2.

Tra la Senga Soft Furnishings Limited e il suo nuovo direttore generale, Mark Browne, c’era stata un’ottima intesa. Negli anni successivi alla scomparsa del precedente proprietario, Mr Wise, Mark aveva non solo riorganizzato ma rimesso com­pletamente a nuovo la fabbrica. Le vecchie seghe a nastro azionate da una cinghia e i trapani a catena erano spariti. La fabbrica adesso vantava una gamma completa di macchinari high-tech, compatti, veloci e precisi. Disporre di nuove attrez­zature era vitale, dato che ora la fabbrica sfornava mobili in quantità superiore ad ogni aspettativa dello stesso Mark. La li­sta dei clienti della Senga Furnishings sembrava il who’s who dei grandi magazzini d’Irlanda e del Regno Unito. Il talento di Mark per il design e il suo impegno nel lavoro vennero lau­tamente ricompensati da una nuova palazzina bifamiliare a Baldoyle, a non più di un paio di chilometri dal meraviglioso, dorato litorale dublinese. Stranamente, Mark fu l’unico Browne che rimase a lavorare alla Senga Furnishings. Tutti i suoi fratelli, compresa Cathy, decisero di andarsene per la pro­pria strada, di rimettersi in cammino ciascuno per conto pro­prio: uno spirito di indipendenza ereditato dalla mamma.

 

Sette giorni dopo la nascita del figlio, Mark arrivò al Ro­tunda Hospital guidando la Ford Cortina aziendale, per riaccompagnare Betty, con il bimbo tra le braccia, a quella che di solito era un’abitazione tranquilla. Non quel giorno, però! Tutto il clan Browne, rinforzato da Mrs Collins, si era riunito a casa di Mark, in trepidante attesa. Il piccolo – visino roseo, grandi occhi marroni – fu accolto da un fuoco di fila di Ooh e di Aah, mentre dieci paia di occhi lo scru­tavano con tenerezza.

Quello che era iniziato come un semplice benvenuto di famiglia al neonato si trasformò presto in una festa, e prima di sera diventò un rumoroso party. Tanto che a un certo punto Betty e Mrs Collins decisero di sgattaiolare via con il bambino, che così passò la sua prima notte fuori dall’ospe­dale nell’appartamento di Nonna Collins, mentre il clan Browne continuava a fare bisboccia fino alle ore piccole.

La settimana dopo il parto, nell’entourage familiare non c’era conversazione che alla fine non vertesse sul nome da dare al primo nipotino Browne. Agnes premeva per Gerard, come avrebbe voluto chiamare Mark quando era nato, se non avesse perso la battaglia con Rosso, suo marito. A Der­mot piaceva James, con riferimento al cantante soul James Brown. Tra gli altri familiari raggiungevano alti indici di gradimento nomi come Jason, Peter, William e il preferito di Rory, Gabriel. Naturalmente, però, la scelta definitiva spettava a Mark e Betty. Ecco perché, la mattina dopo l’ar­rivo a casa del bimbo, Agnes fissava Dermot, seduto di fronte a lei per fare colazione, con un’espressione scioccata.

«Arrow? Freccia? Cazzo, non diranno mica sul serio!»

Agnes era stralunata per la rivelazione di Dermot. Riempì il bollitore, ripetendo il nome, la testa ancora an­nebbiata dal sidro della sera precedente. Era scesa un paio di volte, durante la notte, a bere due bei sorsi dalla caraffa di acqua fresca che teneva in frigo. Ogni volta che ne apriva la porta, la luce del frigo le sembrava un riflettore di quelli che illuminano i penitenziari, e la testa le rimbombava. Quando Dermot affrontò l’argomento del nome del bam­bino, il malessere, già quasi passato, le si riacutizzò.

«È quello che mi ha detto Mark» confermò Dermot.

«Non si può chiamare un bambino Freccia – che diamine, non è mica un Apache, santo Iddio». Agnes era incredula.

Madre e figlio rimasero seduti, in silenzio. Il bollitore ini­ziò a riscaldarsi e l’acqua si mise a borbottare. Agnes ribadì ad alta voce le sue riserve.

«Arrow Browne. A scuola sarà registrato come Browne Arrow, Freccia Marrone! Buon Dio, proprio quello che un cowboy potrebbe ritrovarsi infilato nel culo!»

Dermot sghignazzò, ma Agnes lo fulminò con lo sguardo; non era sua intenzione fare la spiritosa. Perciò lui tornò a fissarla in silenzio, e fu così che li trovò Rory quando scese in cucina.

«Che succede?» chiese.

Fu Dermot a rispondere. «Mark e Betty chiameranno il bambino Arrow».

«Ah, magnifico! Se da grande sposerà Bo Derek, avremo in famiglia un Bow and Arrow, un arco e una freccia» sparò ironico Rory.

I due ragazzi scoppiarono a ridere.

«Non c’è niente di divertente». Agnes li zittì. «Arrow Browne! Cosa penserà la gente? Immaginatevi il battesimo: il prete che versa l’acqua, dicendo: io ti battezzo con il nome di Arrow. Mi sentirò sprofondare».

 

Il giorno del battesimo fu qualcosa di memorabile. Dopo la cerimonia in chiesa, tutti gli invitati si diressero verso il pub di Foley, al centro della città, tradizionale sede di ogni festeggiamento della famiglia Browne negli ultimi ventisette anni. Mr Foley aveva preparato tramezzini di salsicce e qua­dratini di formaggio infilzati da stuzzicadenti. Tutti indossa­vano il loro abito migliore, e dopo gli iniziali convenevoli la serata decollò, trasformandosi in un concerto improvvisato. Agnes cantò The Wonder of You, e accusò l’orchestrina di es­sere in ritardo di tre battute. I vecchi conoscenti del Jarro, il quartiere dove i Browne avevano trascorso l’infanzia, si sta­vano divertendo come matti. Mark passava di tavolo in ta­volo, ringraziando ognuno dei presenti per aver accettato l’invito e per i bellissimi regali di battesimo. Scorse la madre al bancone del bar, dove stava prendendo qualcosa da bere per sé e per Pierre, il suo compagno, e le si avvicinò.

Sentendo la voce del suo primogenito, Agnes si voltò. «Ah, Mark, tesoro!» Lo abbracciò con trasporto.

«Ti diverti, Mamma?» chiese lui, ridacchiando.

«Perché ridacchi?» domandò Agnes con un sopracciglio alzato.

«Penso a te e al nome del bambino». Mark scoppiò a ridere.

Agnes arrossì lievemente. «Oh sì, be’, com’è che si pro­nuncia allora?»

«Aaron! È biblico».

«Aaron biblico: mi piace da impazzire!»

Agnes era entusiasta. Qualunque nome le sembrava me­glio di Arrow. Dietro di loro qualcuno sbatté il bicchiere sul tavolo. Agnes e Mark si girarono e videro Pierre in piedi, con la mano alzata per invocare silenzio.

«Rieccoci, un altro fottuto discorso» gemette Agnes.

Mark, invece, sorrise. «Ah, lascialo fare, Ma’, lui sa come divertire la gente».

La sala piombò nel silenzio.

«Vorrei fare un discorso» attaccò Pierre, anche se la frase gli uscì così: «Vorrrè farrre un discoorrrso», dato che il suo accento francese era ancora molto marcato.

Dalla folla si levò una fragorosa ovazione. Quando nella sala tornò il silenzio, Pierre proseguì.

«Tutti voi oggi avete fatto gli auguri a Betty, la neo-mamma, a Mark, il neopapà, e naturalmente ad Aaron, l’ultimo arrivato della famiglia Browne».

La frase fu accolta da un subisso di applausi. Pierre alzò di nuovo la mano. «Ma adesso vorrei proporre un brindisi».

Bomba Brady si voltò verso Dermot e gli chiese: «Che cazzo è un brondisi?»

«Brindisi, ha detto brindisi – chiudi il becco, Bomba».

Bomba chiuse il becco, e Pierre proseguì. «Alla bellissima Agnes Browne». Tutti i bicchieri si sollevarono di colpo e Agnes sgranò un sorriso radioso, ma Pierre non aveva an­cora finito. «Benvenuta, Nonna

La folla proruppe in nuovi applausi e grida di entusia­smo. Agnes non smise di sorridere, ma tra i denti sibilò: «Cazzo, Pierre, mettiti seduto».

Pierre obbedì, ma mentre si risedeva prese per un braccio Agnes e la costrinse ad alzarsi in piedi per partecipare al brindisi. Lei sollevò il bicchiere e fece scorrere lo sguardo attraverso la sala. Erano tutti lì, i piccoli orfani di Agnes, tutti adulti ormai. La sua nidiata al completo, tranne il po­vero Frankie – ma in quel momento Agnes non si concesse la debolezza di pensare all’unico figlio derelitto che aveva fatto una brutta fine. Mark si era sistemato, era sposato con Betty e aveva un figlio meraviglioso; Rory e il suo amico Dino erano tra i più rinomati hair stylist della Wash & Blow; a Trevor mancava solo un anno per completare il corso universitario di arte e diventare subito dopo un qua­lificato artista grafico; Simon, ora portantino-capo al St Patrick’s Hospital; ed ecco là Cathy con il fidanzato Mick O’Leary; e Dermot con...? All’improvviso l’espressione di Agnes cambiò. La folla tuonò all’unisono «Auguri, Nonna!» e tutti tracannarono i loro drink. Il boato e le bevute con­tribuirono a far passare inosservato l’improvviso alterarsi del volto di Agnes.

Agnes aveva una faccia preoccupata perché Dermot stava con Mary Carter. Agnes conosceva bene la famiglia Carter: Jack Carter, il padre di Mary, aveva lasciato la casa di Town­send Street una mattina di dieci anni prima e non si era fatto più rivedere; Helen Carter aveva iniziato a bere per sprofondare nell’oblio e i bambini erano cresciuti abbando­nati a se stessi, per le strade di Dublino. Agnes provava compassione per quella povera famiglia, in particolare per i figli, ma la sua solidarietà non giungeva fino al punto di ac­cettare nella famiglia Browne Mary Carter, nota tossicodi­pendente e magari anche, sospettava Agnes, spacciatrice. Già da qualche settimana aveva messo sull’avviso Dermot, ma lui aveva detto che si trattava solo di una storia occa­sionale, che non avrebbe avuto seguito.

Dermot aveva notato il cambiamento d’espressione della madre, e quando alla fine incrociò il suo sguardo le rivolse un sorriso e le strizzò l’occhio, a segnalare che non doveva preoccuparsi, che tutto era a posto. La tensione di Agnes si allentò, e il sorriso venne ricambiato.

Fu Dino Doyle, l’amico di Rory, ad accorgersi che Trevor era rimasto serio per tutta la sera. Avvertito da Dino, Rory andò a stanare Trevor, per tentare di scoprire il motivo del suo disagio. Lo trovò davanti alla televisione spenta, con il gomito appoggiato sul distributore di sigarette, solo.

«Ehi Trevor, è una gran bella festa, vero?» gli disse Rory con un sorriso radioso.

«Sì, splendida».

«Tutto bene, Trevor? Mi sembri un po’ giù».

Trevor si rianimò leggermente. «No, sto benissimo, Rory, mi sento solo un po’ stanco. Sai, con gli esami alle porte e tutto il resto».

«Vuoi che ti prenda da bere?»

«No, lascia stare, Rory, torna da Dino. Attento a non la­sciarlo in giro qui intorno da solo: potrebbe trovare qual­cun altro!»

«Quel qualcuno dovrà procurarsi un bastone per ciechi, allora». Scoppiarono a ridere tutti e due, Rory baciò Trevor sulla guancia e tornò da Dino. Trevor bevve un altro sorso del suo drink, e ancora una volta i suoi pensieri volarono verso Maria Nicholson.

Trevor era di gran lunga il più silenzioso e il più timido dei Browne. Anche se i suoi lavori di artista esprimevano una straordinaria eloquenza, quando si trattava di comuni­care a parole, in particolare faccia a faccia con qualcuno, la mente gli si svuotava, la bocca gli si seccava e lui non desi­derava altro che battere in ritirata il più in fretta possibile. In passato, la cosa non aveva mai rappresentato un vero problema per Trevor, contentissimo di stare in compagnia di se stesso, ma ultimamente gli causava un forte struggi­mento. Fonte di questo dolore era Maria Nicholson.

Maria era entrata all’Istituto di Arte e Design, lo stesso frequentato da Trevor, solo un anno prima. Si era trasferita a Dublino venendo da Vancouver, in Canada. Era nata an­che lei in Irlanda, a Limerick, ma il padre era ingegnere edile specializzato nella costruzione di ponti, e il suo lavoro lo portava in giro per tutto il mondo. Ovunque fosse andato il Papà, la famiglia lo aveva seguito. Maria era entusiasta di es­sere tornata in Irlanda, e anche se si era iscritta in ritardo al quarto anno, l’accoglienza dei compagni le permise di am­bientarsi rapidamente. Frequentava solo due lezioni insieme a Trevor: Storia dell’Arte e Disegno Grafico. Ma sin dal primo momento in cui aveva posato gli occhi su di lei, Tre­vor Browne aveva capito di esserne innamorato. Trevor aveva fatto diversi tentativi di parlare con Maria, ma ogni volta dalla sua bocca non era uscita nemmeno una parola. Lei inclinava la testa di lato, gli dava una pacca sulla spalla, gli diceva: «Senti, ci rivediamo dopo, okay?» e se ne andava.

Perciò Trevor aveva preso una decisione. Avrebbe comu­nicato con Maria attraverso il linguaggio dell’arte. Un giorno, durante un’ora libera, Trevor aveva preso un grosso pezzo di tela e lo aveva tagliato in quattordici quadrati, cia­scuno di cinque centimetri per cinque. A casa, nella sua ca­mera da letto, aveva sistemato il primo quadratino di tela su un cavalletto e aveva iniziato a dipingere con i colori a olio. Aveva in mente un progetto ben preciso: realizzare una copia in miniatura di quattordici opere di grandi artisti, fir­mandone ognuna con l’iniziale del pittore in questione. Ogni iniziale doveva corrispondere a una delle quattordici lettere che componevano il nome di Maria Nicholson. Oc­correvano due settimane per completare una miniatura. Appena ne terminava una, Trevor la incorniciava, la incar­tava e la lasciava da qualche parte, dove calcolava che Ma­ria l’avrebbe trovata. Allegato al pacchetto c’era un bigliet­tino con tre sole parole: “Per te, Maria”.

Lavorando fino al giorno del battesimo, Trevor aveva già portato a termine le miniature corrispondenti a quadri di Monet, Albers, Rembrandt, Ingres, Allston, Neel, Israels, Constable, Hockney, O’Keeffe e Lancret. Gliene manca­vano solo tre – o meglio due e mezzo, dato che era già a metà di Mares and Foals del pittore inglese settecentesco George Stokes. Trevor sperava che Maria lo riconoscesse come autore dei quadretti e che lo venisse a cercare. In ef­fetti lei si era messa in cerca di qualcuno, passando da uno studente all’altro, durante le lezioni, nel tentativo di identi­ficare la mano dell’ignoto artista, ma mai una volta aveva alzato lo sguardo sopra le spalle di Trevor.

Una vigorosa pacca sulla schiena strappò Trevor ai suoi sogni a occhi aperti: era Dermot, completamente sbronzo.

«Eccoti qui, Trevor, gran bel casino, vero?» Dermot a questo punto stava sbavando. Accanto a lui, quasi appicci­cato al suo fianco, c’era Bomba Brady, anche lui ubriaco fradicio. Dermot spalancò le braccia per stringere a sé Tre­vor (quando beveva qualche bicchierino di troppo, Dermot voleva sempre abbracciare tutti, specialmente i fratelli).

Da lontano, Agnes vide i due figli abbracciarsi e sorrise. Li vide anche Pierre, che poi notò la felicità dipinta sul volto di Agnes.

«Sei felice, Agnes, vero?»

«Certo, perché non dovrei esserlo, con tutta la mia fami­glia riunita in questa sala?» Si portò il bicchiere alle labbra, bevve un sorso di sidro e, ancora una volta, sorrise.

Agnes Browne non poteva sapere che quella sarebbe stata l’ultima sera in cui avrebbe visto insieme tutti i membri della sua famiglia. Perché il destino e una serie di tragiche coincidenze stavano per prendere il sopravvento, disper­dendo i suoi figli ai quattro venti.