4.

Il giorno dopo, sabato, Agnes portò Mark da Clery, come promesso. Non essendosi mai comprato un completo, Mark non sapeva dove guardare o cosa provarsi. La stessa Agnes non poteva dirsi schiava della moda, ma dai suoi ap­puntamenti con Pierre aveva imparato abbastanza, guar­dando come si vestiva lui, per sapere cosa si addice a un uomo. Scelse una camicia bianca di cotone tagliata su mi­sura, un paio di pantaloni beige di cavalry, una cravatta a ri­ghe grigia e bordò, e quello che poteva solo essere descritto come un blazer doppiopetto, in stile Beatles, col colletto alto all’insù. Era bordò con bottoni dorati. Agnes insistette per pagare il completo, che le costò poco più di trentacin­que sterline. Mark obiettò, insistendo per saldare lui il conto, dato che aveva da parte oltre sessanta sterline, ma Agnes fu irremovibile, felice di offrire a Mark il primo ve­stito per una riunione di lavoro. Però lasciò che fosse lui a pagare le scarpe, delle brogues di pelle, che da sole costavano undici sterline.

Nel frattempo, a Henry Street, il giovane Dermot stava facendo un po’ di spese a modo suo. Solo qualche capo d’abbigliamento che gli serviva per mantenere il guarda­roba alla moda. A differenza di Mark con i suoi risparmi, o di Agnes con la vincita al bingo, Dermot non aveva un cen­tesimo da parte. Si avviava a un pomeriggio di taccheggi.

Scelse un paio di pantaloni blu navy di velluto a coste da Arnott. Il suo piano era semplice. Gironzolò per il grande magazzino per circa mezz’ora prima di rubare il primo arti­colo. Era una busta di carta marrone, vuota, con sopra scritte le parole Grandi magazzini Arnott, Dublino. Armato di questa, andò al reparto ragazzi, dove prese un paio di pantaloni marroni di velluto a coste della sua misura, la small. Dermot era un taccheggiatore indipendente, aveva i suoi metodi. Piegò con cura i pantaloni, li infilò nella bu­sta di Arnott e poi andò dritto dall’addetto alla sicurezza, al­l’ingresso principale. Diede un colpetto sul braccio dell’uomo, che si girò e abbassò lo sguardo sul ragazzo biondo dagli occhi azzurri, con un sorriso da bambino e l’aspetto di un ingenuo dodicenne.

«Mi scusi, signore, è lei il direttore?» chiese Dermot, con la massima ingenuità.

«No, sono della sicurezza, figliolo. Per che cosa ti serve il direttore?» chiese l’uomo, continuando a tenere d’occhio il locale.

Dermot aprì la busta e gli mostrò un paio di pantaloni piegati, di velluto a coste marrone. Ci guardò dentro anche lui, e la tenne aperta perché anche l’addetto alla sicurezza potesse darci un’occhiata.

«Per questi, signore» disse.

L’uomo guardò nella busta e rimase un po’ confuso. «Che c’è che non va?»

«Mia madre li ha comprati stamattina. Ma dovevano es­sere blu, non marroni. E mi ha mandato a cambiarli».

«Vieni con me, figliolo». L’addetto alla sicurezza ora par­lava come se fosse stato davvero il direttore. Accompagnò Dermot a una cassa del reparto maschile e prese da parte una delle ragazze.

«Scusa, tesoro. Se hai tempo, potresti occuparti tu di lui? Io devo tornare alla porta».

«Certo, Tom. Che succede, caro?»

Dermot le porse la busta. «Devo cambiare questi e pren­derne un paio blu navy».

«Certo, caro. Hai lo scontrino?»

«Papà ha detto che non ne avrei avuto bisogno».

«Papà?»

«Sì, papà». Dermot indicò l’addetto alla sicurezza che si stava allontanando.

«Oh, sei il figlio di Tom!»

Dermot sgranò gli occhioni blu più che poté e annuì.

«Ma certo, caro, vieni con me. Allora dimmi, chi sei dei due, Barry o John?»

«Barry» mentì Dermot, e fu molto convincente.

 

Dopo aver lasciato Clery, entrambi molto soddisfatti di se stessi, Agnes e Mark attraversarono la strada, andarono all’ufficio postale, poi fecero una passeggiata lungo Henry Street per guardare un po’ di vetrine. Parlarono di Rory e di quanto si stesse comportando bene da Wash & Blow. Mark disse ad Agnes che era molto eccitato all’idea di dover par­tecipare alla riunione del lunedì successivo con Mr McHugh, ma che al contempo era anche spaventato. Di­scussero del trasloco a Finglas e di cosa avrebbe significato per la famiglia. Parlarono perfino delle possibilità delle due Cathy di vincere la gara di go-kart il sabato seguente. Par­larono di tutto e di tutti, fuorché di Frankie. Mentre passa­vano davanti all’entrata della sala da tè al primo piano di Arnott, l’aroma del caffè appena fatto e delle paste appena sfornate si diffuse fuori dalla porta.

«Mmm» disse Agnes, «ti andrebbe un caffè, Mark?»

«Sì, sì, certo, mamma. Be’, forse, per la verità, sarebbe meglio un tè».

E così salirono le scale. Agnes tolse le buste dalle mani di Mark, che andò al bancone del self-service a prendere le be­vande e i dolci. Intanto lei gironzolò tra i tavolini, cercan­done uno dove potessero stare un po’ in pace, cosa non fa­cile di sabato pomeriggio. Alla fine si sistemò in un separé laterale. Mise le buste sull’estremità destra del sedile e sci­volò su quella sinistra.

Da dove era seduta, Agnes godeva di un’eccellente vista del grande magazzino. Ragazzi, se è pieno, pensò. C’erano persone che sciamavano in ogni direzione. Ma fu una te­stolina bionda che ballonzolava tra gli scaffali ad attirare la sua attenzione – il che può succedere quando si hanno sette figli, cinque dei quali biondi. Seguì con lo sguardo la testa che si muoveva su e giù davanti a un attaccapanni cui erano appese le giacche per la prima comunione, poi, quando la figura emerse, vide con chiarezza che, in effetti, si trattava del suo piccolo Dermot. Stava chiacchierando con una delle commesse, e sembravano andare d’amore e d’accordo.

Proprio in quel momento arrivò Mark col vassoio. «Ecco qui, mamma. Per te ho preso un bignè al cioccolato e per me una fetta di torta alla crema» annunciò.

«Mark, non è Dermot quello laggiù, al reparto maschile?»

Mark mise un ginocchio sul sedile e si sporse dal parapetto per guardare giù. «Dove, mamma? Non vedo niente».

Agnes ora si era alzata e indicava il reparto. «Là. Guarda, parla con quella ragazza».

«Oh cavolo, sì, certo che è Dermo» confermò Mark.

«Che ci fa qui? E cos’ha in quella busta?»

Mark avvertì una sensazione di paura, e lo stomaco gli si contrasse. Cercò di pensare il più in fretta possibile. «Non so... eh... Oh, sì, ha detto qualcosa prima a proposito del fatto che doveva andare a Henry Street per consegnare un messaggio a Mrs Egan, forse sarà questo?»

Agnes guardava ancora Dermot. «Dev’essere così. Ah, che gentile, è proprio un bravo ragazzo. Si fa in quattro per tutti».

 

La ragazza fu molto servizievole. Aveva un debole per Tom, e il «figlio» venne trattato con i guanti bianchi. Dermot la ringraziò e tornò di nuovo dall’addetto alla sicurezza. Gli tirò la giacca. Tom si voltò.

«Allora, figliolo, è tutto a posto?» chiese.

«Sì, signore, grazie tante».

Mentre diceva questo, Dermot lanciò un’occhiata alla commessa. Come sospettava, li stava guardando. Dermot alzò gli occhi sull’addetto alla sicurezza e aggiunse: «Si­gnore, posso dirle un segreto?»

L’addetto alla sicurezza sorrise. «Certo che puoi, figliolo» e si chinò.

Dermot gli mise il braccio attorno al collo e gli mormorò all’orecchio: «Faccio ancora la pipì a letto».

L’uomo guardò dritto in faccia il ragazzo, sconcertato, poi replicò: «Ah, non c’è niente di male, figliolo, passerà» e gli carezzò la testa.

Dal punto di osservazione della commessa, sembrava che Tom fosse stato appena abbracciato dal figlio. Era com­mossa. Dermot rivolse ancora una volta lo sguardo verso di lei, che continuava a fissarli. Poi disse a Tom, indicandola: «Quella ragazza è stata davvero gentile».

Tom seguì con gli occhi la direzione indicata e Dermot salutò la ragazza. La ragazza ricambiò il saluto, agitando il braccio, e per qualche strano motivo anche Tom la salutò. Dopodiché tornò al suo lavoro. «Okay, figliolo, sei a posto, adesso. Puoi andare».

Dermot fece per allontanarsi, poi si girò e disse: «Grazie tante». E aggiunse tra sé con una risata: «Papà». Così uscì dal grande magazzino più ricco di un paio di pantaloni di velluto a coste.

 

Agnes fece a Mark un resoconto minuto per minuto della scena. Lui non guardava – non aveva il coraggio di guardare.

«Adesso si sta allontanando dalla donna. Gesù, si di­rebbe che siano amici intimi». Bevve un breve sorso di caffè e diede un morso al bignè. «Adesso parla con quel cavolo di addetto alla sicurezza».

Mark impallidì. «È stato l’addetto alla sicurezza a chia­marlo?» chiese, sempre più agitato.

Senza girarsi, Agnes rispose: «No, è stato Dermot ad an­dare da lui». Un altro sorso di caffè. «Gesù!» esclamò ancora Agnes.

«Che c’è?»

«Sta abbracciando l’addetto della sicurezza!»

«Forse... forse lo conosce, mamma» propose Mark.

«Ah, Gesù, Mark. Anche io conosco la cassiera del su­permercato, ma non è che mi vedi abbracciarla». Tirò Mark per la manica.

«Ah, devi guardare questa scena, Mark! La donna nel ne­gozio fa ciao ciao con la mano e Dermot e l’addetto alla si­curezza rispondono al saluto... sembra una scena di quel ca­volo di film, Tutti insieme appassionatamente».

Mark non ne poteva più. Si inginocchiò sul sedile. «Dove sono, mamma?»

Agnes si rivolse di nuovo verso il suo caffè. «Troppo tardi, amore, se n’è andato. Mi chiedo cos’era successo».

«Anch’io» disse Mark, e tornò alla fetta di torta alla crema e al tè, sollevato che Dermot non fosse stato bec­cato...per ora.

 

Il sabato sera, dopo cena, la famiglia Browne era molto indaffarata: tutti si affrettavano a mettersi in ghingheri per uscire. Da quando aveva iniziato a lavorare e aveva riscosso il primo stipendio, Rory portava al cinema Dermot e Si­mon tutti i sabato sera. Ogni due sabati Cathy andava a dormire da Cathy Dowdall, e il sabato dopo le due ragazze rimanevano dai Browne. Quella sera toccava a Cathy Browne attraversare il paio di isolati che le separavano, per­ciò stava mettendo via lo spazzolino da denti e la camicia da notte.

Agnes si era fatta il bagno e si era preparata per il suo ap­puntamento settimanale con Pierre. Quella che tre anni prima aveva avuto un inizio un po’ stentato, adesso era di­ventata una sorta di solida amicizia. Si tenevano per mano e spesso si baciavano con passione, ma finiva sempre lì. Non c’era stata nemmeno l’ombra di un po’ di sesso spinto. Per onestà nei confronti di Pierre, non è che lui non ci avesse provato, e anche Agnes ci era andata vicina un paio di volte – ma all’ultimo momento qualcosa era sempre an­dato storto, e Agnes si era tirata indietro. Era anche un pro­blema logistico. Pierre divideva ancora l’alloggio sopra la pizzeria con lo zio e due cugini, di conseguenza lì non po­tevano andare, ed è inutile dire che qualche minuto di pace a casa Browne era del tutto fuori discussione. Ciò restrin­geva le possibilità all’automobile di Pierre, una Fiat 127 – assurdo! Oppure a dover affittare una camera d’albergo. Una volta ci avevano provato.

Era un albergo aperto da poco a Drumcondra, lo Skylon. Pierre aveva suggerito di andarci a bere un drink per vedere com’era, aggiungendo che, una volta lì, avrebbe avuto una sorpresa per lei. Malgrado tutti i suoi sforzi, Agnes non era riuscita a immaginare quale sarebbe stata la sorpresa, perciò, arrivata in albergo con Pierre, era piena di aspettative e non poco eccitata. Quando Pierre le aveva rivelato la sorpresa – aveva prenotato una camera per la notte – Agnes sulle prime era rimasta sconvolta, ma dopo tre bottiglie di sidro aveva trovato l’idea divertente e aveva iniziato a prendere in giro Pierre per il solo fatto di averci pensato. Ancora tre botti­glie di sidro e Agnes, che cominciava a diventare un po’ più affettuosa, non era stata più così sicura che quella non fosse una buona idea. Le ci era voluta solo un’altra bottiglia per convincersene. Pierre era elettrizzato.

«Quando finisci quella bottiglia andiamo di sopra, sì?»

«Non essere ridicolo, Pierre» gli aveva risposto Agnes, brusca, guardandosi intorno per vedere se c’era qualcuno di sua conoscenza.

«Ma, tesoro mio, pensavo che avessi detto di sì».

«Ho detto sì, infatti, ma non possiamo farlo in modo così sfacciato».

«D’accordo, e allora come facciamo, tesoro mio?»

Agnes ci aveva pensato un istante e aveva escogitato un piano. «Io andrò nel bagno delle donne. Quando sarò en­trata, tu sali in stanza da solo, come se fossi un uomo d’affari che si ritira per la notte. Poi io esco dal bagno, finisco il mio bicchiere di sidro, entro nell’ascensore da sola e ti raggiungo in camera».

Pierre ci aveva riflettuto un momento e, anche se lo ri­teneva stupido – e se fossero stati in Francia e Agnes fosse stata francese, lo sarebbe stato – era stato pronto ad accon­discendere a qualsiasi piano, pur di convincere Agnes a en­trare in quella stanza. Perciò aveva accettato.

«Okay, tesoro mio. La camera è la 213, al secondo piano».

«Capito: 213, secondo piano».

Pierre si era alzato, stirato e, guardandosi intorno, aveva fatto uno sbadiglio eccessivo, poi aveva annunciato, a voce molto alta: «Oh, cielo! Sono un uomo d’affari così stanco. Penso che andrò a letto».

Agnes lo aveva guardato sbigottita. «Ma che fai, pezzo d’imbecille? Non è una recita! Vattene affanculo in quel letto, okay?» aveva bisbigliato, con voce roca.

Svelto, e senza replicare, Pierre si era precipitato fuori dal bar ed era entrato di corsa in ascensore. Agnes nel frattempo si era diretta verso il bagno delle signore. Le girava un po’ la testa, ed era andata al lavandino per sciacquarsi il viso con l’acqua fresca. La cosa l’aveva rinfrancata un po’, ma le aveva tolto anche un po’ di trucco, perciò si era ripassata la «pit­tura di guerra»; quindi, soddisfatta dal riflesso della sua im­magine, era uscita dal bagno delle donne ed era tornata al suo drink. Mentre beveva, aveva spostato gli occhi a destra e sinistra per tutta la sala, poi, quando il bicchiere si era svuotato, si era alzata con molta disinvoltura e, ferma e con grande nonchalance, era andata verso l’ascensore, aveva pre­muto il pulsante ed era entrata. Le porte si erano chiuse, e Agnes aveva guardato i pulsanti numerati dei piani. A voce alta aveva detto: «Dunque, la 213 al primo piano – no, al se­condo – o era la 321? Oh, Gesù, che numero era?»

All’improvviso, le porte dell’ascensore si erano aperte e Agnes era trasalita per lo spavento. Un gentiluomo ameri­cano era entrato e aveva chiesto: «Sale?»

«No, esco» aveva replicato Agnes, allontanandosi in fretta e furia.

Era tornata al suo posto e aveva cercato di pensare alla mossa successiva. La cameriera le si era avvicinata, e Agnes aveva ordinato un’altra bottiglia di sidro.

Quindici minuti dopo, mentre Agnes era ancora seduta nella sala del bar a sorseggiare il suo sidro, il telefono dietro al bancone aveva squillato. Il barista aveva risposto.

«Pronto, bar».

«Pronto. Mi chiedo se potrebbe farmi un favore».

«Certo, signore. Se posso».

«C’è una bellissima signora bruna seduta in sala».

Il barista si era guardato intorno. «Eh, sì, signore, la vedo da qui».

«Le dispiace chiederle di raggiungere Pierre nella sua stanza – la 213 – appena pronta?»

«Be’, signore, non so se posso...»

Ma Pierre lo aveva interrotto. «No, certo, capisco, ma è tutto okay. La signora aspetta questa telefonata».

Il barista ci aveva pensato su un istante, poi aveva detto: «Oh, be’, in questo caso, signore, riferirò».

Agnes aveva osservato il barista che parlava al telefono. All’improvviso l’uomo aveva abbracciato la sala con lo sguardo. Poi era uscito da dietro il bancone. Era andato dritto verso Agnes. Arrivato a un metro e mezzo da lei, aveva abbassato la testa e sorriso – lei aveva ricambiato il cenno del capo e il sorriso – e le era passato davanti. Si era avvicinato a un altro tavolo poco distante e si era seduto a parlare con una donna bruna. Qualsiasi cosa stesse dicendo, la donna si era fatta molto seria, poi aveva sorriso, lo aveva ringraziato, aveva messo le sigarette e l’accendino nella bor­setta e aveva lasciato la sala. A quel punto, Agnes aveva perso interesse. Finalmente le era venuto in mente cosa fare. Sarebbe andata alla reception e avrebbe chiesto qual era la camera del signor Pierre Du Gloss.

Aveva terminato quanto era rimasto del sidro ed era uscita. La receptionist, benché molto cortese, le aveva spie­gato che non rientrava nelle abitudini dell’albergo fornire i numeri delle stanze a chiunque ne facesse richiesta. Ma aveva detto che sarebbe stata in grado di mettere in con­tatto telefonico Agnes con la camera di Mr Du Gloss. Agnes aveva accettato con gioia, e la signora le aveva indi­cato un apparecchio telefonico da cui Agnes poteva pren­dere la chiamata. Agnes era entrata nella cabina e aveva chiuso la porta. Si era seduta sullo sgabello, e d’un tratto il telefono bianco di fronte a lei si era animato. Aveva preso la cornetta. La receptionist aveva detto: «È in linea con la ca­mera».

Agnes l’aveva ringraziata. C’era stato un leggero clic, e aveva sentito il telefono squillare. Aveva squillato e squillato e squillato. Nessuna risposta. Agnes lo aveva lasciato squil­lare finché la receptionist era intervenuta, dichiarando: «Sono spiacente, nella stanza non risponde nessuno».

Agnes l’aveva ringraziata di nuovo e aveva riagganciato. Era rimasta seduta per un momento, chiedendosi cosa avrebbe dovuto fare, poi dalla porta a vetro della cabina aveva visto Pierre che veniva portato via dall’atrio in ma­nette dalla detective Jacintha Doody della buoncostume di Dublino. Il caso non arrivò mai in tribunale, e Pierre venne rilasciato con un severo monito.

 

Mentre si guardava allo specchio preparandosi all’ap­puntamento del sabato, Agnes ridacchiò tra sé ricordando quella sera così movimentata.

A parte Trevor, l’unico della famiglia Browne che non sa­rebbe uscito era Mark. Sarebbe rimasto a badare a Trevor, come ogni sabato sera. Agnes si preoccupava spesso della mancanza di vita sociale del figlio, ma concludeva sempre che Mark avrebbe fatto i comodi suoi quando sarebbe stato pronto.

Andò a finire che il suo appuntamento serale fu breve, perché Pierre dovette tornare presto in pizzeria a dare una mano durante la calca del dopo pub. Agnes non ne fu troppo delusa, perché così poteva tornare a casa in tempo per vedere l’ultima parte, di solito la migliore, del Late Late Show di Gay Byrne.

Quando tutti furono usciti e Trevor fu finalmente an­dato a dormire, Mark aprì i libri e iniziò a studiare per l’e­same imminente. Quella sera leggeva dell’utilizzo del legno dolce nella manifattura dei mobili. I compensati, gli im­piallacciati e i truciolati stavano diventando i materiali fon­damentali nella fabbricazione dei mobili rivestiti. Non mi serve a niente, pensò Mark. Lo paragonava all’insegna­mento dell’irlandese a scuola – tanto sforzo per imparare qualcosa che, una volta finita la scuola, non avrebbe mai usato. La Wise & Company era specializzata in mobili di legno duro e in imbottiti rivestiti in pelle. Era questo il forte di Mark. Tuttavia doveva studiare quella parte perché all’esame ci sarebbero state alcune domande sull’argo­mento. «Niente di ciò che si impara va mai sprecato» gli aveva detto Mr Wise, benché Mr Wise fosse il primo a farsi beffe dell’idea di un telaio per mobili in legno dolce.

Ma i pensieri di Mark non erano tutti per i compensati. Non riusciva a togliersi dalla testa Betty Collins. Quel giorno, di ritorno dallo shopping, Agnes aveva suggerito a Mark di portare i pantaloni nuovi a Maggie Collins, a Gar­diner Row. Da giovane Maggie aveva fatto la sarta, e adesso guadagnava qualche scellino apportando le modifiche a casa. I pantaloni di Mark erano troppo lunghi di un paio di centimetri, e Maggie, disse Agnes, glieli avrebbe accorciati in un batter d’occhio.

Trovò facilmente il palazzo, al numero 32. L’apparta­mento di Maggie era al piano terra, e, quando bussò, sentì il meccanico rat tat tat della macchina da cucire Singer die­tro la porta. Gli aprì una donna sulla quarantina, con i ca­pelli tinti biondo platino.

«Devo far accorciare un paio di pantaloni» disse Mark, senza presentarsi.

«Accomodati, figliolo» lo invitò Maggie, e indietreggiò per farlo passare. Lui entrò nell’appartamento. Nonostante fosse stata la stessa Maggie ad aprire la porta, e adesso fosse in piedi davanti a lui, Mark sentiva ancora la macchina da cucire che lavorava, indaffarata, in una stanza attigua. Nell’appartamento c’era un delizioso profumo che poteva pro­venire solo da salsicce in padella.

«Fammi vedere i pantaloni, tesoro». Maggie prese la bu­sta. Allungò i pantaloni e guardò l’orlo. «Un risvolto» me­ditò, poi chiamò: «Betty!»

Mark trasalì.

All’improvviso, nell’altra stanza, la macchina da cucire si fermò, la porta si aprì e comparve Betty, la figlia di Maggie.

«Sì?» chiese, senza guardare Mark.

«Un risvolto. Accorcia questi calzoni, tesoro, per favore. Io sono nel bel mezzo della cena».

Lanciò i pantaloni alla ragazza. Betty non lo aveva an­cora guardato. Mark, invece, non le toglieva gli occhi di dosso. Era alta, per essere una ragazza, poco meno di Mark, anche se aveva due anni più di lui, diciannove. Aveva la carnagione scura e i denti bianchi più belli che lui avesse mai visto. Non era la prima volta che Mark met­teva gli occhi su Betty Collins. Fino a tre anni prima, la vedeva spesso in parrocchia. Lui si allenava giocando a calcio nello spiazzo davanti alla sala, e lei arrivava vestita col berretto nero e l’uniforme della Croce Rossa Irlandese. Ciò che lo colpì, al momento, fu che all’epoca Betty Col­lins gli era sembrata una delle ragazze meno carine che avesse mai visto. Adesso, invece, eccola là, che visione ce­lestiale!

Lei lo guardò. «Oh! Sei tu. Ciao, Mark!» Sorrise.

«Eh, sì. Come va?» Mark arrossì.

«Quanto è lunga la gamba?» chiese.

«La gamba? Perché?» Mark era agitato.

La ragazza rise. «Devo sapere quanto accorciare».

«Non lo so... più o meno così». Mark alzò la mano, l’in­dice e il pollice a una distanza di circa due centimetri l’uno dall’altro.

Lei rise a crepapelle, e dalla tasca posteriore tirò fuori un metro arrotolato. Adesso però fu lei ad arrossire. Srotolò il metro e prese la misura col dito. Poi svanì svelta in cucina. Mark infilò le mani in tasca e strascicò i piedi. Il rumore delle due donne che confabulavano fu seguito da un’altra risata di Maggie. Qualche secondo più tardi, la donna tornò con un mozzicone di sigaretta in bocca e il metro in mano.

«Bene, figliolo, apri le gambe!» Mark lo fece. Tossic­chiando e ridendo al contempo, Maggie misurò l’interno della gamba: ottantasei centimetri.

Mentre aspettava, Mark vedeva cosa c’era dietro la porta socchiusa. Betty si chinava in avanti ogni volta che faceva scorrere la stoffa nella macchina da cucire. Indossava una camicia scozzese da uomo con le maniche arrotolate, il da­vanti e il dietro le penzolavano fuori dai jeans, e i primi tre bottoni erano aperti: così, ogni volta che si piegava in avanti, Mark intravedeva la sommità del seno e l’orlo di pizzo di un reggiseno bianco come la neve. Si sentiva accal­dato e sudaticcio. Il cuore gli martellava nel petto e lo sto­maco andava su e giù. Eppure non avrebbe voluto trovarsi in nessun altro luogo al mondo.

 

Quando Agnes tornò a casa, quella sera dopo il suo ap­puntamento, i ragazzi erano tornati dal cinema ed erano andati a letto, ma non prima che Mark avesse preso Der­mot da parte e lo avesse avvertito delle conseguenze cui sa­rebbe andato incontro se fosse stato pizzicato a rubare. Agnes non aveva nemmeno notato il paio di pantaloni blu di velluto a coste che Dermot aveva addosso quella sera. Sembrava che il ragazzino avesse preso sul serio la strigliata, ma dentro di sé, come tutti i ladri, pensava che non sarebbe mai stato beccato.