8.

Dublino

 

Il successo con la Smyth & Blythe fu solo l’inizio di alcune settimane di intenso lavoro per Mark. Quasi tutta la fab­brica dovette essere modificata per adattarsi alla nuova for­mula di taglio, assemblaggio e rivestimento. Gli altri ap­prendisti della Wise & Co. furono di grande aiuto, dato che la maggior parte stava studiando a scuola quel nuovo metodo di lavoro. Gli operai più anziani vennero confinati nella parte restante della fabbrica, dove continuarono a pro­durre mobili classici, in legno massello.

Mark figurava sempre nel cinque per cento dei migliori allievi della classe di falegnameria. All’inizio del secondo anno, aveva deciso di seguire un altro corso, quello di eco­nomia. Ciò rese felice Agnes, che ormai sentiva che la fa­miglia Browne avrebbe prodotto non solo un artigiano, ma anche un uomo d’affari. Mark aveva un talento naturale per l’economia, e il primo anno ottenne risultati eccellenti. I suoi insegnanti li attribuirono allo studio, ma Mark sapeva che era merito dell’esperienza di venditrice ambulante della madre. Perciò, così come aveva modificato la fabbrica per adattarsi all’obiettivo che si era posto di cento set di mobili al mese, Mark dovette anche apportare qualche leggera mo­difica alla Wise & Co.

Ne discusse a lungo con Mr Wise e Sean McHugh, esprimendo l’opinione che, se la parte della ditta che fab­bricava mobili in legno dolce avesse operato con un nome diverso e come azienda diversa dalla Wise & Co., allora il reparto che lavorava il legno duro massello avrebbe potuto proseguire la sua attività senza essere «contaminato» dalla cattiva reputazione degli arredamenti a buon mercato. En­trambi gli uomini furono d’accordo, e Mr Wise fu orgo­glioso che Mark avesse fatto lo sforzo di tenere alto il nome della Wise & Co. associandolo solo a mobili di qualità. In­sistette sul fatto che, dal momento che Mark aveva «voluto la bicicletta», adesso doveva pedalare, e disse a Mark che avrebbe lasciato a lui il compito di organizzare e sistemare questa nuova ditta. Benjamin Wise sapeva quel che faceva

– stava facendo crescere il suo ragazzo, in modo che alla fine fosse in grado di assumere il controllo di tutta l’im­presa.

Mark si mise in contatto con Michael Fox Jr, il legale di famiglia. In quella definizione c’erano due incongruenze. Per prima cosa, benché continuasse a usare «Junior», Mi­chael Fox, all’età di circa sessantacinque anni, smentiva quell’appellativo. Secondo, riferirsi a lui come al legale della famiglia Browne era un po’ un’esagerazione. L’uomo era stato interpellato dai Browne un’unica volta, quando Si­mon era stato trascinato in tribunale per aver giocato a cal­cio per la strada. Ma era l’unico avvocato che Mark cono­sceva. Mark gli spiegò che desiderava costituire un’altra ditta per la branca della Wise & Co. che costruiva arreda­menti in legno dolce. Per Fox non fu un problema: l’unico imprevisto che saltò fuori, fu quando Mr Fox gli chiese che nome voleva dare alla nuova ditta. Mark dovette pensarci su qualche momento, poi disse: «Senga Soft Furnishings Limited» e sorrise soddisfatto.

In seguito, Mr Wise fu l’unico a capire che il nome della ditta era quello di Agnes scritto alla rovescia, anche se, pre­cisò Mark, senga, cioè «matusa», non rifletteva certo la per­sonalità della madre.

Nelle settimane successive, Mark lavorò giorno e notte perché per la fabbrica la routine di cento salotti al mese non rappresentasse un problema, e a James Larkin Court non si fece vedere molto. Aveva anche diviso con un tramezzo un’altra parte della fabbrica, dove aveva installato tre mac­chine da cucire industriali Singer di seconda mano, com­prate da Sean McHugh a un prezzo molto ragionevole, e Maggie Collins non era stata troppo contenta quando Betty le aveva detto che intendeva lavorare come una delle tre sarte della Wise & Co. Mark aveva anche convinto Sean ad assumere due tagliatori e tre operai, portando così il per­sonale della Wise & Co. a ventisei membri in tutto, il primo aumento di personale che la fabbrica aveva avuto in più di quindici anni. Betty Collins fu entusiasta della sfida e la afferrò al volo, come farebbe un salmone con un’efe­mera. Lavorava molte ore. La sua personalità spumeggiante teneva alto il morale di tutti e, come premio, per la prima volta nella sua giovane vita Betty si innamorò.

L’assenza di Mark da casa era un po’ deprimente per i ra­gazzi. Cathy, anche se fingeva di essere delusa, fu alquanto felice di essere arrivata seconda alla gara di go-kart. Ma quando si era precipitata in casa quel sabato per annunciare il risultato, Mark non c’era. Anche a Dermot mancava la compagnia di Mark, e adesso passava sempre più tempo a bighellonare per i negozi di Dublino, alleggerendoli dei loro articoli nei modi più ingegnosi immaginabili. Rory sentì che non aveva più nessuno cui rivolgersi per placare la paura di tornare a casa ogni sera. Altre due volte era stato inseguito da bande di skinhead, e l’ultima volta era riuscito a scam­parla per un pelo. Non vedeva l’ora che arrivasse l’estate, così sarebbe potuto tornare a casa con la luce del sole. Agnes aveva allungato il «periodo» di Frankie di un altro mese, ma mise bene in chiaro che questa proroga era una sospensione temporanea, non un cambio di idea. La preoccupazione più pressante di Agnes era il giovane Simon. Sulla scorta della decisione della madre nei confronti di Frankie, Simon colse l’opportunità per lasciare la scuola e trovare un lavoro. La cosa non andò giù per niente ad Agnes. Frankie, spiegò a Si­mon, era stato espulso da scuola, mentre l’insegnante aveva descritto Simon come un allievo lento di comprendonio ma adorabile. Ciò nonostante, Simon rimase della propria idea, e fissò un appuntamento per un colloquio di lavoro come inserviente al St Patrick’s Hospital.

Aveva appena comunicato la notizia ad Agnes, ed era in attesa che lei dicesse la sua.

«Allora hai un colloquio?» chiese Agnes.

«S... s... s... sì, ma... ma... mamma» Simon cercò di es­sere il più fermo possibile.

«Sai cosa significa un colloquio?»

Simon guardò la madre, inespressivo, come se non avesse capito la domanda.

«Quel tizio...» iniziò lei con calma, «ti farà delle do­mande».

Simon corrugò la fronte, la bocca rimase aperta, e con lentezza annuì.

«E tu dovrai rispondere... parlargli».

«E... e... e allora?»

Agnes si chinò verso di lui e gli mise una mano sulla sua. «Tu tartagli, amore!» esclamò, come se fosse una sorpresa per Simon.

«E... e... e... e allora?»

Agnes cercava di essere il più gentile possibile. «Non credi che la tua balbuzie potrebbe diminuire le possibilità di avere quel lavoro?»

«N... n... no, pe... perché dovrebbe?» chiese Simon, non capendo, con la massima ingenuità, quale fosse il pro­blema.

Agnes sospirò. «Gesù, figliolo. Se qualcuno ha bisogno di una padella e ti chiama, non farai in tempo a chiedere che... che... che... che vuole, che quello si sarà cacato ad­dosso!»

«Mm... Mm... Ma!... Sono un in... in... inserviente, non un’inf... inf... infermiere, ma... maledizione!»

Agnes dovette arrendersi alla determinazione del ra­gazzo. «Bene. Mi auguro che tu ce la faccia, ho solo paura che tu rimanga deluso, tutto qui. Se ti danno il lavoro, puoi tenertelo».

Il ragazzo sorrise e abbracciò la madre. «N... n... non ti preoccupare, mamma, av... avrò il lavoro!» dichiarò sicuro Simon.

Dieci giorni dopo, Simon era nel gabinetto accanto al­l’ufficio del personale del St Patrick’s Hospital. Fuori, nella sala d’aspetto, c’erano altre venti persone che speravano di ottenere il posto di inserviente. Simon si guardò allo spec­chio. Con una mano su ciascun lato del lavandino si avvi­cinò alla propria immagine riflessa e fece un respiro pro­fondo.

«So... sopra... la... pa... pa... panca» disse allo specchio, e fece un altro respiro profondo, «la capra ca... ca... campa, so... sotto la pa... pa... panca la ca... ca... capra cre... cre... cre..., ah, vaffanculo!»

Dietro di lui, in uno dei gabinetti, qualcuno tirò lo sciacquone, la porta si aprì, e venne fuori un ragazzo, di un anno o due più grande di Simon. Il tizio andò dritto verso l’uscita, aprì la porta, poi si girò verso Simon, si fermò per un istante, e disse: «Cazzo! Mi sa proprio che il posto è mio!» E uscì con una risata.

Simon ebbe un tuffo al cuore. Tornò nella sala d’aspetto e si mise seduto. Ogni volta che incontrava lo sguardo del ragazzo, arrossiva un po’. Tenne gli occhi fissi sulla porta dell’ufficio del direttore del personale e attese.

La porta si aprì, e un altro candidato lasciò la stanza. Sembrava un po’ deluso. Simon si rimproverò per essere stato contento dell’espressione del ragazzo. La segretaria en­trò nell’ufficio e chiuse la porta. Aveva portato un’altra in­fornata di candidature. Qualche minuto dopo aprì la porta e chiamò: «Mr Simon Browne, prego».

Fino a quel momento Simon era stato abbastanza calmo – una calma che quasi sconfinava nella sicurezza. Non si riuscì a spiegare cosa accadde nel momento in cui la giovane donna chiamò il suo nome. Le gambe gli si fe­cero di gelatina, la nausea gli serrò lo stomaco e gli fece gi­rare la testa. Si ritrovò a chiudere la porta dell’ufficio dal­l’interno senza ricordare come si fosse alzato e come fosse arrivato fin lì. La stanza era scarsamente arredata. C’erano quattro armadietti color verde scuro per archiviare i do­cumenti e, di fianco, un tavolo su cui erano accatastate pile di carte. Su una parete campeggiava una grande car­tina geografica che comprendeva le contee di Dublino, Kildare, Wicklow, Louth e Meath. L’intestazione recitava MINISTERO DELLA SANITÀ – ZONA ORIENTALE. Al centro della stanza c’era una scrivania marrone scura parecchio malconcia, dietro la quale era seduto un uomo dall’a­spetto piuttosto emaciato, con occhiali spessi dalla mon­tatura nera. Indossava un completo blu navy, con camicia e cravatta blu, e aveva una testa che si rifiutava di credere di essere calva, con dei folti ciuffi di capelli su ciascun lato e quelle che sembravano venti corde di banjo che anda­vano da una parte all’altra. Senza parlare, l’uomo indicò una sedia dalla parte opposta della scrivania, su cui Simon si sedette subito. Rimase in silenzio per un paio di minuti mentre l’uomo leggeva il modulo di domanda che aveva in mano. Simon riconobbe la propria scrittura sul retro della pagina. L’uomo calvo appoggiò con delicatezza il modulo sulla scrivania, alzò gli occhi su Simon ed esordì: «Qu... qu... quindi... le... le... lei è Si... Si... Simon B... B... Browne».

Per un momento Simon rimase stupefatto. Annuì piano.

L’uomo proseguì: «A... a... allora, pe... pe... perché vuole lasciare la scu... scu... scuola, Si... Simon?»

Per la prima volta, Simon parlò: «Vo... voglio la... lavo... lavorare e, eh, co... comunque... il mi... il mio pro... profes­sore di... di... dice che sono l... l... lento».

Simon iniziò a lavorare come apprendista inserviente al St Patrick’s Hospital il lunedì successivo.

 

La stessa settimana Agnes ricevette una lettera dalla so­rella Dolly. Ancora prima di iniziare a raccontare ad Agnes della sua ultima malattia – un mal di testa continuo che so­spettava essere un tumore al cervello – Dolly si disse molto felice della notizia che Agnes sarebbe andata a trovarla col piccolo Trevor, e malgrado Agnes, nella sua lettera, le avesse raccontato della vincita al bingo, le due banconote da venti dollari nuove di zecca accompagnavano come al solito la busta. Poche ore dopo averla ricevuta, Agnes uscì per pre­notare i voli.

La Constellation Travel di Liffey Street era gestita dai fratelli Donegan, Joe e Tim. Oltre ai due uomini, scapoli di cinquant’anni, la ditta aveva solo un’altra impiegata, ovvero Margaret Sharpe, la segretaria. Il giorno in cui Agnes arrivò in agenzia, Margaret era malata e Joe era andato a conse­gnare dei biglietti a un cliente dall’altra parte della città. Tim era un po’ di malumore – avere a che fare col pubblico non era il suo forte, e lo metteva in ansia rimanere da solo a badare al negozio. Tim era al telefono quando Agnes en­trò. Le fece un cenno e sperò che Joe tornasse prima della fine della telefonata. Nel frattempo Agnes sfogliò un paio di opuscoli, pronunciando a voce alta i nomi delle destina­zioni.

«Mag-a-luf. Gesù!» Prese un altro opuscolo. «Santa-pon­za. Madre di Dio!»

Tim adesso era dietro al bancone, e per rompere il ghiac­cio disse ad Agnes: «Allora, signora, pensa a un viaggio al sole?» Sorrise.

Agnes si voltò per guardarlo in faccia. «Oh, Dio, no, caro! Non andrei mai in un posto che non so pronunciare».

«Be’, allora cosa posso fare per lei?» Tim sospettava che quella signora fosse lì per chiedere informazioni su un viag­gio a Lourdes. Un’altra cacciatrice di miracoli, pensò.

Agnes appoggiò la borsetta sul bancone e sorrise. «Voglio andare in Canada».

Tim ricambiò il sorriso. Prese un blocchetto e una matita e iniziò a scrivere. «Bene, in Canada. E dove?»

«Da mia sorella».

Tim alzò gli occhi dal blocchetto. La signora stava an­cora sorridendo, perciò era evidente che non si trattava di

uno scherzo. Ci riprovò.

«E dove vive sua sorella?»

«Gliel’ho detto: in Canada».

«Sì, ma dove di preciso?»

«Oh, scusa, tesoro». Agnes iniziò a rovistare nella bor­setta e tirò fuori la lettera di Dolly. Lesse l’indirizzo ad alta voce: «1202 Ironwood Court».

Tim annuì con un movimento silenzioso che avrebbe do­vuto spingere a proseguire col resto dell’indirizzo, cosa che lei non fece, limitandosi a guardarlo e a sorridere.

«E dov’è Ironwood Court?»

Agnes ormai stava perdendo la pazienza. «In Canada, per la miseria!»

Tim tirò con delicatezza la lettera verso di sé. Agnes la trattenne.

«Posso dare un’occhiata all’indirizzo, per favore?» chiese, esasperato.

Controvoglia, Agnes gli lasciò prendere la lettera, ma la piegò a metà prima di consegnargliela, in modo che non potesse leggerla tutta.

Tim disse ad alta voce: «Ah! Capisco... a Toronto, in Ca­nada».

Agnes annuì. «Bravo ragazzo».

Tim si piegò sotto il bancone per prendere una guida delle tariffe e degli orari. Mise il grosso libro sul bancone e iniziò a sfogliarlo. Alla fine si fermò e fece scorrere il dito su una colonna.

«Bene. Potrebbe fare scalo a Ginevra». Alzò gli occhi.

Agnes ci pensò per un istante. «Ginevra? È una specie di jumbo?»

«No, Ginevra è in Svizzera».

«Io voglio andare in Ca-na-da, per l’amor di Dio».

«Lei arriverà in Canada, però il modo più economico sa­rebbe quello di transitare per Ginevra».

«Ma arriverò da mia sorella?»

Tim le fece un largo sorriso. Sognava che la donna si smaterializzasse all’istante. «Certo che sì, signora. Ha già deciso una data?»

«No, non ancora».

«Ah! Perciò le interessa la spesa?»

«No, no, la spesa l’ho fatta, voglio solo sapere il prezzo del biglietto».

«Posso prenotarle un volo charter da 199 sterline an­data e ritorno. È davvero un buon prezzo, mi creda».

«Fantastico. Sì, mi sta bene. Porterò anche mio figlio, muore dalla voglia di conoscere il nuovo zio. È canadese, sa, e direttore di banca».

«E quanti anni ha?»

«Quasi quarantuno, credo. Mi faccia pensare...»

«Suo figlio ha quarantun anni?»

«Ma no! Lo zio ha quarantun anni. Mio figlio ne ha solo otto».

Tim Donegan ne aveva avuto abbastanza. «Be’, dato che ha meno di dodici anni, avrà una riduzione del cinquanta per cento. Cioè, pagherà metà prezzo. Quindi ora sa tutto. Quando avrà una data, passi a trovarci, e ci penseremo noi».

«Come ti chiami, tesoro?»

«Io? Eh, Tim, Tim Donegan».

«Magnifico, Tim, chiederò di te la prossima volta che metterò piede qua dentro, perché non ce la farei a rispon­dere da capo a tutte quelle domande».

Poi sorrise, prese la borsetta e uscì dall’agenzia di viaggi. Appena se ne fu andata, Tim Donegan mise su il bollitore per prepararsi una tazza di tè caldo e ingollò un valium.