7.

Londra

 

A Manny Wise piaceva farlo. Era appena uscito dalla doc­cia del suo lussuoso appartamento di Edgeware Road, e adesso era seduto, nudo, alla sua scrivania di pelle, un si­garo King Edward nella mano sinistra e un bicchiere di Scotch con ghiaccio nella destra. Aveva lo sguardo fisso di fronte a sé, un sorriso compiaciuto sul volto, come se stesse guardando qualche programma importante alla televisione. Però non era così. Manny aveva aperto lo sportello della cassaforte, e adesso era seduto a contemplare le pile di ban­conote allineate nello scomparto. La Amsterdam connec­tion si era rivelata vincente. Con la costante fornitura a basso costo di cocaina ed eroina, Manny si era costruito una piccola ma solida rete di vendite. Aveva quattro bar, uno a Camden Town, uno a Leytonstone e due a Willes­den, che gli servivano come punti vendita della sua merce, ed erano assai redditizi. Inoltre aveva una dozzina di ra­gazzi, gran parte dei quali fuggiaschi o senzatetto irlandesi sbarcati a Liverpool pensando di trovare l’oro per la strada, che, come succedeva sempre, in quattro e quattr’otto si erano ritrovati senza alloggio e al verde, e la maggior parte di loro era felice di spacciare la «morte bianca» pur di assa­porare la bella vita. Purtroppo però la maggior parte di loro diventavano anche consumatori, e quello che guadagna­vano – invece di migliorare la loro esistenza – gli entrava dritto nel naso o nelle vene. A Manny Wise non importava un fico secco. Il suo scopo era il profitto, a prescindere dal costo in vite umane. L’unico essere umano di cui impor­tasse a Manny Wise era Manny Wise.

Manny si alzò e rientrò in bagno. Lo specchio a figura intera non lo adulava di certo; il sedere stava iniziando ad allargarsi, e quando si girava di fianco sembrava agli ultimi mesi di gravidanza. Si spostò dal bagno all’armadietto dei drink e fece cadere nel bicchiere alcuni cubetti di ghiaccio, sopra ai quali versò un altro Scotch. Poi si avvicinò alla fi­nestra e guardò in basso, su Edgeware Road.

L’auto della polizia in borghese era, come sempre, par­cheggiata dalla parte opposta della strada, davanti al risto­rante cinese. L’agente sul sedile del passeggero alzò gli occhi verso la finestra. Manny tirò da parte la tenda e si scrollò il pene all’indirizzo dell’agente, scoccandogli un gran sorriso. Si divertiva a farsi beffe della polizia. Manny Wise adesso era un pezzo grosso, non più una pedina. E in quanto pe­sce grosso, si riteneva intoccabile. Il campanello della porta suonò. Manny si infilò un paio di boxer di seta, bevve un altro sorso di Scotch e, con nonchalance, andò ad aprire la porta. La vista del ragazzo sulla soglia lo fece sorridere.

«Joe!» annunciò. «Sei in gran forma». Era una bugia. Il ragazzo sulla soglia era davvero malconcio. In conseguenza della prolungata assunzione di droghe, aveva perso interesse nel proprio aspetto e non si lavava più, né si preoccupava del suo abbigliamento. Le guance erano scavate e i denti gialli per la denutrizione, dato che aveva smesso da tempo anche di preoccuparsi del cibo. Joe Fitzgerald, o chiunque fosse – visto che i ragazzi che Manny reclutava usavano più di un nome quando andavano in giro per Londra a firmare per ricevere il sussidio di povertà – era uno dei corrieri di Manny.

Manny conosceva il ragazzo col nome di Joe Fitzgerald. Lo aveva incontrato alla stazione di Liverpool Street, grande centro di reclutamento di giovani derelitti. A Manny era ba­stata una tazza di caffè e una banconota da cinque sterline per attirare nel giro della droga quello che un tempo era solo un delinquentello da strapazzo. Anche se Joe era un ragazzo simpatico, Manny non si fidava affatto di lui. In effetti, in quel momento, non aveva nessuno in cui riporre la propria fiducia. Spesso se ne lamentava, perché riteneva che ogni criminale in gamba, o meglio, come diceva lui, ogni «grande uomo d’affari», dovesse avere un braccio destro. E lui doveva ancora trovarne uno, anche se sapeva bene che un ragazzo abbastanza in gamba da poter diventare il braccio destro di Manny Wise non poteva essere raccattato tra quelli che dor­mivano in una scatola di cartone e facevano la fame alla sta­zione di Liverpool Street.

Col sigaro incollato al lato della bocca, Manny ordinò al ragazzo di aspettare nell’ingresso.

«Ho un paio di pacchettini per te. Uno va a Leytonstone e uno a Camden Town».

«Certo, Manny, certo». Il ragazzo tremava, e gli occhi danzavano sul suo viso. «La madama è parcheggiata dall’al­tra parte della strada, Manny» aggiunse.

«Non ti preoccupare della madama, figliolo. Pensa solo a portare il tuo culo della malora a Camden e Leyton­stone».

Il ragazzo abbassò la testa e disse, calmo: «Okay».

Manny tornò nello studio e rovistò nella cassaforte, ti­rando fuori due pacchetti di carta stagnola con un accurato doppio rivestimento di cellofan. Mentre toglieva i pacchetti dalla cassaforte, notò la busta ormai ingiallita su cui era scritto Documenti di Dublino, e sorrise tra sé mentre ri­chiudeva lo sportello e reinseriva la combinazione. Quando il giovane Joe Fitzgerald lasciò il palazzo dall’uscita di servi­zio, Manny era ancora seduto, a piedi in aria, davanti alla televisione, che finiva lo Scotch e si grattava lo scroto.