1.

Dublino 1980

Rotunda Maternity Hospital

 

Agnes Browne aveva familiarità con il parto. In quattordici anni di matrimonio con il suo ormai defunto marito Rosso, aveva dato alla luce sette figli. Ma tutto ciò era successo quando lei aveva tra i venti e i trentaquattro anni, ed era giovane e robusta. Adesso che di anni ne aveva quaranta­sette, non era più in grado di farlo. Con gli occhi chiusi e i pugni serrati, trasse un profondo respiro e lo buttò fuori in brevi soffiate, «Ssst, ssst, ssst, ssst, ssst, ssst», che sfociarono in un gemito sommesso.

Suo figlio Dermot, uno dei gemelli, ormai venticin­quenne – la sua quarta gravidanza –, le si accostò all’orec­chio per parlarle. «Mamma, cazzo, piantala» bisbigliò.

«Facile a dirsi per te, Dermot, tu non hai idea di cosa si­gnifichi partorire» rispose lei a denti stretti.

«Mi fido della tua parola, Mamma. Adesso però smettila. La gente ci guarda!»

Dermot aveva ragione. Oltre ad Agnes, i figli Rory, Der­mot e Trevor, e la figlia Cathy, nella sala d’attesa c’erano dieci perfetti sconosciuti. Tutti gli occhi fissavano esterre­fatti questa donna infagottata in un trench con un foulard sulla testa, che teneva sulle ginocchia una grossa sporta di frutta e simulava le spinte del parto.

Il commento di Dermot spinse Agnes ad aprire gli occhi e a passare in rassegna gli sconosciuti. Ciascuno di loro trovò immediatamente qualcosa da contemplare sulle pareti, sul soffitto e sul pavimento. Mentre Agnes si ricomponeva e si raddrizzava sulla sedia, un melone rotolò fuori dalla sporta piena di frutta e le atterrò con un tonfo proprio in mezzo ai piedi. Gli sconosciuti trasalirono. Nella stanza calò per un attimo il silenzio, mentre tutti gli sguardi convergevano sul melone. D’un tratto scoppiò una risata generale.

«Congratulazioni, Mamma. Lo chiameremo Seme» an­nunciò Dermot, e di nuovo le persone sedute nella stanza scoppiarono a ridere.

La porta della sala d’attesa si aprì e la risata si interruppe. Nel varco fece capolino la testa della caporeparto, suor Mary Sheridan. Si guardò intorno con un cipiglio minac­cioso. Adesso tutti osservavano il pavimento o le pareti, cer­cando disperatamente di assumere un’espressione inno­cente. La caporeparto non disse niente, limitandosi a ri­chiudere la porta.

«Gesù mio, avete visto che faccia aveva?» Agnes rivolse la domanda a tutta la stanza. Nessuno rispose. «Mi sa che non ha nemmeno bisogno di comprarsi lo yogurt, basta che prenda un litro di latte e si metta a fissarlo».

I presenti scoppiarono ancora a ridere, ma stavolta si copri­rono il viso oppure risero a bocca chiusa per non fare rumore. Quando la risata si spense, la stanza risprofondò nel silenzio. Dopo un paio di minuti Agnes, di botto, si alzò in piedi.

«Nessuno ti dice niente, in questo maledetto ospedale» scandì.

«Mamma, siediti. Se ci saranno novità, verranno a co­municarcele» disse Rory Browne rivolto alla madre.

Agnes ci rifletté per un attimo. Poi, improvvisamente, sbottò: «Adesso vado a chiedere. C’è la moglie di mio figlio là dentro e ho tutto il diritto di essere informata». E detto questo, uscì.

 

Mark Browne stava tamponando la fronte di Betty con un panno fresco e umido. Betty era sdraiata, immobile, a occhi chiusi. Riposava tra una contrazione e l’altra. L’ul­tima era stata particolarmente lunga e dolorosa. Sentendo il panno fresco sulla fronte e poi giù sulla guancia, Betty sor­rise, aprì gli occhi e vide il volto sorridente di Mark, con gli occhi abbassati su di lei. Gli strinse la mano.

«Non me la sto cavando molto bene, vero?» mormorò Betty con voce flebile.

«Te la stai cavando magnificamente» replicò pronto Mark.

«Grazie».

Mark riprese a immergere il panno nell’acqua fresca, lo strizzò e ricominciò a tamponare il viso di Betty. «Sono tutti là fuori, nella sala d’attesa, a parte Simon – lui è a casa di tua madre ad aspettare che torni». Quel giorno la madre di Betty era andata in pellegrinaggio a Knock. Pregava per­ché il travaglio della figlia fosse breve e perché nascesse una bambina.

Betty sorrise al pensiero della famiglia Browne seduta in sala d’attesa. «È un miracolo che tua madre non sia qui dentro a incoraggiarmi» disse.

Risero entrambi. Ma Betty aveva appena finito di parlare che, alle spalle di Mark, vide la porta della sala travaglio aprirsi leggermente e la testa di Agnes Browne, avvolta dal foulard, intrufolarsi con un guizzo fulmineo. Dopodiché quella testa ondeggiò mentre cercava di sbirciare dietro i paraventi che schermavano i diversi letti della sala travaglio.

«Gesù Cristo!» esclamò Betty, girandosi precipitosa­mente per non farsi riconoscere. Troppo tardi: Agnes l’aveva individuata.

«Yuhuu, Betty! Ho un po’ di frutta per te!» sussurrò Agnes con voce flautata.

Mark si voltò di scatto. «Mamma, per l’amor di Dio, vat­tene» disse in tono brusco, «non puoi stare qui dentro».

Suo figlio non aveva ancora finito di parlare, quando Agnes si trovò faccia a faccia con l’infermiera Mary Sheri­dan, la quale le nascose la vista del letto, dicendo semplice­mente: «Fuori».

«Sto solo dando un’occhiata...»

«Fuori».

«Volevo solo farle sapere che siamo tutti qui».

«Fuori!» L’infermiera Sheridan aprì la porta e, prendendo Agnes per un lembo del cappotto, l’accompagnò nel corri­doio. Ma non prima che Agnes avesse salutato Betty con la mano, lanciandole un consiglio: «Non spingere finché non te lo dicono loro, Betty. A dopo».

Fuori, nel corridoio, Agnes si sistemò il cappotto sotto lo sguardo torvo dell’infermiera Sheridan.

«Volevo solo darle un po’ di sostegno mortale» si giusti­ficò Agnes.

«Penso proprio che le abbia fatto piacere. Adesso, però, Mrs Browne, stia alla larga da lì, d’accordo?» L’infermiera Sheridan le voltò le spalle e si avviò per rientrare in sala tra­vaglio.

Agnes la fermò. «Infermiera, sul serio, come se la sta ca­vando?»

Per quanto irritata dall’invadenza di Agnes, l’infermiera Sheridan percepì una nota di sincera preoccupazione nella voce della donna e si addolcì leggermente.

«Se la sta cavando bene, Mrs Browne. Le manca ancora un po’, ma è già di sette centimetri». L’infermiera Sheridan si girò sui tacchi e scomparve, lasciandosi dietro, in corri­doio, una Agnes alquanto perplessa.

Agnes rientrò nella sala d’attesa e, incedendo con aria au­torevole, tornò a sedersi al suo posto. Mentre attraversava il locale, tutte le teste lì riunite la seguirono. Per qualche se­condo, Agnes rimase in silenzio.

«Allora?» chiese Dermot.

«Allora cosa?» ribatté Agnes con espressione compiaciuta.

«Come sta?»

«Oh, sono molto soddisfatta di lei, se la sta cavando pro­prio bene» rispose Agnes come se avesse esaminato Betty personalmente. «Anche se le manca ancora un po’, circa sette litri».

«Sette litri? Che significa?» chiese Dermot.

«Oh, è un termine ginecologico, Dermot, tu non puoi capire». Agnes ignorò la domanda e tirò fuori dalla borsetta un pacchetto di sigarette.

Due ore dopo non c’erano ancora novità. Dermot era sceso per andare all’edicola di fronte all’ospedale e com­prare un mazzo di carte. Adesso lui, Rory, Trevor e uno de­gli altri uomini che stavano aspettando da ore nella sala d’attesa erano seduti in un angolo a giocare a Don.

Agnes stava fissando un giovane padre che, dall’altra parte della stanza, passava il tempo a mangiarsi le unghie. Se la moglie non avesse partorito presto, pensava Agnes, avrebbe finito col rosicchiare tutta la mano. A un certo punto l’uomo alzò la testa e intercettò lo sguardo di Agnes. Sorrise e lei ricambiò il sorriso.

«È il primo?» chiese lei.

«Sì».

«Ah, bene. È dentro da tanto?» Nel fargli questa do­manda, Agnes indicò la porta con un cenno del capo.

«Quattro ore».

«Non ti preoccupare, figliolo. Il primo è sempre il più lungo. Oh, non mi ci far pensare! Con il mio primogeni­to – Mark, il padre del bambino che sta per nascere, là den­tro – il travaglio è durato novantasei ore».

L’uomo sgranò gli occhi ed emise un breve rantolo silen­zioso.

Il tizio che giocava a Don con i tre figli di Mrs Browne bofonchiò sottovoce: «Cazzo, novantasei ore!»

Dermot sorrise. «Non le dia retta. La prima volta che le ho sentito raccontare questa storia le ore erano sedici. Ga­rantito che quando avrò un figlio anch’io, lei se ne starà se­duta in sala d’aspetto a dire a tutti di aver avuto un trava­glio così lungo che Mark è nato con la barba».

I quattro giocatori risero. Agnes li squadrò con aria so­spettosa.

Finalmente la porta della sala d’attesa si aprì adagio ed entrò, frastornato, Mark Browne, con i suoi occhi azzurri lucidi e un sorriso che andava da un orecchio all’altro. Nes­suno si mosse. Mark guardò la madre e gli occhi gli si sneb­biarono come se si fosse appena svegliato. Le leggeva in fac­cia la domanda.

«È maschio» fu tutto quel che disse.

Agnes e Cathy gli gettarono le braccia al collo e lo strin­sero con trasporto mentre fiumi di lacrime inondavano le loro guance. Trevor, Dermot e Rory saltarono in piedi si­multaneamente, sparpagliando le carte per tutta la stanza. Prima si congratularono con il fratello, poi iniziarono a congratularsi l’un l’altro. Proprio in extremis, a quanto pa­reva, sopraggiunsero nella sala d’attesa Simon e Mrs Col­lins, la madre di Betty.

«È maschio» annunciò la famiglia Browne all’unisono.

Mezz’ora dopo, la famiglia Browne e Mrs Collins erano radunati a semicerchio attorno alla culla del bimbo, ai piedi del letto di Betty, gli occhi luccicanti di orgoglio mentre as­sistevano all’ingresso nel mondo del più giovane dei Browne. Betty Browne, seduta con il sostegno di quattro cuscini, sorseggiava una tazza di tè caldo. Era al settimo cielo per quel suo nuovo cucciolo, inebriata al pensiero che quell’evento stesse riempiendo di gioia così tanta gente. Sorrideva, raggiante. Agnes guardò Betty: anche lei, la suo­cera, stava sorridendo, felice. Betty le strizzò l’occhio.

«Dov’è Mark?» chiese Agnes.

Betty indicò la porta. «È andato al bagno».

«Credo di averne bisogno anch’io» disse Agnes, «l’emo­zione mi sta uccidendo».

Raggiunse la porta del bagno delle donne proprio men­tre quella degli uomini dalla parte opposta del corridoio si stava aprendo e ne stava uscendo Mark.

«Tutto bene, Mamma?»

Agnes si voltò e sorrise al suo primogenito, orgogliosa di lui come sempre. Gli si avvicinò e gli posò le mani sulle spalle.

«Io sto bene, Mark, e sono tanto, tanto felice per te, fi­gliolo».

«E io sono felice per te... Nonna!» Sogghignando, Mark tornò verso il reparto.

Per un attimo, Agnes rimase immobile in mezzo al corri­doio. Nonna? Nonna!

La parola si abbatté come un sacco di carbone sulla schiena di Agnes. Sentì le spalle curvarsi e la spina dorsale piegarsi. Per qualche inspiegabile motivo non aveva ancora considerato il fatto da quel particolare punto di vista. Ab­bassò lo sguardo sul dorso della mano sinistra: lo vide rag­grinzito, con la fede nuziale che pareva sprofondare nella carne dell’anulare. Per la prima volta nella sua vita, Agnes Browne si sentì vecchia.