13

Londra

 

Se l’era cavata per un pelo. Manny era seduto nella cella della stazione di polizia di Maidstone. Proprio per un pelo. Era andato a Maidstone a incontrare un nuovo cliente, por­tandosi dietro un piccolo campione di eroina e un piccolo campione di cocaina. Maidstone era molto al di fuori della sua zona, e non conosceva bene il posto, perciò sarebbe do­vuto stare più attento. Manny però non era contrario ad al­largare un po’ il giro, così, quando si era presentata l’op­portunità di avere uno spacciatore a Maidstone, aveva pen­sato: che cavolo!

Avevano stabilito di incontrarsi in un vicolo sul retro di un locale di nome Silver Skillet. Il Silver Skillet era un pic­colo ristorante esclusivo con cabaret. Mentre Manny era se­duto sul lato di un bidone della spazzatura, in attesa del suo appuntamento, aveva sentito il comico che, al piano di so­pra, snocciolava le battute al pubblico. Il posto era un pan­demonio di risate. Chiunque fosse quel comico, li teneva per le palle.

Poi aveva visto l’auto della polizia passare lenta di fronte all’imboccatura del vicolo. Non si era fermata, ma d’istinto Manny si era alzato e aveva iniziato a inoltrarsi nel vicolo. Non aveva visto il poliziotto all’altro capo, ma per fortuna l’agente aveva dimenticato di spegnere la radio e, appena l’aveva sentita crepitare, Manny era fuggito come una lepre. Aveva attraversato a gran velocità una zona pedonale. Tutti i negozi erano chiusi, con le serrande abbassate, e i suoi passi echeggiavano lungo la strada. Così come quelli dell’a­gente che ormai lo stava inseguendo. Dopo due minuti Manny aveva raggiunto la sua Sunbeam Rapier. Aveva sbat­tuto la portiera, girato la chiave e dato gas al motore, aveva ingranato la prima e, sgommando, era uscito dal parcheg­gio del centro commerciale.

Dopo tre minuti di guida spericolata, il panorama nello specchietto retrovisore era sgombro. Aveva espirato, si era rilassato e aveva staccato il piede dal pedale. All’improvviso, da una stradina laterale gli era piombata alle spalle la Jaguar nera della polizia, con la luce azzurra lampeggiante. Manny aveva svoltato di scatto a sinistra e dato gas al motore. L’auto della polizia aveva inchiodato, senza riuscire a pren­dere la curva. Il conducente aveva dovuto fare marcia in­dietro per rimettersi in carreggiata e lanciarsi di nuovo al­l’inseguimento dell’auto di Manny. La breve sosta della po­lizia aveva concesso a Manny abbastanza tempo per aprire la portiera del passeggero e buttare via le due bustine. Aveva guardato nello specchietto mentre la polizia passava davanti al punto in cui lui le aveva gettate. Poi aveva svoltato a de­stra, seguito dalla polizia. Solo dopo aver percorso duecento metri di quella strada, Manny aveva messo la freccia e aveva accostato. Quattro poliziotti erano saltati fuori dall’auto. Era una trappola.

Poi, Manny aveva tirato giù il finestrino e, mentre il primo poliziotto gli si avvicinava, aveva detto con aria im­perturbabile: «C’è qualche problema, agente?»

Era stato fatto scendere dalla macchina, ammanettato e portato alla stazione di polizia di Maidstone. Lo avevano perquisito a fondo – molto a fondo – senza trovare niente. Poi lo avevano messo in cella, mentre una mezza dozzina di poliziotti erano andati a ripercorrere la strada fatta da Manny, perlustrando la zona nel modo più completo pos­sibile per vedere se si era disfatto della droga. Non avevano trovato niente. Qualcuno si era imbattuto in trenta grammi di cocaina e trenta di eroina, ma non erano state le forze di polizia di Maidstone. Di ritorno alla stazione i poliziotti tolsero Manny dalla sua cella e lo incriminarono formal­mente per guida pericolosa. Prima di metterlo dentro, gli requisirono gli effetti personali. Uno degli agenti contò i soldi nel suo portafoglio, che ammontavano a duecento sterline, poi fissò la cauzione a duecentocinquanta sterline. Gli fu concessa una sola telefonata – lo portarono in una stanza, gli misero davanti il telefono e lo lasciarono solo. Manny compose il numero con attenzione, sperando che Ben fosse in casa.

Ben Daly era mezzo addormentato, seduto davanti alla televisione noleggiata nel negozio sotto al suo monolocale, quando il telefono squillò. Uscì nel corridoio fuori dall’ap­partamento, dove era appeso il telefono pubblico, e rispose.

«Pronto?»

Era Manny Wise.

«Manny, che succede?»

«Ben, amico, sono in un mezzo casino, sto in gattabuia».

«Gesù! Perché, che è successo?»

«Non ha importanza, ora. Ti racconterò tutto dopo. Per adesso mi serve che rimedi un po’ di quattrini. Ce le hai cinquanta sterline?»

«Cinquanta sterline! Gesù, no. Ne ho più o meno sette, tutto qua, Manny».

«Hai ancora il duplicato della chiave del mio apparta­mento?»

«Sì».

«Bene, allora, ecco cosa voglio che tu faccia...» Manny diede a Ben precise istruzioni su come aprire la combina­zione della cassaforte. Comincia da zero, poi ottantadue a destra, torna sullo zero, fa’ un giro completo verso destra, torna di nuovo sullo zero, poi ottanta a sinistra, poi ancora nove a destra e poi gira la maniglia. Gli disse di prendere cinquanta sterline contanti dalla cassaforte e altre venti per pagare un taxi dalla stazione di polizia di Maidstone. Ben aveva capito, dal modo in cui gli aveva comunicato l’ultimo ordine – «Muovi il culo!» – che il nostro Manny non aveva il fegato per stare in cella.

Quando imboccò Edgeware Road, Ben vide l’auto della polizia parcheggiata fuori dal ristorante cinese. Cercò in ta­sca la piccola torcia che aveva portato con sé e si ficcò in un vicolo per entrare nell’appartamento dalla porta di servizio. Salì le due rampe di scale, infilò la chiave nella serratura e la girò piano. La porta si aprì senza problemi. Non ebbe bi­sogno della torcia per trovare la strada dello studio.

Prima di dedicarsi alla cassaforte, controllò dall’angolo della finestra che l’auto della polizia fosse ancora lì. C’era. Attraversò la stanza e si chinò sulla cassaforte. Ben non ne aveva mai aperta una in vita sua, ma seguì alla lettera le istruzioni che Manny gli aveva dato. Rimase sorpreso quando si aprì al primo tentativo. Mentre lo sportello si spalancava, si spalancarono anche gli occhi di Ben. C’erano mucchi di soldi. Manny aveva detto a Ben di portare cin­quanta sterline e qualche documento di identità. Gli aveva detto anche di prendere il passaporto irlandese che si tro­vava sul retro della cassaforte. Ben allungò il braccio sopra i soldi e alzò un vassoio sulla parte posteriore della cassa­forte. La prima cosa che attirò il suo sguardo furono due pacchetti avvolti dalla carta stagnola, uno con le iniziali CC, l’altro con ER. Sapeva cosa contenevano quei pac­chetti. Sotto c’erano alcune azioni, dei buoni del Tesoro, qualche carta dall’aspetto ufficiale e una busta ingiallita, con su scritto Documenti di Dublino.

Ben aprì la busta, lesse il foglio, poi lo rimise nella bu­sta. Rimase seduto per qualche momento a fissare i soldi, mentre nella sua mente tutto si chiariva. Alla fine giunse a una decisione. Prese il passaporto di Manny e ci infilò den­tro cinquanta sterline. Poi prese i due pacchetti di carta sta­gnola e se ne infilò uno in ogni tasca della giacca a vento. Arraffò una manciata di soldi, che più tardi si rivelarono es­sere tremila sterline, e se li ficcò nella cintura dei pantaloni. Chiuse la cassaforte e se ne andò.

Quando Ben Daly arrivò all’ufficio informazioni della stazione di polizia di Maidstone, erano le due del mattino.

Diede al sergente di turno il passaporto di Manny Wise con le cinquanta sterline che mancavano a Manny per pagarsi la cauzione. Al sergente Ben Daly non piaceva.

«Chi è lei?» chiese.

«Sono quello che le ha appena dato il passaporto e cin­quanta sterline» rispose Ben, con distacco.

«E come si chiama?»

«Perché?»

«Diciamo solo che mi interessa».

«Be’, sarebbe meglio che si interessasse di farfalle, sono più facili da acchiappare».

Il sergente di turno rinunciò. Di lì a pochi minuti Manny Wise raccoglieva i suoi effetti personali, compreso un portafoglio vuoto, e lasciava l’edificio con Ben. Non par­larono finché non furono al sicuro, protetti dalla Sunbeam Rapier, sull’autostrada che li avrebbe riportati in città.

«Sei un buon amico, Ben, sapevo di poter contare su di te» disse Manny senza togliere gli occhi dalla strada.

«Non c’è problema, Manny» rispose Ben, anche lui con lo sguardo fisso davanti a sé.

«Quegli stronzi... credo che lascerò perdere Maidstone» rise Manny.

«Già» rispose Ben, ridendo a sua volta.

Quando la risata si spense, Manny si sporse verso Ben e gli diede una pacca sulle spalle. «Andiamo a casa mia, Ben, ci facciamo una sniffata e due risate. Che ne dici, amico?»

«No, Manny, non stasera, amico. Sono davvero stanco. Se mi lasci a Harlesden mi fai un piacere».

«Certo, Ben, certo».

«Non ti dispiace, Manny, vero?»

«No, affatto, Ben, ti ringrazio molto per ciò che hai fatto stanotte, Ben. Sei un buon amico, e ti dimostrerò come si deve la mia gratitudine questo fine settimana».

«Ah, ma non è niente! Di sicuro tu avresti fatto lo stesso per me, Manny» aggiunse svelto Ben, pur sapendo che non era vero.

Dopo aver lasciato Ben, Manny andò difilato al suo ap­partamento di Edgeware Road. L’auto della polizia era an­cora lì, e, mentre chiudeva la portiera, fece un cenno di sa­luto ai poliziotti. Loro ricambiarono il suo sguardo, i visi pieni di disprezzo. Manny rise forte e sbatté il portone del palazzo.

Al primo piano si aprì la porta di un appartamento, da cui spuntò fuori la testa di un vecchio. «Dico, è proprio ne­cessario fare tanto rumore ogni volta che entra nel palazzo?» chiese. Era ovvio, dal tono di voce, che una volta era stato un uomo di potere, forse aveva fatto parte dell’esercito. Ciò nonostante gli ci erano voluti mesi per trovare il coraggio di affrontare quell’uomo che viveva nell’appartamento sopra al suo. Come gli altri inquilini del palazzo, il vecchio mili­tare sapeva bene chi era e quanto fosse pericoloso. Ma quando era troppo era troppo, un uomo deve pur prendere una posizione ogni tanto.

Manny fece la prima rampa di scale, arrivò dove si tro­vava l’uomo e lo affrontò a grugno duro. «Se non ti sta bene, nonnino, cambia aria».

L’uomo chiuse la porta senza replicare. Stava tremando.

Manny salì saltellando le scale che restavano ed entrò nell’appartamento. Si tolse il cappotto, lo buttò sul divano, si avvicinò allo stereo e premette un pulsante. Le luci si acce­sero e le casse si rianimarono con Nat King Cole che can­tava When I Fall In Love. Manny allora si diresse verso l’ar­madietto dei liquori, riempì di ghiaccio un bicchiere di cri­stallo e si versò quattro dita di Scotch. Mentre beveva il primo sorso, andò verso il bagno. Diede una rapida girata alla maniglia, la doccia gorgogliò e iniziò a schizzare acqua calda e fumante.

Dopo la doccia, Manny uscì dal bagno con un asciuga­mano avvolto attorno alla vita, un asciugamano più piccolo per i capelli in una mano e lo Scotch nell’altra. Mise il bic­chiere sul tavolo, si chinò e compose la combinazione della cassaforte. Non appena lo sportello si aprì, seppe che qual­cosa non andava. D’istinto capì che mancavano un sacco di soldi e, quando allungò la mano al buio verso dove si tro­vava il vassoio, non sentì i pacchetti avvolti nella carta sta­gnola. Si raddrizzò e gridò: «Bastardo!»

Erano passate quasi quattro ore da quando Manny aveva lasciato Ben Daly davanti al noleggio TV. Manny era davanti alla porta dell’appartamento, sopra al negozio. Appoggiò la schiena al muro, alzò la gamba e sferrò un calcio col tacco alla porta proprio sopra la serratura. Si spalancò. Manny trovò esattamente quello che si era aspettato di trovare. Ben Daly,

o chiunque fosse, era scomparso.

Nei giorni successivi, Manny sguinzagliò per Londra i suoi galoppini in cerca di Ben Daly. Assunse anche un paio di teppisti per fare la ronda giorno e notte attorno agli aero­porti di Heathrow e di Gatwick. Si mise addirittura in con­tatto con alcuni dei suoi amici di Liverpool che avevano ac­cettato, per un modesto compenso, di scendere a Holyhead per qualche giorno e tenere d’occhio le partenze. Manny era convinto che, come tutti gli animali in fuga, Ben Daly sa­rebbe tornato a casa.

Per fortuna, Manny aveva una fotografia di Ben. Era un’istantanea scattata una sera da un fotografo di strada mentre lui e Ben stavano uscendo dal Mean Fiddler. Fece fare alcune copie della fotografia e le distribuì a tutti i suoi galoppini. Nei giorni seguenti tentò di dedicarsi agli affari come al solito, ma il tradimento di Ben gli corrodeva lo sto­maco come un acido. Ogni momento libero che aveva, Manny Wise lo passava alle stazioni ferroviarie o in uno de­gli aeroporti, nella speranza di incontrarlo.

Tre settimane dopo la scomparsa di Ben, le speranze di trovarlo si erano ridotte al lumicino. Manny aveva richia­mato i ragazzi di Liverpool, i galoppini erano tornati tutti senza buone notizie, e lo stesso Manny aveva iniziato a fare un salto negli aeroporti solo una volta ogni tanto.

«Un giorno o l’altro... piccolo bastardo!» Manny bor­bottò tra sé, mentre attraversava il terminal delle partenze dell’aeroporto di Heathrow. Cercava un’edicola per com­prare il giornale. Entrò da WH Smith solo per sentirsi dire che lo Standard era finito. La ragazza gli suggerì che l’altra edicola, che si trovava agli arrivi, forse ne aveva uno, perciò, dato che non aveva altro da fare, Manny prese l’ascensore per scendere.

Era tra il piano superiore e quello inferiore, quando lo vide. Si era tinto i capelli e si era dato una ripulita, ma non c’era alcun dubbio, era Ben Daly. Manny mantenne il san­gue freddo. Una volta di sotto, si nascose dietro una co­lonna e osservò la figura travestita di Ben Daly camminare su e giù e dare un’occhiata all’orologio. Quando la figura gli voltò le spalle, Manny iniziò ad avvicinarsi rapido. Il col­tello a serramanico che aveva in mano, infilato nella manica destra, scattò, e la lama affilata e scintillante sporse di poco dalla mano.

Vaffanculo, Ben Daly, pensò Manny mentre la rabbia montava dentro di lui. La distanza tra i due diminuì. Manny avrebbe quasi voluto che Ben si girasse, voleva guar­darlo in faccia mentre gli conficcava la lama nel cuore. Quando fu a cinque o sei metri dal bersaglio, il giovane al­l’improvviso si voltò, dicendo ad alta voce: «Eccoti qui!» a un uomo molto più anziano, anch’egli ben vestito.

Il giovane e il vecchio si abbracciarono, e Manny riuscì a vederlo bene in faccia. Non era Ben Daly. Per poco non aveva pugnalato l’uomo sbagliato.

«Cazzo! Sto diventando paranoico» mormorò tra sé, mentre la fronte gli si imperlava di sudore.

Il giovane colse il suo sguardo e lo osservò sconcertato. Manny girò svelto sui tacchi e si diresse verso l’edicola.

Mi chiedo cosa volesse quello, pensò Mark Browne, se­guendo con lo sguardo l’uomo dall’aspetto bizzarro che lo aveva fissato mentre abbracciava Greg Smyth al cancello degli arrivi. Ma il pensiero gli uscì subito di mente quando Greg iniziò a scusarsi.

«Scusa, Mark, ma c’era un traffico tremendo».

«Doveva essere tremendo davvero, Greg, non è da te ar­rivare in ritardo».

«Be’, la macchina è fuori. Andiamo». Greg fece per ac­compagnare fuori Mark. Ma invece di andare verso la porta, Mark cominciò a guardarsi intorno.

«Senti, Greg, sai se c’è una buca per le lettere, qui?»

«Sì, Mark, credo sia laggiù, vicino al cambio valuta».

«Dammi solo un momento, per favore. Devo impostare una lettera».

Mentre aspettava Greg Smyth, Mark aveva ingannato l’attesa pensando alla madre. Anche se lei non ne parlava e il suo nome non veniva mai menzionato, nemmeno per sbaglio, durante una conversazione, Mark sapeva quanto Agnes desiderasse credere che un giorno o l’altro Frankie sarebbe tornato, trasformato in un uomo di successo e con una valida spiegazione del perché aveva preso parte al pe­staggio del fratello minore e rubato i soldi della madre. Nessuna spiegazione di sorta avrebbe mai cancellato il di­sprezzo che Mark provava ogni volta che pensava a Frankie. Eppure sapeva che, se fosse capitata una cosa del genere, nonostante si trattasse di un’eventualità remota, lui avrebbe dato il bentornato a Frankie in seno alla famiglia, solo per­ché sapeva quanto questo avrebbe reso felice la mamma. Per qualche momento, la sua mente era stata attraversata dal pensiero fuggevole – molto fuggevole – di poter rin­tracciare Frankie a Londra e convincerlo a mettersi in con­tatto con la madre. Poi Mark aveva avuto un’idea. Era an­dato da WH Smith per comprare un biglietto. Con la mano sinistra aveva scarabocchiato un breve messaggio al­l’interno, infilato quaranta sterline inglesi in mezzo al bi­glietto e poi lo aveva indirizzato a Mrs Agnes Browne, 43 Wolfe Tone Grove, Finglas Ovest, Dublino 11. Era questa la lettera che doveva imbucare prima di dedicarsi agli affari con Greg Smyth.

Il viaggio di lavoro di tre giorni andò bene per Mark, tuttavia fu contento di tornare a casa. Greg Smyth aveva aumentato le ordinazioni, e Mark aveva finalmente con­vinto l’Army and Navy Store a iniziare a rifornirsi del nuovo salotto di nome Elizabeth. La catena di negozi pensò che il salotto fosse stato chiamato così in onore della be­neamata regina, e Mark glielo lasciò credere: meglio così, piuttosto di confessare che aveva preso il nome di una gio­vane Betty Collins qualsiasi di Dublino. Mark aveva la va­ligetta sulle gambe e stava riguardando i moduli d’ordine mentre il taxi lo portava a gran velocità verso il centro di Dublino. Quando tornava dai suoi viaggi di lavoro, si fa­ceva un dovere di passare subito al negozio della Wise & Co. Mobili su Misura per informare Mr Wise e Sean McHugh di come era andata. I due uomini adesso se ne stavano comodi nelle retrovie e permettevano a Mark, che oramai era direttore generale della ditta, di andare in prima linea.

Tuttavia, quando Mark tornava dai suoi viaggi, Sean e Mr Wise esaminavano i moduli d’ordine come se (a) ne ca­pissero qualcosa e (b) fossero convinti che le loro opinioni avrebbero davvero fatto la differenza per quel ragazzo così dinamico. Era un giochetto cui partecipavano tutt’e tre e che piaceva a tutt’e tre allo stesso modo.

Stavolta Mark arrivò nel negozio di Capel Street solo per scoprire che quella mattina Mr Wise aveva avuto una rica­duta, e che adesso era sotto le coperte di un letto del Bon Secours Hospital, una clinica privata nella zona nord di Dublino.

«Ha avuto una delle sue crisi» spiegò Sean, che pareva un po’ più preoccupato del solito.

In mancanza dell’altro partecipante, non si presero il disturbo di mettere in scena il solito giochino, così alle cin­que e mezza Mark aiutò Sean a chiudere il negozio e prese l’autobus per tornare a casa, dalla mamma.

Quando Mark si sedette a cena, la madre, Trevor, Rory, Dermot e Cathy si unirono a lui. Agnes, che era sempre bril­lante e allegra in compagnia dei figli, quella sera sembrava avere una marcia in più. Mark quasi non se ne accorse, dato che i suoi pensieri erano rivolti a Mr Wise. L’apertura del ne­gozio di Capel Street era solo una tregua momentanea e, an­che se Mr Wise si era ripreso molto durante i primi mesi di lavoro nel negozio, era stato un lasso di tempo breve e dolce come un battito d’ali. Da allora aveva attraversato un periodo di alti e bassi. Un giorno sembrava in grado di correre i cento metri, il giorno dopo ci si chiedeva se sarebbe riuscito ad ar­rivare dall’altra parte della stanza. Alla fine, i bassi avevano superato di gran lunga gli alti, e Mr Wise aveva accorciato la sua settimana lavorativa di uno o due giorni. Le sue crisi erano diventate più frequenti che mai, e sembrava avere sem­pre una pillola sotto la lingua. Mark cercò di togliersi dalla testa il pensiero della malattia di Mr Wise e concentrò l’at­tenzione sul piccolo Trevor.

«Come va la scuola, Trev?» chiese.

Trevor aveva il gomito accanto al piatto e la testa appog­giata alla mano, e non alzò gli occhi. «Okay».

Trevor era l’unico della famiglia Browne a non essere un chiacchierone. Le conversazioni con lui erano di solito a senso unico, e le risposte più brevi possibile, se non mono­sillabiche.

Ma poi Trevor alzò gli occhi. «Mamma, ho una lettera per te».

«Una lettera per me? Da chi?» Agnes si accigliò.

«Da Miss Conway» disse con voce piatta.

Miss Conway era la preside della St Mary’s School, la scuola frequentata da Trevor. Aveva sui cinquantacinque anni e ormai era improbabile che si sposasse. Dal lunedì al venerdì si dedicava alla scuola, lavorando instancabilmente con i bambini, sforzandosi di aprire la loro mente alle pos­sibilità e alle opportunità che potevano presentarsi. Miss Conway era convinta che non esistessero bambini cattivi. Era un vero e proprio cerbero, ma anche gli alunni peggiori la consideravano buona, e il resto di loro la adorava. Era se­gretaria della filiale locale di Greenpeace, un’organizzazione appena fondata che si adoperava per un ambiente migliore in tutto il mondo. Passava anche parte dei fine settimana a insegnare ai figli dei travellers e a visitare i campi nomadi di Dublino e delle zone circostanti. Inoltre era un importante membro del Victor Bewley’s Travellers’ Trust.

Agnes la considerava una sciroccata, e si riferiva a lei chiamandola sempre la «Fatebenefratelli». Trevor si alzò da tavola e tornò con una busta marrone, che consegnò alla madre. Agnes la aprì e lesse la breve lettera.

«Cristo... e adesso che succede?»

«Che c’è, mamma?» chiese Mark.

«Vuole che passi da lei domani, per fare due chiacchiere su Trevor».

Agnes mise la lettera sul tavolo e si rivolse al figlio minore in tono di rimprovero. «Che hai fatto, adesso?»

«Non lo so». Trevor riabbassò gli occhi sul piatto.

Tutti tornarono alla cena. Dopo un paio di minuti, Agnes infilò la mano nella tasca del grembiule e tirò fuori una busta. «A proposito di lettere... stamattina ho ricevuto questa». Sollevò la busta bianca.

Mark la riconobbe all’istante. «Che cos’è, mamma?» chiese.

«Un biglietto. Da Francis» annunciò lei, tutta fiera.

Tutte le teste si alzarono dai piatti e all’unisono la fami­glia disse: «Frankie!»

«Esatto... Francis».

«Dov’è? Che fa?» domandò Cathy.

«Se la cava molto bene. Lavora come commesso viaggia­tore, dice. Volete che ve la legga?»

Mark si versò un’altra tazza di tè, cercando di assumere il tono più indifferente possibile. «Certo, mamma» disse, «se vuoi».

Agnes tirò fuori il biglietto dalla busta. Sul davanti c’era scritto Ti penso, mamma, sopra a un mazzo di fiori. Agnes lo lesse ad alta voce come se fosse una poesia. Poi iniziò, «Cara mamma, mi dispiace di non averti scritto per così tanto

tempo. Quello che è successo a Rory è stato uno sbaglio, non avrei mai dovuto prendervi parte e non troverò mai le parole per dire a Rory quanto mi dispiace». Agnes guardò Rory e sorrise. «Gli dispiace, amore» disse, nel caso non avesse sen­tito quello che aveva letto. E proseguì: «Potrai mai perdo­narmi per averti rubato i soldi del bingo? L’unica spiegazione che posso darti è che ero spaventato e che sapevo di dover la­sciare il paese. Non avevo soldi, perciò ho preso quello che ho trovato. Se anche mi ci volesse tutta la vita, te li restituirò. Ac­cludo quaranta sterline come prima rata».

Agnes adesso rovistò nella tasca del grembiule e alzò la mano che impugnava due banconote inglesi da venti ster­line, passandole in cerchio attorno al tavolo in modo che ciascuno dei figli avesse la possibilità di vederle. Sorrise di nuovo e si rimise in tasca le quaranta sterline.

«Adesso lavoro come commesso viaggiatore, perciò non ha senso che ti dia un indirizzo, dato che mi sposto di conti­nuo. Ma ti scriverò di nuovo, e presto. Con affetto, tuo figlio Francis».

Agnes chiuse il biglietto, e Mark rivide nel suo sguardo la scintilla scomparsa da tanto tempo.

«Fa’ vedere, mamma» chiese Dermot, e prese il biglietto dalle mani della madre. Lo esaminò per un paio di minuti e, da sopra al bordo superiore, lanciò un’occhiata a Mark. Mark colse il suo sguardo e abbassò gli occhi. Dermot certe cose le sapeva. Chiuse il biglietto e lo riconsegnò alla ma­dre.

«Be’, è magnifico, mamma. Almeno sappiamo che sta bene e tu smetterai di preoccuparti tanto». Dermot tornò alla sua cena.

«Già» disse Agnes a nessuno in particolare, e si strinse al petto il biglietto.

Quella sera Mark Browne e Cathy Browne uscirono con i rispettivi fidanzati, Dermot passò da Bomba Brady e in­sieme andarono a una partita di boccette, al Cross Guns Snooker Club di Philsboro. Rory portò Trevor al cinema. E così Agnes era sola quando Pierre le fece una delle sue visite anticipate, sapendo di dover tornare alla pizzeria prima delle undici. Quel giorno, Agnes aveva raccontato a Pierre della lettera di Frankie. Pierre sapeva quanto fosse importante quella lettera per Agnes, ed era stato felice di sentire il misto di eccitazione e di sollievo nella sua voce. Arrivò a casa con una bottiglia di champagne. Era pronto a festeggiare, ma non era pronto per quello che sarebbe successo. Agnes era tanto su di morale che lo champagne sparì nel giro di mez­z’ora. Poi si sedettero uno accanto all’altra sul divano Loretta, e Agnes si rannicchiò tra le sue braccia.

D’un tratto, e senza alcun preavviso, cominciò a sbotto­nargli la camicia. Gli passò la mano sulla morbida peluria del torace, e i capezzoli di Pierre spuntarono fuori come due soldatini con l’elmetto che fanno capolino dalla trin­cea. Si baciarono con passione. Pierre abbracciò Agnes. Ap­pena sopra il pollice sentì la lampo del vestito di lei. Poco a poco gliela tirò giù fino a metà schiena. Con delicatezza, le passò la mano in tondo sulla pelle morbida come quella di un bambino, e lei rabbrividì al suo tocco. Non indossava il reggiseno.

Pierre decise di tentare il tutto per tutto, e, ritrovando la lampo, gliela tirò giù fino al sedere. Agnes tolse le braccia che fino ad allora aveva tenuto allacciate al collo di Pierre. Pierre se lo aspettava, già non riusciva a credere di essersi spinto così oltre. Si aspettava che Agnes si mettesse le mani dietro la schiena e che, senza interrompere il bacio, si riti­rasse su la lampo fino a metà schiena, se non fino al collo. Invece, mentre ancora lo stava baciando, Agnes fece un mezzo passo indietro, lasciò ricadere le braccia sui fianchi, e il vestito scivolò per terra.

E fu così che Agnes Browne, vedova, con un figlio fi­danzato e una figlia quasi fidanzata, a quarantun anni di età, in una casa del comune di Dublino, a Finglas, rag­giunse il suo primo organismo, mentre all’uomo che era con lei ne toccarono due.