Il clic dell’interruttore di metallo riecheggiò in tutta la fabbrica. Mark impiegò più di un’ora per sgombrare un angolo dove poter lavorare al progetto. Una volta che lo spazio fu ripulito, andò all’ampio tavolo da disegno e, dopo aver tirato fuori i fogli di carta dalla tasca posteriore, li fissò alla bacheca con una pinza fermacarte. Il suo primo compito era quello di disegnare dei prototipi dagli schizzi che aveva buttato giù e farne tre copie. La Wise & Co. teneva fogli di faesite in magazzino proprio per questo scopo. Mark mise il primo foglio sul tavolo da disegno, quindi, con un metro di legno, il goniometro e la matita iniziò a elaborare il primo prototipo.
Un po’ di tempo dopo sentì sbattere la porta in lontananza. Poi la voce di Sean McHugh gridò: «Mark! Sono io!»
«Quaggiù, Mr McHugh, al tavolo da disegno!» rispose Mark, con voce affaticata, gridando a sua volta.
Mark aveva qualche problema a ottenere dei prototipi dai suoi disegni. Aveva già buttato via un intero foglio di faesite. Apparve il viso lucido e rubizzo di Sean.
«Come va?» chiese.
«Non bene» rispose Mark. «Non riesco a cavarmela con questi cavolo di prototipi». Iniziava a sentirsi frustrato.
Dalla tasca interna, Sean prese una custodia di metallo da cui tirò fuori un paio di vecchi occhiali. Se li mise, richiuse la custodia e se la infilò di nuovo in tasca. Osservò i disegni mentre si toglieva il cappotto.
«Bene. Diamo un’occhiata» disse.
Mark sorrise e fece volentieri spazio all’uomo più anziano e sicuro di sé. Ora si sentiva un po’ meno solo. Sean indicò i disegni con una matita.
«Questo schienale curvato qui... non credo proprio che avrai il tempo per fare uno schienale di legno curvato per tutt’e tre». Sean guardò Mark da sopra il bordo degli occhiali, piegando la testa in avanti.
Mark aveva la risposta pronta. «No, certo. Infatti avevo intenzione di ricavarlo dal compensato da un centimetro. Avrei tagliato sei assi in senso orizzontale, inchiodandone due insieme per ciascuno schienale». Tracciò il disegno col dito sulla polvere che copriva il tavolo da disegno.
Sean McHugh abbozzò un sorriso. «Mica scemo il ragazzo» disse, con un lampo di ammirazione nella voce.
Mark rise.
«Lo sai che questi mobili non dureranno nemmeno il tempo di una pisciata» aggiunse Sean.
«È proprio questo lo scopo» replicò Mark, ed entrambi risero.
Sean aprì il suo metro, pronto a mettersi al lavoro. «Bene, figliolo. Tu prepara una tazza di tè, che io mi do da fare su questi prototipi». Sean si tolse la matita dall’orecchio e guardò Mark allontanarsi verso la mensa.
Un paio d’ore dopo, Sean McHugh era alla terza tazza di tè. Era già riuscito a disegnare quattro fogli di prototipi, che adesso Mark stava tagliando sulla sega a nastro. Era già mezzanotte. Sean faceva scorrere la matita lungo il metro, quando gli venne in mente che c’era un intoppo. Si fermò di colpo. Tolse i disegni dalla pinza e si avvicinò alla sega a nastro, dove lavorava Mark. Mark lo vide arrivare e spinse il pulsante di stop. Quando la sega ammutolì, Sean disse: «Abbiamo un problema, Mark».
«Quale?» chiese Mark, un’espressione sconcertata sul viso.
Sean mise i disegni sul piano della sega. Indicò uno degli schizzi.
«Questi schienali» esordì.
«Che c’è che non va?» chiese Mark.
«Ci saranno trentasei riquadri e diciotto bottoni in ogni schienale».
«Giusto».
«Più i cuscini per sedersi. Nove riquadri, e quattro bottoni per ogni cuscino, giusto?»
Mark studiò i disegni, poi alzò gli occhi su Sean. «Sì, giusto. È tutto lì, sul disegno. Qual è il problema?»
Sean guardò Mark da sopra il bordo degli occhiali, poi se li tolse con lentezza.
«Chi cucirà?» chiese.
Mark chiuse gli occhi. «Cazzo... la cucitura! Cazzo!»
Era l’una del mattino e faceva freddo. Mark si trovava davanti alla porta del numero 32 di Gardiner Row. Il piano terra dell’appartamento era buio, come lo era stato durante i dieci minuti che aveva già passato lì davanti. Mark aveva lasciato Sean a tagliare il resto dei prototipi ed era uscito, sperando di risolvere il problema della cucitura. Alla fine trovò il coraggio e bussò alla porta. All’interno dell’appartamento, nemmeno un rumore. Bussò ancora, stavolta più forte. Ci fu qualche movimento dalla parte opposta della porta, e sentì il tono sommesso delle voci. Alla fine la porta si aprì e comparve Betty Collins, avvolta da una coperta.
«Mark Browne? Che diavolo vuoi a quest’ora della notte?»
Era andata a letto con i capelli legati, adesso gliene spuntava fuori qualcuno qua e là, che penzolava in tutte le direzioni. Non era truccata e sembrava parecchio insonnolita. Ma non importava, in quel momento per Mark Browne era una visione.
«Ho... ho un problema, Betty» riuscì a dire.
«Fammi indovinare! I risvolti dei tuoi pantaloni hanno ceduto. Be’, accettiamo reclami solo tra le nove e le cinque. Adesso smamma!» Iniziò a chiudere la porta.
Mark appoggiò in fretta la mano contro la porta. «Betty, ti prego. Ascolta» implorò.
Nel modo più semplice possibile, le fece un riassunto della situazione. Betty rimase ad ascoltare per venti minuti, avvolta nella coperta e tremando un po’ per il freddo.
«... perciò ho bisogno di qualcuno che sappia cucire. E ho pensato a te» concluse Mark. Non disse, anche se avrebbe voluto, che nelle ultime quarantotto ore aveva pensato molto a lei.
Betty aveva ascoltato tutta la storia senza interromperlo. Quando Mark ebbe finito, guardò sopra la spalla, poi lui e disse: «Devo vestirmi... e prendere un paio di cose. Tu aspetta qui. Ci metterò solo un paio di minuti».
Fedele alla parola data, passarono solo un paio di minuti prima che Betty tornasse, vestita, avvolta da un montgomery e con i capelli spazzolati. Aveva preso le forbici e il metro arrotolato. I due ragazzi si avviarono verso la Wise & Co. in assoluto silenzio.
Alle 5.15 Agnes Browne era in piedi e si dirigeva verso il mercato all’ingrosso della frutta, anche se i suoi pensieri erano col figlio maggiore.
Nel frattempo, alla Wise & Co., Mark aveva completato i telai per le sei poltrone del salotto e aveva quasi finito il primo dei telai dei divani a tre posti. Dopo una breve presentazione a Sean McHugh, Betty si era rimboccata le maniche, immergendosi nel compito di tagliare i campioni di tessuto.
«Ho finito!» annunciò proprio mentre Sean arrivava con due tazze di tè, una per lei e una per sé. Non ne aveva portata una anche per Mark, perché Mark non era un tipo da tè, come diceva lui.
«Brava ragazza!» disse Sean, porgendole il tè.
Betty, con le mani intorno alla tazza, guardava Mark da sopra il bordo e disse a Sean: «Gesù, se sa lavorare!»
Sean annuì. «Già. Come nessun altro abbia mai visto, e ne ho visti parecchi di martelli all’opera in tutti questi anni. È un ragazzo eccezionale». Lo disse con ammirazione, l’ammirazione di un padre per il proprio figlio. Mark Browne faceva questo effetto agli anziani. Betty rivolse di nuovo i suoi pensieri al lavoro.
«Mr McHugh, devo portare tutta questa roba a casa mia, per cucirla a macchina. Ma non riuscirò mai a farcela da sola».
«Non c’è problema, cara. Possiamo caricarla sul furgone, ti accompagno io. Ci vorrà molto per cucirla?»
«No! Poco più di un’ora».
«Allora ti aspetto, se per te va bene».
«Sì, certo, non c’è problema, Mr McHugh. Sarà meglio che andiamo».
Cominciarono a raccogliere il materiale, e in un paio di minuti caricarono il furgone. Sean gridò a Mark: «Mark! Portiamo a cucire a macchina questa roba. Torniamo tra un’oretta».
Mark non alzò gli occhi, e il ritmo delle martellate non subì alcuna variazione. Si limitò a rispondere: «Okay, Mr McHugh» e con le gocce di sudore che spuntavano da ogni poro, persino sugli avambracci, continuò a lavorare.
Quarantacinque minuti dopo, Mark aveva finito l’ultimo telaio e aveva fissato il tessuto a strisce a tutte le nove intelaiature. Era stanco. Mancava ancora mezz’ora prima che Sean tornasse con Betty. Si asciugò la fronte, si avvicinò al tavolo da disegno, si sedette sull’alto sgabello e, con la matita di Sean, iniziò a scarabocchiare su un foglio bianco. Come tutti i soldati quando c’è un periodo di tregua nel mezzo della battaglia, la paura iniziò a insinuarsi dentro di lui. Mentre scarabocchiava, la sua mente volò verso Greg Smyth e Frank Reel, che dormivano come ghiri al Gresham Hotel. E se fosse stato tutto tempo sprecato? E se non avessero accettato la proposta? E se non fossero nemmeno venuti a dare un’occhiata? Dove avrebbe trovato le cinquanta sterline da restituire alla mamma?
Se Sean McHugh aveva ragione, a meno che Mark non riuscisse a convincere Smyth e Reel a continuare a fare affari con la Wise & Co., presto non ci sarebbe stata più nessuna Wise & Co., e lui avrebbe perso il lavoro. Scosse forte la testa per scacciare questi pensieri. Nel frattempo guardò ciò che aveva scarabocchiato sul foglio bianco e rise tra sé.
Prese il foglio e, raccogliendo ciò che rimaneva del compensato e delle assi di legno di conifere, portò tutto alla sega a nastro e si mise di nuovo a lavorare.
Poco più di quaranta minuti dopo aveva riprodotto in legno il suo scarabocchio, e ci stava scrivendo sopra con un pennarello indelebile, quando il furgone di Sean McHugh accostò fuori dalla porta. Mark sorrise tra sé e guardò l’orologio. Erano le sei e venti.
Alle sette e un quarto l’opera era finita. Tutt’e tre indugiarono a valutare con lo sguardo la fatica della notte.
«Hai fatto un bel lavoro, Mark! Davvero bello» disse Sean McHugh, un po’ ristorato dopo aver dormito un’oretta su una poltrona dell’appartamento di Betty Collins. Mark rimase a braccia conserte. Betty gli si avvicinò e gli mise la mano sull’avambraccio.
«Sono bellissimi!» esclamò.
Ma fu la mano che gli toccava il braccio a eccitare Mark, più dell’elogio che veniva fatto al suo lavoro.
«Bene!» disse Mark. «È ora di convincere quei due tipi a venire a dare un’occhiata!»
«Vai direttamente al Gresham?» chiese Sean.
«Prima devo passare da casa, lavarmi e indossare la mia nuova divisa!» Mark si girò verso Betty. «Betty, grazie mille. Non ce l’avrei fatta senza di te. Fa’ il conto di quanto ti devo, che così ti pago».
Betty scoppiò in una breve risata. «Mark Browne! Lascia che ti dica due cose! Primo, non c’è nessun conto. È stato bello fare qualcosa di insolito, mi sono divertita un sacco. Secondo, se pensi che io me ne vada prima di sapere cosa pensano del nostro lavoro quegli uomini, ti sbagli di grosso. Va’ a prenderli, quando tornerai io sarò qui!»
Mark sorrise e fece per uscire dalla fabbrica. Sean gli urlò: «Mark! La porta è di là» e indicò la direzione opposta.
Mark rise. «Sì, lo so, Mr McHugh! Devo solo prendere una cosa da portare a casa».
Quando Mark sparì dietro l’angolo vicino alla sega a nastro, Sean mise il braccio attorno alle spalle di Betty e la portò in mensa per una tazza di tè mattutina.
Mark faticò a entrare dalla porta di casa. L’oggetto era più pesante di quanto si fosse aspettato, e lui era stanco, dato che lo aveva portato dalla Wise & Co. fin lì sotto in braccio. Era anche ingombrante, perciò tentò di farlo passare per il corridoio col minor rumore possibile. Dormivano tutti, e Agnes era andata al lavoro già da tempo. Lo lasciò sul pavimento della cucina. Poi si sfilò la tuta, si lavò e indossò ancora una volta i vestiti nuovi. Non erano passati nemmeno quindici minuti da quando era entrato nell’appartamento, ed era di nuovo per la strada, diretto al Gresham.
Alle otto e un quarto in punto, salì gli scalini di marmo del Gresham Hotel. Nello stesso momento, Cathy Browne, a casa, urlava di gioia saltellando per tutta la stanza, perché aveva appena scoperto in mezzo al pavimento della cucina uno scatolone contenente un go-kart nuovo di zecca con la scritta Flippin’ Flyer II sul fianco.
Mark trovò Greg Smyth e Frank Reel al ristorante, che facevano colazione. Furono sorpresi di vederlo, ma Greg si alzò in piedi e allungò la mano. «Buongiorno, figliolo!» esclamò. Usò la parola «figliolo» perché aveva dimenticato il nome di Mark.
Anche Frank Reel si alzò, ma lui se lo ricordava. «Mark, come stai? Cosa ti porta qui stamattina?» chiese, mentre gli stringeva la mano.
A Mark piaceva l’uomo più giovane, e dal calore della stretta di mano era chiaro che il sentimento era reciproco. I due uomini si sedettero, e Mark si rivolse a Greg.
«Non so a che ora abbiate in programma di partire oggi, Mr Smyth, ma spero che abbiate il tempo di venire a dare un’occhiata a una cosa in fabbrica».
«Di che si tratta?» chiese Greg.
«Di mobili, Mr Smyth».
Greg Smyth si mise una mano sugli occhi come se provasse un lieve dolore. «Senti, Mark, non ho mai avuto problemi con la qualità dei mobili della Wise & Co. Penso che tu non abbia afferrato il concetto. Non credo proprio ci sia qualcosa che possiate farmi vedere che mi faccia cambiare idea». Era ovvio che non aveva intenzione di cedere.
Frank Reel sembrò deluso, ma fu abbastanza saggio da non intervenire. Il capo è sempre il capo.
La voce di Mark era molto calma, anche se dentro di sé stava cominciando a farsi prendere dal panico. «Ascolti, Mr Smyth, Mr Wise è un brav’uomo, una persona per bene, avete fatto affari insieme per trent’anni e, da quanto ha detto lei stesso, non l’ha mai delusa. Il minimo che potrebbe concederci sono quindici minuti. Che ne pensa?»
Greg espirò rumorosamente.
A quel punto Frank si animò. «Mr Smyth, è sulla strada per l’aeroporto, possiamo fare una sosta lì col taxi» suggerì.
Dopo qualche istante di tensione, Greg capitolò. «Okay» disse, e buttò la salvietta sul piatto.
«Aspetto di fuori che abbiate finito» disse Mark.
Frank si alzò. «Non c’è problema, abbiamo finito comunque, vero, Mr Smyth?»
Dei venti membri del personale che ancora erano impiegati alla Wise & Co., dodici erano giovani apprendisti. Il gruppo dei rimanenti otto era composto da Sean McHugh, un disegnatore e sei operai. Il più giovane aveva trentacinque anni, il successivo cinquantotto, e gli altri avevano tutti più di sessant’anni. Quando quella mattina arrivarono al lavoro, Sean McHugh li fece accomodare tutti nella mensa e, non appena ciascuno ebbe una tazza di tè in mano, iniziò a spiegare cosa stava succedendo alla Wise & Co. Li informò del rapido calo degli affari. Disse loro del peggioramento delle condizioni di salute di Mr Wise. Fornì i dettagli della riunione del giorno prima con la Smyth & Blythe, e alla fine descrisse nelle linee generali gli sforzi di Mark Browne per salvare la ditta. Loro ascoltarono in silenzio. Finito di parlare, li condusse tutti, come se si fosse trattato di una comitiva di giapponesi in visita, ai tre salotti, che loro esaminarono con scrupolo. Si sedettero sulle poltrone. Le capovolsero. Uno degli operai si coricò persino sul divano, decidendo di valutarlo come la maggior parte delle persone fa col proprio divano – e cioè vedendo se era comodo sdraiarcisi per guardare la TV.
All’improvviso, Betty Collins si lasciò sfuggire un grido dall’ufficio: «Mr McHugh! Stanno scendendo da un taxi».
Per qualche strano motivo, Sean McHugh gridò: «Sono qui... nascondetevi tutti!»
Ancor più inspiegabile fu il fatto che tutti obbedirono. La gente correva via in ogni direzione. Sean si precipitò in ufficio e chiuse la porta, poi, d’un tratto, si ricordò che era il capo. Si abbottonò il colletto, tossì e marciò fuori per andare incontro al cliente, bisbigliando con l’angolo della bocca a Betty Collins di «rimanere nascosta».
La prima cosa che Mark notò, quando condusse i due uomini all’interno della fabbrica, fu quanto era silenziosa. Nessuno stava lavorando, il posto sembrava una città fantasma. Mentre si avvicinava all’angolo dove si trovavano i tre salotti, si guardò intorno e sentì tante paia di occhi che lo scrutavano dai posti più bizzarri. Si grattò la testa meravigliato, ma proseguì imperterrito.
«Eccoci qui» annunciò, e fece un gesto con la mano per mostrar loro i tre salotti.
Frank Reel sorrise. Greg Smyth non disse niente, il viso inespressivo, e per un momento non si mosse. D’un tratto passò all’azione. Era come un medico che esamina un neonato. Capovolse i mobili, li girò su un fianco, ci si sedette, e si mise persino in piedi su una delle poltrone. Mark osservava nervoso a braccia conserte. Sean lo affiancò e gli appoggiò una mano sulla spalla. Mark lo guardò preoccupato. Sean si limitò a strizzargli l’occhio.
Poi Mark si avvicinò ai mobili e si trovò faccia a faccia con Greg. «Allora, che ne pensa?» chiese.
Greg teneva in mano uno dei cuscini, e stava tirando con forza un bottone per vedere se si staccava.
«Quanto?» domandò, senza aggiungere altro.
Mark guardò Sean dietro la spalla di Greg Smyth, che subito alzò sette dita. Mark intuì che significava settanta sterline, ma non per niente lui era figlio di un’ambulante... «Novanta sterline a set» disse, imperturbabile.
Sean si coprì il viso con le mani.
«No! Non ve ne darò più di ottanta» rispose Greg Smyth sbrigativo.
Mark allungò la mano e si limitò a dire: «Affare fatto!»
Greg Smyth gli strinse la mano, sorrise e si voltò verso Sean. «Comprerò tutti quelli che riuscirete a fare, Sean».
All’improvviso la fabbrica vuota esplose in un’ovazione, e da ogni angolo corse fuori qualcuno. Mark fece un paio di risatine nervose, che si trasformarono in risate di cuore quando gli operai più anziani lo circondarono, dandogli pacche sulla schiena. Poi lanciò un’occhiata all’ufficio di Sean e vide Betty Collins vicina alla porta. Aveva gli occhi umidi. Era stanca, ma il suo sorriso era largo quasi quanto la porta. Mark ricambiò il sorriso, poi alzò il pugno in aria ed esclamò: «Sì!»