16.

«Questa casa sembra la stazione di Heuston» ruggì Agnes, mentre Dermot le strisciava tra le gambe in cerca di una scarpa mancante.

«Rilassati, mamma, ti prego» le disse Rory per la quin­dicesima volta.

Rory le stava facendo la messa in piega col phon. Aveva già tagliato i capelli a Mark, Dermot, Trevor e Bomba Brady, e aveva accorciato, scalato e tagliato a caschetto quelli di Cathy. I capelli di tutti erano pronti per il matri­monio, eccetto i suoi. Rory guardò da sopra la spalla Dino, che adesso stava mettendo il papillon a Trevor.

«Dino, mi faresti i capelli quando ho finito qui, per fa­vore?» chiese Rory all’amico.

«Certo, amore» replicò Dino.

L’«amore» gli era scappato. Rory lanciò un’occhiataccia a Dino, e Dino gli fece una boccaccia, ma la scena passò sopra la testa di Agnes. A quel punto, Rory guardò Mark

– perché non era passata anche sopra la testa di Mark – e arrossì. Mark gli si avvicinò, uno sguardo serio sul viso, e gli mise una mano sulla spalla.

«Rory» disse, «a me importa solo che tu sia felice». «Lo sono, Mark». «Bene». Mark tornò in cucina a preparare l’ennesima tazza di tè,

per l’ennesimo vicino in visita. Per un uomo in procinto di sposarsi di lì a un’ora e mezza, Mark era alquanto calmo. I fratelli correvano ovunque come galline senza testa, cer­cando di infilarsi i vari pezzi dello smoking come se fossero tessere di un puzzle. L’andirivieni dei vicini era cominciato di prima mattina. Era una tradizione per le famiglie dubli­nesi il giorno del matrimonio. Mark preparò due tazze di tè e le portò al piano di sopra, nella camera da letto dei ra­gazzi, dove Simon era in piedi davanti allo specchio con un foglio in mano.

«E... e... e... e il Si... Si... Signore Ge... Ge... Gesù di... di... disse loro...»

«Ecco, Simon, c’è il tè». Mark appoggiò la tazza sulla toeletta.

«Gra... gra... grazie, Mark». Simon si sedette sul letto e bevve un sorso di tè.

«Non devi farlo per forza, Simon». Mark cercava di al­lentare la tensione.

«Ma io vo... vo... voglio farlo, Ma... Mark» dichiarò Si­mon.

«E allora lo voglio anch’io». Mark gli sorrise.

Il subbuglio non era meno frenetico dai Collins. Mrs Collins non era dell’umore di bere tè. Aveva casse e casse di Guinness. Aspettava dieci o quindici ospiti, quella mattina, ma il suo salotto adesso somigliava a un autobus di Cal­cutta nell’ora di punta. C’era spazio a malapena per muo­versi. Sembrava che ogni cliente avesse mai avuto si fosse deciso a farle visita. Tuttavia, con Mark e Betty che provve­devano alle spese del loro matrimonio, il minimo che po­tesse fare era organizzare un ricevimento decente a casa, e certo ci era riuscita.

Cathy era al piano di sopra, nella camera da letto di Betty, e la aiutava a vestirsi, come si conveniva alle dami­gelle d’onore.

«Hai notato l’espressione di Pierre?» chiese Cathy a Betty, guardandola nello specchio.

L’aveva spuntata per un pelo, Pierre. Quando era stata annunciata l’organizzazione definitiva del matrimonio, la prima cosa che Pierre aveva notato era che non avrebbe preso il posto del padre dei Browne a capotavola. Era un compito che Mark aveva affidato a Rory, con Dermot come compare d’anello, e Simon testimone dello sposo. Mark aveva subito notato la delusione sul viso di Pierre, perciò aveva proseguito in fretta: «Ah, Pierre, Betty e io abbiamo un favore speciale da chiederti». E aveva preso per mano Betty.

Pierre aveva cercato di mostrarsi interessato e, al tempo stesso, di nascondere la delusione, aspettandosi dalla coppia felice la richiesta di rimanere fuori dalla chiesa, all’arrivo de­gli invitati, per dar loro i fiori, o qualche altro stupido inca­rico del genere. Invece Betty aveva detto: «Pierre, so quanto sei affezionato alla famiglia Browne, ma mi chiedevo se fosse possibile per te essere mio padre solo per un giorno... e darmi in sposa». E aveva sorriso. Lo stesso aveva fatto Pierre. Il suo umore si era risollevato all’istante. C’era solo una fi­gura più importante del padre dello sposo: il padre della sposa. Avrebbe camminato lungo la navata al braccio di una bellissima ragazza vestita di bianco. Pierre era rimasto so­praffatto, e aveva subito accettato. Quella sera lui e Agnes avevano festeggiato con un’altra bottiglia di champagne, e ci avevano infilato dentro anche un paio di organismi. Adesso Pierre era al piano di sotto, nel salotto dei Collins, tra la folla palpitante, con stampato sul viso un sorriso da plastica fac­ciale.

Alle tre in punto, Mark e i tre fratelli erano seduti sulla prima panca davanti all’altare della chiesa di Gardiner Street. Anche se fuori faceva fresco, il sole filtrava dalle ve­trate, e sulle pareti della chiesa veniva proiettato ogni colore possibile e immaginabile. All’improvviso qualcuno disse: «Eccola».

Tre dei ragazzi girarono la testa, ma non Mark. Lui si ir­rigidì di colpo e, per un istante, l’enormità di ciò che stava per fare lo travolse. L’organista attaccò Here Comes the Bride, e tutti si alzarono. Quel momento di panico, che ogni sposo prova, durò solo un paio di secondi.

Lentamente, Mark girò la testa per guardare in fondo alla navata. Betty lo vide voltarsi e sorrise. Le veniva da piangere, ma trattenne le lacrime, a differenza di Pierre, che tirò su col naso lungo tutta la navata. Mark contemplò la visione della sua sposa. Il vestito di satin era coperto da uno strato di delicato merletto cucito a mano. Il disegno del merletto era a roselline, e ogni bocciolo aveva una perla ap­plicata al centro. Betty aveva impiegato quasi due settimane per cucire oltre un centinaio di quelle perline. Avanzò nel sole sfolgorante che si irradiava dalla vetrata, e il cuore di Mark sobbalzò. Di sicuro, pensò, Dio mi ha mandato un angelo.

La cerimonia si svolse senza intoppi. Poi arrivarono le letture. Simon si alzò e salì le scale fino al podio. Si era eser­citato davanti allo specchio per settimane, convinto che un respiro profondo, seguito da una lenta espirazione, avrebbe attenuato, se non del tutto eliminato, la sua balbuzie. Quando prese posto e aprì il libricino, tutti coloro che erano seduti dal lato dei Browne trassero un respiro pro­fondo.

«Lettera di san Pa... Pa... Paolo ai Corinzi». Per un istante il cuore dei presenti smise di battere, ma Simon proseguì e ter­minò la lettura senza più balbettare. Quando ebbe finito e chiuso il libricino, Agnes iniziò ad applaudire. Fu ben presto seguita dal resto della famiglia Browne, e poi da tutta la con­gregazione, con il lato dei Collins che applaudiva senza sapere perché. Più tardi, nell’atrio del Maples Hotel di Drumcondra, più di trenta persone si avvicinarono a Simon e si congratula­rono con lui per aver letto così bene.

Il pranzo, costituito da fette di melone, zuppa di verdura e tacchino farcito e prosciutto, seguiti da zuppa inglese alle ciliegie e tè, venne in quattro e quattr’otto divorato dai cen­toventi invitati che partecipavano al rinfresco. Alla fine, qual­cuno batté un cucchiaino da tè su un bicchiere, e in sala si fece silenzio per lasciar parlare il testimone, Dermot Browne.

Dermot si alzò in piedi e iniziò il discorso. «Signore e si­gnori, reverendo padre. Vi do il benvenuto qui per festeggiare l’inaugurazione della terza gamba di Mark».

Nessuno rise tranne Bomba Brady. L’occhiata minac­ciosa di Agnes a Dermot bastò a fargli capire che non do­vevano esserci altre battute del genere.

«Che cosa vuol dire?» chiese a Mrs Collins padre Sim­mons, il prete che aveva celebrato il matrimonio.

«Ah, è qualcosa che ha a che vedere con la tradizione di prendere in braccio la sposa, padre».

«Oh, capisco, molto interessante».

Il discorso di Dermot divenne più breve di quanto lui avesse voluto, dato che adesso doveva attenersi alle cose es­senziali: ringraziò il prete per la bella cerimonia, ringraziò le damigelle d’onore per essere tanto graziose, ringraziò l’al­bergo per il «buon mangiarino» e ringraziò tutti gli invitati per i bei regali che Mark e Betty avevano ricevuto. Poi passò ai telegrammi e ai biglietti d’auguri. Ce n’era uno di Dolly dal Canada, uno di Greg Smyth dall’Inghilterra e uno di Mr Wise, che non poteva essere presente a causa della ma­lattia ed era ancora confinato al Bon Secours Hospital. A quell’annunciò Mark ebbe un tuffo al cuore, mentre i suoi pensieri andavano all’ebreo tanto cortese che rideva di cuore parlando con un moccioso fuori dal deposito della torba tanti anni prima. Il successivo, e ultimo, telegramma fece sbocciare un sorriso sulla faccia di Agnes. Dermot lesse ad alta voce: «Nel giorno del vostro matrimonio porgo a en­trambi le mie congratulazioni e i miei migliori auguri di futura ed eterna felicità. E questo viene da Francis Browne, a Londra. È mio fratello» annunciò Dermot, e lanciò uno sguardo di sottecchi al viso sconcertato di Mark. L’ultimo telegramma fu accolto da un applauso, e, coperto dal ru­more, Dermot, dall’angolo della bocca, disse a Mark: «Al tuo gioco si può giocare anche in due» e gli strizzò l’occhio.

Mark sorrise e guardò sua madre, raggiante. Il pasto fu seguito da sontuosi festeggiamenti. La maggior parte della gente si ubriacò. Le vecchie amicizie si rinnovarono e, come da tradizione nelle grandi feste di famiglia a Dublino, per quel giorno furono seppellite molte asce di guerra. Alle dieci di sera, mentre la festa era in pieno svolgimento, gli sposi novelli partirono con l’automobile della ditta di Mark per la luna di miele a Galway. Avevano progettato un viaggio di nozze di due settimane, la prima a Galway, la seconda a Kil­larney, ma le circostanze avverse interruppero la luna di miele di Mark dopo soli otto giorni.

 

I tacchi di gomma dell’infermiera Maureen Clifford pro­ducevano un rumore soffocato mentre, a mezzanotte, cam­minava lungo il silenzioso corridoio del reparto St Thomas. Era tanto silenzioso che si sentiva il fruscio delle calze di nylon quando sfregavano tra loro all’altezza delle ginocchia. Si fermò all’improvviso. Il suono dell’allarme cardiaco era pene­trante. Veniva da dietro le sue spalle. Si voltò. La luce sopra la porta della camera numero sette stava lampeggiando. In due passi arrivò al telefono sulla parete, compose lo zero, il nu­mero delle emergenze, e disse: «Arresto cardiaco, stanza sette». Poi riagganciò in fretta.

Quando l’équipe di cardiologia arrivò, non più di cin­quanta secondi dopo, lei aveva già aperto la giacca del pi­giama e stava spingendo il torace con i palmi delle mani. I suoi sforzi furono inutili, e quando l’équipe irruppe nella stanza lei si fece da parte. Le confezioni di gel furono aperte in quattro e quattr’otto, applicate al torace e ai terminali degli elettrodi, che vennero appoggiati sul petto, e, quando il medico gridò: «Libera!» il corpo esile ebbe un sobbalzo. Tutti gli occhi si voltarono verso il monitor. Mostrava an­cora una linea piatta. Provarono a ripetere l’operazione per un quarto d’ora. A mezzanotte e ventidue minuti esatti il dottor William Deegan dichiarò ufficialmente morto Ben­jamin Wise.