9.

Frankie Browne era seduto sul muretto alto poco più di mezzo metro che circondava la chiesa di St Jarlath. Accanto a lui, die­tro al muretto, altri tre skinhead giocavano a poker. Benché anche lui fosse un bravo giocatore di poker, quel giorno non aveva voglia di unirsi alla partita, aveva la testa da un’altra parte. Mancavano solo dieci giorni alla scadenza dell’ultima­tum della madre, e ancora non sapeva dove andare. Non aveva intenzione di trovarsi un lavoro. Il lavoro era per i «babbei». Lui non era un babbeo, era troppo in gamba per essere un bab­beo. Pensò di andare a Londra – aveva sentito che Londra era una gran città per certi traffici. Bunty Flynn aveva detto che il fratello era a Londra da tre anni e che riceveva il sussidio di di­soccupazione da sei diversi uffici, guadagnando circa duecento sterline alla settimana. Era questo il genere di soldi che inte­ressava a Frankie, soldi veri. Fece un ultimo tiro dalla sigaretta e buttò il mozzicone verso il marciapiede. Proprio in quel mo­mento, da dietro l’angolo della chiesa di St Jarlath, un altro skinhead, «Pelorosso» Cullen, arrivò di corsa. Quando rag­giunse il gruppo era senza fiato.

Frankie si alzò in piedi. «Che succede, Pelorosso?»

«I ragazzi... i ragazzi hanno pizzicato un frocio a Peck’s Lane. Venite!»

La partita a carte venne abbandonata, e tutti e cinque si precipitarono dietro l’angolo della chiesa. Peck’s Lane era a solo qualche minuto di corsa. Quando arrivarono all’en­trata del vicolo, videro sei amici skinhead che si dimena­vano attorno a una figura prona. Dato che il ragazzo era già a terra, la banda si accontentò di mollargli qualche calcio.

Frankie fu l’ultimo dei cinque a unirsi agli aggressori. Quando arrivò, vide un varco aprirsi tra le gambe dei suoi amici, e ci infilò lo scarpone in mezzo, conficcandolo con violenza nella schiena della figura prona. Il calcio strappò un acuto guaito di dolore al ragazzo e un grido di gioia a Frankie. Alcuni indietreggiarono per lasciare che anche Frankie gli desse una bella ripassata. Mentre torreggiava sul corpo, vide che il braccio sinistro era rotto, il polso piegato all’indietro, la testa scurita dal sangue, e che quelli che do­vevano essere stati vestiti abbastanza decenti adesso erano ridotti a brandelli. Prese la vittima per la nuca, pronto a colpire di nuovo, e slanciò indietro lo scarpone. In quel momento il corpo piagnucolò. Per un istante Frankie ebbe un’esitazione – c’era qualcosa in quel piagnucolio. Era in­fantile, e gli ricordava qualcosa. L’aveva sentito anni prima. L’aveva sentito poco dopo la morte del padre, quando lui e gli altri fratelli Browne dividevano ancora lo stesso letto. Si chinò, prese il corpo per la spalla, lo girò e vide il viso pe­sto di Rory Browne, a malapena cosciente. Prima di sve­nire, Rory disse: «Frankie?»

 

«Allora, che ne pensate?» chiese Mark, che non era si­curo di aver fatto la cosa giusta.

I due anziani non replicarono. Continuarono a cammi­nare per il negozio impolverato, lanciando occhiate al sof­fitto, sbattendo i piedi sul pavimento. Mark guardava Betty. Lei lo teneva sottobraccio. Gli diede una strizzatina e sorrise.

«L’affitto è solo di 80 sterline al mese, e possiamo prov­vedere noi alla maggior parte dell’arredamento» proseguì Mark.

Ancora nessuna risposta, né da Sean McHugh, né da Benjamin Wise. Sean aveva tutt’e due le mani in tasca, mentre Mr Wise le teneva ciascuna sulla manica dell’altro braccio, come se indossasse un manicotto. Alla fine Mr Wise parlò.

«Ottanta sterline al mese?»

«Sì, ottanta sterline al mese».

Mr Wise si girò verso Sean. «Non è male, Sean, vero?»

«Per niente, Mr Wise. Niente affatto male».

Mark si allontanò dal fianco di Betty e, mentre si avvici­nava ai due uomini, disse: «Ci permetterebbe di avere un negozio di vendita al dettaglio tutto nostro... solo per i mo­bili di qualità, quelli in legno duro massello».

«E come vorresti chiamarlo? Ripetimelo, Mark».

Mark parlò con voce alta e fiera. «Wise & Co. Mobili su Misura».

Mr Wise si voltò verso Sean e gli si rivolse a voce alta, come aveva fatto Mark. «Mobili su Misura, Sean! Mi piace. Che ne pensi?»

Sean sorrise. «Penso sia un’idea magnifica, Mr Wise. Lei e io dirigeremo il negozio, lasciando a Mark la fabbrica».

Mr Wise non replicò. Guardò invece Mark, lì in piedi, alto, robusto e bello. Invidiava al ragazzo la gioventù e l’e­nergia. Certo, era una buona idea. Il ragazzo aspettava, spe­ranzoso. Mr Wise tolse le mani dalle maniche e allungò le braccia in avanti, con i palmi rivolti verso l’alto, come se stesse porgendo un regalo. «Bene, giovane Mark Browne, pare proprio che abbiamo un negozio!»

Mark fece un largo sorriso e si lanciò a illustrare i progetti che aveva in mente, prendendo per il braccio Mr Wise e mo­strandogli le sue idee riguardo la disposizione del negozio, centimetro per centimetro. Era ormai lanciato, quando qual­cuno bussò alla porta interrompendo la sua galoppata. Tutt’e tre gli uomini si voltarono, e videro il giovane Tom Lewis, apprendista del reparto mobili in legno dolce, in piedi senza fiato davanti all’ingresso, che indicava la serratura e formava con la bocca le parole: «Aprite la porta».

Fu Betty ad aprire. Tom le passò svelto davanti e si avvi­cinò a Mark. «Mark, tua madre ha telefonato in fabbrica. Devi andare al St Patrick’s Hospital, tuo fratello ha avuto un incidente».

Mark impallidì. «Quale fratello? Ha detto quale fra­tello?»

«Rory... ha detto che era Rory».

Senza rivolgere un’altra parola ai due anziani gentiluo­mini o a Betty, Mark lasciò come un razzo quello che sa­rebbe diventato il negozio di vendita al dettaglio della Wise & Co. Gli girava la testa mentre i piedi correvano verso il St Patrick’s General Hospital.

Quando Mark arrivò in ospedale, Rory era stato trasfe­rito dal pronto soccorso alla terapia intensiva. Confuso, Mark percorse i corridoi più in fretta che poté in cerca del reparto, e per fortuna si imbatté in Simon che stava spin­gendo un carrello, con la divisa verde degli inservienti dell’ospedale.

«Simon, che succede?»

«Ge... Ge... Gesù, Ma... Mark! È combinato pro... pro­prio male».

Mark era sempre più angosciato. «Oh, no! Dov’è la tera­pia intensiva?»

«Vi... vi... vieni, ti faccio vedere».

Un paio di minuti dopo, Mark era accanto al letto del fra­tello minore Rory, insieme con la madre, Dermot, Cathy, Si­mon e il piccolo Trevor. Rory aveva un aspetto orribile. En­trambi gli occhi erano gonfi, neri e chiusi.

Agnes spiegò a Mark l’entità delle lesioni. «Ha il naso rotto, e anche il braccio sinistro. E tre costole fratturate». Singhiozzava con violenza tra una frase e l’altra. «Ha dei punti sotto l’occhio sinistro e sopra l’occhio destro, e anche quattordici punti sulla schiena. Avrebbero potuto ammaz­zarlo». Poi iniziò a piangere senza controllo.

Mark la prese tra le braccia e la strinse forte. Le parlò con dolcezza all’orecchio. «Mamma, sta bene adesso, è al sicuro. Stai soltanto spaventando i bambini».

«Lo so, mi dispiace, amore. È solo che non riesco a cre­derci!»

«Sssh. È tutto a posto, mamma, adesso ci sono qui io. Senti, porta a casa Trevor e prepara la cena, che noi ti rag­giungiamo tra poco. Va’! È al sicuro, adesso, sta bene».

Agnes non replicò, ma si portò il fazzoletto agli occhi e annuì. Si avvicinò al letto di Rory e gli diede un bacio sulla guancia. Tra le labbra gonfie, Rory mormorò: «Grazie, mamma».

«Vado a casa a preparare la cena per i bambini. Torno più tardi, amore, okay?»

«Okay, mamma».

Agnes prese Trevor e lasciò l’ospedale. Mark si sedette sul bordo del letto e si chinò sul fratello. Rory alzò lo sguardo sul viso di Mark. Mark sorrise e gli strizzò l’occhio, e Rory si sentì al sicuro. Sbatté le palpebre e, quando lo fece, due lacrimoni gli caddero dagli occhi.

«Allora, sono stati gli skinhead?» chiese Mark.

Rory si limitò ad annuire.

«Quanti erano?»

«Otto, forse dieci» sussurrò Rory.

«Bastardi! Come un branco di lupi». Mark si stava sfor­zando di tenere a bada la rabbia. Mise con delicatezza una mano su quella di Rory e gliela tenne, senza stringere troppo. «Li riconosceresti, Rory?»

Rory guardò Mark negli occhi un po’ più a lungo del ne­cessario, poi scosse la testa e mormorò: «No».

Mark annuì, e si voltò verso Dermot. «Dermo, porta Cathy con te e andate a casa. Di’ alla mamma che arrivo tra poco, voglio parlare un momento con Rory da solo, okay?»

Dermot non aveva nessuna voglia di andarsene, ma ac­condiscese al desiderio del fratello. «Va bene, d’accordo, ma so di che cosa parlerete voi due, Mark, e se tu hai inten­zione di dargli la caccia, voglio esserci pure io. È anche mio fratello, sai» disse, mentre prendeva il cappotto di Cathy.

Mark sorrise e gli passò un braccio intorno al collo. Lo attirò verso di sé, mimando uno strangolamento. «Okay, lo so che sei un duro. Non preoccuparti, ci sarai anche tu».

«Dico sul serio» insistette Dermot.

«Lo so che dici sul serio e anche io, Dermo, te lo prometto. Adesso fila a casa. Porta Cathy fuori di qui».

Quando i due ragazzi furono usciti dal reparto, Mark ri­volse di nuovo la sua attenzione a Rory. «Li hai ricono­sciuti, Rory, non è così?»

Rory non replicò, non annuì né scosse la testa, ma gli occhi si riempirono di lacrime.

«Erano del posto? Del nostro quartiere?»

Rory prese a singhiozzare ad alta voce, il corpo scosso dai tremiti, boccheggiando.

Mark si chinò e lo abbracciò. «Sssh! Prendi tempo, rilas­sati. Non voglio metterti in agitazione, voglio solo sapere, tutto qui. Calmati».

Dopo qualche momento, Rory si era calmato e, invece di piangere, tirava su col naso. Tossì per schiarirsi la voce dal catarro che sempre accompagna i singhiozzi. Mark si chinò, avvicinandosi il più possibile a lui, lo prese per le spalle e gli parlò in tono fermo ma gentile, continuando a guardarlo negli occhi.

«Chi è stato?» disse, in un tono che pretendeva una ri­sposta.

Le labbra di Rory iniziarono a tremare, e la risposta fil­trò fuori dalla sua bocca: «È stato Frankie».

La stretta di Mark aumentò, facendo male a Rory, che emise un piccolo gemito. Il viso di Mark, prima pallido, adesso era blu. Si alzò di scatto. «Ci vediamo dopo, Rory». Girò sui tacchi e lasciò il St Patrick’s Hospital: era un ra­gazzo infuriato e pericoloso.

Mark non entrò in casa, vi fece irruzione. Sembrava pronto a uccidere. Cathy, Trevor e Simon erano seduti sul di­vano a guardare la televisione, tutt’e tre sobbalzarono e rima­sero seduti a bocca aperta alla vista di quel pazzo furioso che somigliava al loro fratello. Mark si precipitò in cucina. Der­mot aveva appoggiato il tegame sul fuoco e stava per metterci dentro le salsicce.

«Dov’è Frankie, Dermo?»

«Frankie? Non è qui». Dermot aveva un tremito nella voce. Mark andò in camera. La prima cosa che attirò il suo sguardo fu il secondo cassetto dall’alto del comò, che era stato tirato fuori ed era vuoto. Mark spalancò l’anta dell’armadio, anche quello vuoto – era tutto sparito, compreso il completo nuovo di Mark.

«Bastardo!»

Tornò in cucina. Dermot rimase sbigottito, con più di due etti di salsicce che gli penzolavano dalla mano sinistra come una gigantesca collana di perle. Gli altri tre fratelli, al­trettanto sconvolti e non poco spaventati, sbirciarono in cu­cina dalla stanza della TV.

«Dov’è la mamma?» chiese a Dermot.

«È... è in camera sua... in camera da letto».

Mark si girò e andò verso la porta della camera da letto della madre. Bussò con un tocco leggero ma frenetico, e aprì la porta. Agnes era seduta sul letto. Aveva le spalle curve e, poco a poco, si voltò verso Mark. Aveva pianto. Mark rimase sulla soglia.

«Tutto bene, mamma?»

Agnes non rispose al suo primogenito. Alzò invece la mano sinistra. Reggeva uno stivale di camoscio. Lo capo­volse. Era vuoto.

In quel momento, il traghetto Hibernia della B&I Fer­ries stava passando davanti alla nave faro di Kish, l’ultima della costa irlandese. Il traghetto era diretto in Inghilterra. E anche Frankie Browne.