12.

Dublino, 1974

 

«Tanti auguri, caro Ma-ark, tanti auguri a te».

Seguì un applauso generale. Mark era imbarazzato, e si vedeva. Scoccò un paio di occhiate di soppiatto ad Agnes. Aveva gli occhi pieni di lacrime ma sembrava molto fiera.

«Spegni le candele, Mark!» gridò Betty.

Mark teneva per mano Betty mentre si chinava sulla torta a forma di un grande ventuno, e con un gran soffio spense tutte le candeline. L’impresa fu di nuovo accolta da un applauso scrosciante, e per la gioia di Agnes il DJ suonò a tutto volume Cliff Richard che cantava Congratulations.

Agnes era felice di aver deciso di organizzare la festa per il ventunesimo compleanno di Mark a casa. Il giardino sul retro era grande a sufficienza per il tendone, per il noleggio del quale Mark aveva pagato ottanta sterline. Quello che prima era stato il ripostiglio del carbone adesso era il bar. Era gestito da Dermot e Bomba Brady. Erano riusciti a pro­curarsi un frigorifero e qualche fusto di Guinness da... Dio sa dove! Per la verità, il frigorifero era un prestito del Carrick Inn, il pub del posto, e i fusti erano stati gentilmente offerti dalla Guinness e dai treni merci delle ferrovie irlandesi.

Era una sorta di piccolo mercato nero quello che gesti­vano Dermot e Bomba. Scendevano al canale che scorreva parallelo ai binari, vicino a Ratoath Road. Lasciando Du­blino, il treno acquistava velocità, e mentre si avvicinava a Glasnevin, visto che attraversava una zona abitata ed era notte, il conducente spegneva il motore e procedeva per forza d’inerzia su quel tratto di ferrovia. Tornava ad accele­rare solo a Blanchardstown. Buster e Dermot avevano ar­chitettato un piano. Mentre il treno avanzava a motore spento davanti al cimitero di Glasnevin, loro saltavano a bordo. Il treno era composto da quaranta o cinquanta car­rozze, tutte piene di fusti di Guinness. Il trucco consisteva nell’appoggiarsi ai fusti di mezzo e con entrambi i piedi spingere uno dei fusti esterni fuori dal treno e sul terra­pieno. I ragazzi ne spingevano uno ciascuno, poi saltavano giù dal treno prima che avesse il tempo di accelerare e tor­navano indietro sui binari, recuperando i due fusti e roto­landoli fino a casa attraverso i campi.

Avevano instaurato un ottimo rapporto col proprietario del Carrick Inn, e anche se lui ne avrebbe presa una forni­tura illimitata, i due ragazzi si limitavano a un fusto cia­scuno a settimana. Le cose non andavano sempre secondo i piani, e in più di un’occasione Bomba si era ritrovato a non riuscire a scendere fino a Portlaoise, a più di sessanta chilometri da casa, e a dover tornare indietro in autostop, mezzo congelato, alle prime ore dell’alba. Tuttavia il gioco valeva la candela, e faceva fare qualche soldo in più ai due ragazzi, che pur lavorando – Dermot in una fabbrica di filo spinato, e Bomba nello stesso forno del padre come ap­prendista fornaio – non disdegnavano certo qualche spic­ciolo extra.

Rory aveva portato alla festa un nuovo amico, Dino Doyle. Come Rory, era un hair stylist qualificato e, come Rory, era omosessuale. Agnes non sapeva dell’omosessualità di Rory, e ancora nutriva la speranza che un giorno avrebbe incontrato una brava ragazza e si sarebbe sistemato. Per la ve­rità, lui una volta aveva cercato di dirglielo. Era successo du­rante uno dei giorni liberi della settimana di Rory. Anche Agnes si era presa un giorno di riposo, ed era seduta insieme a lui in cucina a bere una tazza di tè in tutta tranquillità.

Rory alzò gli occhi sul viso della madre. «Mamma?»

«Sì, amore, che c’è?»

«Voglio che tu sappia una cosa...»

Agnes sorrise al figlio. «Sì, amore, cosa vuoi che sappia?»

Rory esitò prima di comunicare la notizia, che per Agnes sarebbe certo stata scioccante. «Io... io non sono etero, mamma».

Agnes continuò a sorridere, e replicò tutta tranquilla: «Lo spero bene, i miei figli sono tutti sani come pesci» poi si alzò e iniziò a pulire la cucina.

A parte Frankie, che Agnes sapeva non ci sarebbe stato, mancavano ancora Cathy e Simon, che però sarebbero ar­rivati presto. Simon aveva il turno di sera in ospedale, dove ormai era inserviente capo, e sarebbe arrivato a casa verso le dieci, in tempo per il momento delle scenette comiche. Cathy si era allontanata un momento dalla festa per andare a casa di Cathy Dowdall, due porte più avanti, dove Cathy stava mettendo a nanna il figlioletto. Nessuno a Wolfe Tone Grove, e nemmeno a Finglas, si era sorpreso quando, solo un anno prima, Cathy Dowdall era rimasta incinta. Cathy Browne aveva perso il conto della quantità di falsi allarmi che la migliore amica aveva avuto prima di cadere infine preda delle «gioie della maternità». Il figlio, Emmet, che adesso aveva tre mesi, era un bambino stupendo, ed en­trambe le Cathy stravedevano per lui.

La madre di Cathy Dowdall era rimasta al fianco della figlia per tutta la gravidanza e durante il parto, e anche se la giovane Cathy non aveva mai rivelato a nessuno chi fosse il padre, con la madre aveva fatto un’eccezione, e le aveva detto, mentendo, che si trattava di un avvocato. Quella ri­velazione fece sentire molto meglio la donna, la quale pensò che, illegittimo o meno, il bambino avrebbe avuto almeno un po’ di cervello. Cathy Dowdall non avrebbe mai osato confessarle la verità, e cioè che il padre era in realtà un ma­cellaio del supermercato della zona. Carmel Dowdall non scoprì mai il segreto della figlia, e non si chiese nemmeno da dove venissero, ogni sabato, il chilo di pancetta, il mezzo chilo di salsicce fatte in casa, il chilo di carne macinata, il pollo e l’arrosto per la domenica.

Il piccolo Emmet era un po’ irrequieto, e Cathy Dow­dall disse che si sarebbe trattenuta un po’ più a lungo prima di tornare alla festa. Cathy Browne invece si affrettò, per­ché aspettava il suo ospite d’onore. Se la ricerca del diverti­mento di Cathy Dowdall era finita con la nascita di un bel bambino, anche la ricerca dell’amore di Cathy Browne aveva dato i suoi frutti, circa due mesi prima, quando aveva conosciuto Mick O’Leary. Era stato un colpo di fulmine per entrambi. Si erano visti quasi tutti i giorni dopo il loro primo incontro, a volte di mattina, altre volte di sera, a se­conda del turno di lavoro di Mick. Mick veniva da Bishop­stown, Cork, ed era a Dublino solo perché il lavoro l’aveva portato lì. Il fine settimana successivo Cathy avrebbe fatto un viaggio a Cork per incontrare i genitori di Mick, ma quella sera toccava a Mick essere presentato al clan dei Browne.

Mentre tornava di corsa al numero 43 e alla festa, Cathy vide l’ombra di un uomo andarle incontro a metà strada. Dalla sua camminata pensò subito che si trattasse di Mick, cosa che le fu confermata quando lui la chiamò per nome. L’uomo affrettò il passo, e, quando si incontrarono davanti al cancello di casa Browne, si abbracciarono e si baciarono con passione.

«Sembra un pandemonio, questa festa» disse Mick, indi­cando la casa con un cenno della testa.

«Sì, è vero. Stai per incontrare i Browne al loro meglio...

o al loro peggio» disse Cathy pudica.

«Be’, mi hai parlato così tanto di loro, Cathy, che mi pare di conoscerli già. Dai, andiamo a conoscere la famiglia Browne».

Cathy rise, e tenendosi per mano i due entrarono al nu­mero 43. Guardarono nel salotto, pieno zeppo dei vicini più anziani. Peggy McDonald era ubriaca fradicia e stava offrendo al pubblico un’interpretazione di Frankie and Johnny. Peggy stava arrivando a un verso importante della canzone, perciò si chinò sulla faccia del marito e sputac­chiò, cantando That there ain’t no good in men! La cosa su­scitò un’ovazione tra le donne e risate a crepapelle tra gli uomini. Cathy e Mick ripiegarono in fretta.

All’ingresso, Mick alzò gli occhi sulle scale e vide un ra­gazzo seduto in cima. Sulle gambe aveva quello che sem­brava un blocco da disegno, e le mani si muovevano con fu­ria.

«Chi è?» chiese Mick.

«È mio fratello più piccolo, Trevor. Non la smette mai di disegnare... credo sia un po’ ritardato» rispose Cathy, e lo tirò verso la porta sul retro, dove si stava svolgendo l’azione principale. Scesero i due scalini che immettevano nel giar­dino posteriore, e Cathy si avvicinò al bar dove Bomba e Dermot adesso erano ubriachi fradici e cercavano di cantare Chirpy Chirpy Cheep Cheep al ritmo del disco che suonava sotto il tendone.

«Dermo! Dermo! Dov’è la mamma?» gridò Cathy più forte di tutto quel chiasso.

Dermot si girò verso Bomba e disse: «Bomba, che ci ho la faccia rossa?»

«Rossa? No, Dermo, non ci hai la faccia rossa».

«Perciò non mi si può essere infilata nel culo».

I due scoppiarono a ridere, abbracciandosi come solo gli ubriachi sanno fare.

«Dermo, dico sul serio, dov’è la mamma?» Cathy adesso era un po’ seccata.

Dermot si pentì. «Scusa, Cathy, stavo solo scherzando. È dentro, da qualche parte... tu va’ a prenderla, che io offro da bere al tuo amico» propose.

Cathy strinse la mano di Mick. «Ti dispiace, Mick?»

«Ma niente affatto! Va’ a prendere tua madre, ragazza, che io faccio due chiacchiere col barista».

Cathy svanì nel tendone e Mick si avvicinò al bar.

«Che ti do, amico?» chiese Dermot.

«Oh, una pinta di Guinness, credo, visto che ne avete tanta».

«Abbiamo la Guinness, abbiamo la Smithwicks, ab­biamo la Harp, abbiamo tutte le birre che vuoi, amico, giu­

sto, Bomba?»

«Giusto, Dermo».

«Browne e Brady, fornitori delle migliori birre alla spina» ridacchiò Dermot, mentre iniziava a riempire la pinta.

Quando il bicchiere fu pieno per due terzi, lo appoggiò su un vassoio raccogligocce per fare sedimentare la schiuma. Poi rivolse tutta la sua attenzione a Mick.

«Allora, amico, sei tu il ragazzo di cui abbiamo tanto sentito parlare?»

Mick sorrise. «Be’, accidenti, spero di sì. Altrimenti avrei speso un sacco di soldi nelle ultime due settimane per por­tare fuori la ragazza di qualcun altro».

Dermot rise di cuore, l’uomo gli piacque all’istante. «Dal tuo accento deduco che non sei di Dublino. Da dove vieni?»

«Da Cork» disse Mick, e fece un cenno col capo verso la pinta, che adesso era pronta per essere riempita fino al­l’orlo.

Dermot prese la pinta, spinse in avanti la maniglia della pompa e iniziò a riempirla di cremosa Guinness. La mise di fronte allo sconosciuto di Cork e continuò con le do­mande.

«Allora, di’ un po’, come ti chiami, amico?»

Mick prese la pinta, la studiò come dovrebbe essere stu­diata una prima pinta, poi rispose: «Be’, mi chiamo Mi­chael, ma i ragazzi della stazione mi chiamano Mick». E bevve un lungo sorso di birra fresca.

«Bene, allora, che Mick sia! Adesso senti, Mick, semmai dovessi aver bisogno di qualche vestito a buon prezzo... Sta­zione? Che cazzo di stazione?»

Mick allontanò il bicchiere dalla bocca e si leccò con cura il baffo di crema rimasto sul labbro superiore. Poi fece schioc­care le labbra e si girò verso Dermot. «La stazione di polizia di Finglas, sono un poliziotto».

Dermot incespicò cadendo all’indietro. Forse sarebbe ri­uscito a rimanere in piedi con un po’ di aiuto da parte di Bomba, ma Bomba stava facendo del suo meglio per reg­gersi sulle gambe, mentre continuava a vomitare dietro i due fusti di Guinness rubati. Mick O’Leary sorrise e portò con sé la pinta verso l’entrata del tendone.

Arrivò giusto in tempo per incontrare Cathy, che teneva la madre per mano, mentre lei, a sua volta, teneva per mano Pierre. Il trio uscì dal tendone e si ritrovò nell’aria fresca della notte. Cathy fece le presentazioni.

«Mamma, questo è Mick».

Agnes alzò gli occhi sul viso dell’uomo, e in quel mo­mento, per la prima volta, si rese conto che la figlia era di­ventata donna. Mick aveva i lineamenti regolari, con l’ecce­zione di un naso a punta un po’ sproporzionato. Aveva un sorriso largo e una stretta di mano calorosa. Agnes gli sorrise.

«Benvenuto a casa nostra, figliolo, spero ti prenderai cura di mia figlia».

«Accidenti, signora, la tratto come i gioielli della corona» replicò Mick, continuando a sorridere.

Pierre tossì. Cathy riprese: «Mick, questo è Pierre. È il... mia madre e Pierre sono... è come un padre per noi» decise alla fine.

Pierre era raggiante. Se anche avesse avuto un mese per prepararla, Cathy non avrebbe potuto scegliere una presen­tazione più adulatoria. Allungò la mano, Mick la prese e la strinse con calore.

«Mi fa molto piacere conoscerti, Pierre».

«Fa molto piacere anche a me. Ho un immenso rispetto per gli uomini in divisa. Anche io ne ho indossata una, sai... sì, davvero, quando ero nella Legione Straniera francese».

Agnes lo interruppe. «Non dargli retta, Mick, dice un sacco di stronzate».

«No, no, tesoro mio, è vero!» esclamò Pierre.

«Sì, certo, Pierre, tesoro. Adesso mi verrai a dire anche che in realtà sei James Bond e che lavori in pizzeria sotto copertura».

Mick e Cathy scoppiarono a ridere. Pierre finse di essere offeso, ma al tempo stesso stette allo scherzo.

«Ecco, Pierre, porta Mick al bar e offrirgli un altro bic­chiere. Voglio dire due parole a mia figlia» ordinò Agnes.

Pierre mise il braccio attorno alla vita del ragazzo, perché le spalle erano troppo alte, e lo guidò di nuovo verso il bar, ini­ziando a raccontargli la storia di come, da solo, aveva cattu­rato sei terroristi algerini armato solo di uno spazzolino da denti e di un rasoio Gillette. La madre e la figlia li guardarono allontanarsi.

«Be’, mamma, che ne pensi?»

«Sembra a posto. Ma gesussanto... un poliziotto! Non lo so, Cathy».

«Ah, per l’amor di Dio, mamma, è un lavoro, mica una malattia».

Agnes si voltò verso la figlia e la guardò in faccia. Era una faccia che conosceva bene – l’aveva vista allo specchio, ventiquattro anni prima. Le prese entrambe le mani tra le sue.

«Dimmi, tesoro, tu che ne pensi?» chiese Agnes.

Per un momento Cathy abbassò gli occhi; poi, alzando la testa, ricambiò lo sguardo della madre.

«So che sono passati solo un paio di mesi, mamma, ma penso di amarlo».

Agnes strinse un po’ più forte le mani di Cathy. «E quando lui ti bacia, amore, senti una piccola piuma che ti solletica la schiena, su e giù?»

«Sì! Proprio così!» rispose Cathy eccitata, non immagi­nando che anche qualcun altro potesse aver provato una sensazione del genere.

«Allora hai trovato quello giusto. Non fartelo mai sfuggire, tesoro». Agnes lo disse con un gran sorriso, e fece per lasciare le mani di Cathy, che però gliele trat­tenne ancora.

«È questo che provavi, mamma? Con papà... la piuma che ti solleticava la schiena?»

Il sorriso di Agnes era triste. «No, amore. Con tuo padre era un cubetto di ghiaccio. Non ho sentito la piuma finché non ho incontrato Pierre. Adesso dai, andiamo a prendere i nostri uomini».

Cathy abbracciò forte la madre, e le due ragazze anda­rono a unirsi ai propri cavalieri.

Seguirono un paio d’ore di canzoni e di balli, e l’aria della notte su Wolfe Tone Grove traboccava di risate e allegria, mentre la folla ubriaca festeggiava il ventunesimo com­pleanno di un bravo ragazzo. Agnes Browne era piena di gioia e di orgoglio nei confronti della sua famiglia, e anche se il traghetto aveva portato dall’altra parte del mare, in In­ghilterra, un pezzetto del suo cuore, ciò che ne rimaneva straripava di felicità.

Rory ballò come un pazzo col suo amico Dino – a quanto pareva i due non avevano fortuna con le ragazze presenti, pensò Agnes. Cathy era seduta sulle gambe del fi­danzato poliziotto, e parlavano e si guardavano come se il resto del mondo avesse smesso di esistere. Mark festeggiava l’età in cui si diventa ufficialmente uomini, anche se Agnes sapeva che quel ragazzo era un uomo da quando aveva quattordici anni. Dermot e Bomba Brady, chissà perché, erano al piano di sopra, a riporre certe cose in soffitta, e Trevor dormiva come un ghiro nel suo letto.

All’improvviso, la musica si interruppe, Agnes sentì il DJ soffiare in un microfono e annunciare: «Signore e signori! Un po’ di silenzio, per favore. Un breve discorso dall’uomo del momento: Mr Mark Browne».

L’annuncio fu accolto da un grande applauso infram­mezzato da qualche insulto amichevole dei compagni della squadra di calcio di Mark, e, quando Mark prese il micro­fono, Agnes si alzò dallo scalino del giardino posteriore, di­rigendosi verso l’entrata del tendone per ascoltare il di­scorso.

«Signore e signori» iniziò Mark, che per tutta risposta ri­cevette prese in giro e grida del tenore di «Ma piantala!».

Mark rise ma proseguì. «Amici e parenti! Non riuscirò mai a ringraziarvi abbastanza per tutti i regali che ho ricevuto. È magnifico avere qui, nella nostra nuova casa, tanti amici, sia del centro che di Finglas. Ho chiesto al DJ di lasciarmi parlare per due motivi, nessuno dei quali era fare un di­scorso. Il primo motivo è che voglio ringraziare una per­sona molto speciale». Tutte le teste si girarono verso l’en­trata dove si trovava Agnes Browne. Betty andò dietro la postazione del DJ e ne uscì con un mazzo di rose. Mark prese il mazzo dalle mani di Betty, lo circondò col braccio destro e continuò il discorso. «Ho tra le braccia un mazzo di rose, sono ventuno rose gialle e tre rosse. Vorrei spiegare cosa stanno a significare. Le ventuno rose gialle, mamma, sono per ricordarti dov’eri e cosa stavi facendo ventuno anni fa. Spero ne sia valsa la pena».

Agnes era immobile sull’entrata e si limitò ad articolare con le labbra un «Sì!»

«La prima rosa rossa, mamma, è per ringraziarti di tutto ciò a cui hai rinunciato per cercare di darci una vita mi­gliore». Nel tendone adesso c’era un silenzio assoluto. «La seconda rosa rossa, mamma, è da parte di tutti i tuoi figli e di tua figlia per ricordarti quanto ti amiamo. E la terza rosa rossa, mamma, è perché ne volevo una in più nel mazzo, e volevo che tu sapessi che se anche stasera potessi raccogliere tutte le rose del mondo e riunirle sotto questa tenda, tu ne meriteresti comunque una in più».

Agnes si avvicinò al figlio e lo abbracciò. Prese i fiori e se li strinse al petto come un neonato. Abbracciò Betty, e le loro lacrime si mescolarono: all’improvviso venne circondata da vicini e amici e tentò di fingere indiffe­renza.

Mark chiese di nuovo l’attenzione della folla e, quando ebbe ottenuto un ragionevole silenzio, continuò il discorso. «Non ho ancora finito. Vorrei anche annunciare che, col permesso di Mrs Collins e di mia madre, da stasera Betty e io siamo ufficialmente fidanzati».

La notizia fu accolta da un’ovazione e, mentre la folla batteva le mani e urlava, Mark sorrise e infilò l’anello di fi­danzamento all’anulare di Betty Collins. La quale fu subito attorniata da tutte le ragazze presenti sotto il tendone, che in men che non si dica la spinsero in un angolo per esami­narlo, provarlo e farlo roteare in segno di augurio. Proprio al momento giusto, il DJ spinse il pulsante per mettere su, ebbene sì, ancora una volta Cliff Richard che cantava Con­gratulations.