. Alla fine, l’uomo dai capelli d’argento con lenti bifocali salì sulla panca e iniziò a battere il tacco della scarpa. Poi, alzando le braccia in alto, gridò: «Silenzio, prego! Calmatevi tutti, per favore».
Poco a poco i corridoi si acquietarono e le teste si voltarono verso il tizio del Comune. Aveva l’accento della contea di Meath.
«Signore e signori, mi chiamo Benny Lynch. Sono il responsabile dell’assegnazione alloggi della direzione edilizia».
«’Fanculo a te e alla direzione! Noi non ci muoviamo!» urlò una voce in mezzo alla folla.
Seguì un’ovazione. Di nuovo il funzionario dai capelli d’argento alzò le mani. Adesso sudava, e avrebbe voluto essere ovunque fuorché lì. Quando ebbe ristabilito il silenzio, proseguì. «Le case che stiamo costruendo per voi sono abitazioni di prima classe, ultramoderne» assicurò loro.
«Bene. Allora vacci tu a Finglas e lasciaci in pace, porca miseria!» gridò una donna.
Un’altra ovazione.
Stavolta il funzionario non alzò le mani, ma sulla folla cadde lo stesso il silenzio. Parlò ancora.
«Se cercate di mantenere la calma, annoterò tutti i vostri nomi e registrerò i vostri reclami. In ogni caso, devo informarvi che la decisione è stata presa. Il Comune di Dublino ha intenzione di procedere con i lavori nel centro storico, e si tratta di una decisione irrevocabile».
Tra la folla si diffuse un mormorio. L’uomo alzò un po’ la voce. «Ma lasciate che vi dica una cosa!» Di nuovo un silenzio di tomba. «Nelle zone che lascerete verranno costruite nuove case – migliori, più moderne – e tutti avrete il diritto di chiedere di tornare ai vostri alloggi del centro, se vorrete».
Era un annuncio a sorpresa, che sembrò calmare un po’ tutti.
«Quanto ci vorrà?» chiese un uomo in prima fila.
L’uomo dai capelli d’argento rispose con autorevolezza. «Pensiamo che le case della Prima Zona – la vostra – saranno pronte per essere occupate nell’estate del 1973».
«Ma sono tre anni e mezzo, per l’amor di Dio!» gridò una donna.
«Lo so!» le rispose, urlando, il funzionario. «Ma è un progetto complesso, e certe cose richiedono tempo. Guardiamo in faccia la situazione, voi non potete continuare a vivere come state facendo adesso. Ora, queste nuove case a Cabra, Finglas e Coolock avranno acqua calda corrente, giardini, tre camere da letto!»
Qualcuno mormorò: «Viviamo come ci pare e piace». E: «Se andava bene ai nostri genitori, va bene anche a noi». Ma nel profondo del cuore tutti sapevano che aveva ragione, e poi si aggrappavano alla vaga promessa che alla fine sarebbero tornati a vivere in centro. L’uomo dai capelli d’argento capì che stava per spuntarla. Avrebbe dovuto smettere mentre era in vantaggio, invece volle sferrare un altro colpo vincente. «Signore e signori, il progresso è una macchina imponente. E io? Io sono piccolo così».
«Tu ce l’hai piccolo così!» gridò una vecchietta, e tutti scoppiarono a ridere.
L’uomo arrossì e scomparve in un ufficio. La folla si riversò per la strada, e nel giro di un paio di minuti si era dispersa.
Volenti o nolenti, a luglio Agnes Browne e famiglia si sarebbero trasferiti a Finglas.