Le tredici minuscole opere d’arte incorniciate erano disposte in fila sopra il grande pianoforte lucido. Le lettere iniziali di tutti i nomi che contrassegnavano le singole riproduzioni formavano l’acronimo M-A-R-I-A N-I-C-H-O-L-S-O. Maria sedeva su un bracciolo del divano, concentrata su quella parata di capolavori miniaturizzati. Teneva una grossa tazza di tè bollente tra le mani a coppa e ogni tanto beveva un sorso senza staccare gli occhi dai quadri. Dopo aver imburrato e spalmato di marmellata un toast, Edith, la madre di Maria, si diresse verso il salone dove sapeva di poter trovare la figlia. Sapeva anche esattamente cosa stava facendo. Si fermò accanto a Maria e le consegnò il vassoio. Si mise anche lei a guardare i dipinti in miniatura.
«Dovrebbe arrivare una “N” da un momento all’altro, vero, tesoro?» chiese Edith alla figlia.
Maria annuì ripetutamente prima di parlare. «Sì».
«Non hai ancora idea di chi sia?»
Alla seconda domanda della madre, Maria riemerse bruscamente dalla trance.
«No, nemmeno un indizio, Mamma. Ho adocchiato i lavori praticamente di tutti i miei compagni senza trovare niente di paragonabile a questi. Ho anche studiato ogni possibile candidato e nessuno, da quanto mi risulta, possiede la profondità di sentimenti necessaria anche solo per concepire una sequenza del genere» disse tracciando con la mano un arco e indicando i quadri, «figuriamoci per dipingerla. Eppure è lì, a scuola, da qualche parte».
Edith ritirò il vassoio con la tazza vuota. Poi, puntando il dito verso l’orologio, esclamò: «Dove dovresti essere anche tu, signorina, vai, fila!»
Maria indossò il cappotto mentre la madre le rivolgeva uno sguardo colmo di affetto. «E se venisse qui, alla festa di domani sera?»
Maria si voltò ridacchiando. «Non è tale e quale Cenerentola, Mamma?»
Edith abbracciò la figlia. «Tesoro, da giovane tutte le storie d’amore ti fanno sentire come Cenerentola».
Il quadretto stava scavando un buco nella tasca di Trevor. A ogni minuto passato senza vedere Maria Nicholson, il piccolo dipinto si faceva sempre più pesante, e lui si sentiva sempre più impaurito. Il peso psicologico dell’ultima miniatura finì col diventare tale che Trevor si mise addirittura a zoppicare, come se portasse in tasca un oggetto smisurato.
Aveva sperato di incrociare il suo sguardo nel corridoio tra le prime due lezioni. I primi due tentativi erano andati a vuoto. Dopo la prima ora non riuscì ad avvistarla da nessuna parte. La individuò dopo la seconda ma, mentre stava per abbordarla, lei salì di corsa un paio di rampe di scale, dirigendosi verso un’aula. Alla fine arrivò la pausa pranzo e Trevor si incamminò verso la mensa, dove sapeva per certo che a quell’ora Maria stava mangiando. Infatti, entrando, la vide seduta a un tavolo con altre sei ragazze. Stava quasi per puntare dritto su di lei e metterle davanti il quadro, ma l’istinto gli suggerì di aspettare, dirottandolo sul bancone del self-service, dove prese un bricco di caffè e un bignè al cioccolato. Pagò e andò a sedersi a un tavolo insieme a un gruppetto di ragazzi con cui frequentava qualche lezione. Per tutto il tempo i suoi occhi rimasero fissi su Maria Nicholson. Uno dei ragazzi notò la fissità del suo sguardo e gli diede di gomito.
«Carina, vero?»
«Come? Ah, sì, credo proprio di sì – è bellissima». Trevor arrossì.
«Dove ci vediamo prima di andare alla festa?» si informò uno degli altri.
«Quale festa?» chiese Trevor.
Fu Noel King a rispondere: «Domani sera, a casa di Maria Nicholson. È la sua festa, non hai ricevuto l’invito?»
Con calma, Trevor rispose: «No».
«Eh già, si capisce, segui solo due lezioni a settimana con lei! Probabilmente nemmeno ti conosce. Ha invitato un po’ tutti i compagni. Dai, ti presento io». Noel si alzò.
Trevor andò nel panico. «No, no, non ce n’è bisogno, hai ragione: ci siamo già incontrati, va bene così, grazie». Balzò in piedi e si precipitò fuori dalla mensa, lasciando sul tavolo un bricco di caffè pieno per metà e un bignè al cioccolato ancora intonso.
«Non posso imbucarmi alla festa di qualcuno!» Trevor levò in aria le braccia in segno di frustrazione, poi si allontanò da Dino e Rory, seduti su due poltroncine da parrucchiere vuote nel salone altrettanto vuoto di Wash & Blow. Il negozio era chiuso per un’ora.
«Io lo farei!» sbottò Dino Doyle.
Trevor si voltò di scatto. «Be’, certo, tu lo faresti. Tu te ne freghi di quel che pensa di te la gente... oh, intendimi, non in senso negativo, Dino. Sai cosa voglio dire, tu sei sempre così sicuro».
«Non la prendo in senso negativo, Trevor. A me non me ne frega davvero un cazzo di quello che la gente pensa di me. Ma non è questo il punto. Sono convintissimo che se quella ragazza sapesse che sei stato tu a dipingere i quadri figureresti in cima alla lista degli invitati. Ho ragione, Rory?»
«Hai ragione da vendere, Dino. Ha ragione lui, Trevor. Devi imbucarti alla festa».
Rory e Dino fissarono Trevor. Dopo qualche attimo di esitazione, Trevor si infilò le mani in tasca. «Ok, ma come faccio?» chiese.
Esultante, Rory squittì: «Dai, Dino, facciamo un piano!»
Il piano, alla fine, si rivelò molto semplice. La sera dopo, Trevor si sarebbe limitato a presentarsi a casa Nicholson in Belgrave Square. Avrebbe bussato alla porta mentre la festa era in pieno svolgimento. Chiunque avesse aperto la porta avrebbe semplicemente dato per scontato che lui fosse uno degli studenti invitati al party, facendolo entrare. Appena varcata la soglia, incalzarono Dino e Rory, Trevor doveva assolutamente rintracciare Maria Nicholson, puntare dritto su di lei, consegnarle il quadro non impacchettato e dire: «Aggiungi anche questo alla tua collezione, Maria».
Dino e Rory trascinarono Trevor davanti a uno specchio per fargli provare la scena. Sulle prime, mentre tentava di assumere una posa da duro, somigliava a John Wayne. Rory e Dino dissero che anche se aveva un certo impatto, lo consideravano un atteggiamento banale. Dopo una serie di tentativi, Trevor finì col sembrare solo Trevor, e Rory e Dino si dichiararono soddisfatti.
La colazione del sabato mattina in casa Browne era puntualmente un grande spettacolo. Era la mattina in cui la Mamma cucinava la sua famosa colazione irlandese. A ciascun membro della famiglia toccava un piatto fumante di pudding nero, pudding bianco, pomodori alla griglia, funghi, salsicce di Haffner e fettine di bacon. C’era un vasto assortimento di pane tostato o fritto accompagnato da una profusione di tè bollente e carico, in foglie – niente volgari bustine, per Agnes.
Rory Browne era un bravissimo fratello. Era anche un meraviglioso amico e amante, come poteva testimoniare Dino. Ma aveva un difetto, che sua madre sottolineava a ogni piè sospinto: non riusciva a “tenersi la piscia”. Con questo eufemismo Agnes stigmatizzava chi non sapeva mantenere un segreto. Trevor per poco non sprofondò di vergogna quando Rory annunciò: «Questa sarà una grande serata per il nostro Trevor!»
Lentamente, furono abbassati i coltelli, posate sul tavolo le tazze e, nel silenzio seguito all’annuncio di Rory, accese un paio di sigarette. Agnes fu l’unica a formulare la domanda che bruciava sulla punta di ogni lingua: «Perché, cosa succede stasera, Trevor?»
Il viso di Trevor diventò paonazzo, fino a sembrare sul punto di esplodere. «Vaffanculo, Rory». Captando l’incapacità di Trevor di spiegare alla famiglia in cosa consistesse la sua grande occasione, Rory si assunse la responsabilità di rendere tutti partecipi della storia d’amore di Trevor o, come avrebbe preferito definirla, della sua non-storia d’amore. In mezzo al tripudio generale, Trevor ricevette pacche sulle spalle o colpetti amichevoli da parte dei fratelli che gli facevano gli auguri, e un abbraccio e un bacio da Cathy. Sulle prime, Trevor si sentì imbarazzato da tutte queste manifestazioni, ma in definitiva trasse un po’ di forza dal sostegno che la famiglia gli testimoniava, tanto che adesso pregustava il momento di consegnare nelle mani di Maria Nicholson l’ultima delle sue opere d’arte.
Per Trevor quel giorno risultò interminabile. Ogni minuto pareva durare un’eternità, ma alla fine arrivarono le otto. Con i suoi nuovissimi Levi’s neri, una camicia con il collo alla coreana e una giacca di pelle anch’essa nera, Trevor incarnava il prototipo del raffinato studente d’arte. Rory e Dermot diedero il loro benestare, e Trevor si incamminò verso la festa di Maria Nicholson.
Belgrave Square era bellissima, una vasta piazza di case vittoriane che circondavano uno spazio ricreativo protetto da una recinzione e noto come Parish Priest’s Park. C’erano cinque ingressi che immettevano nel parco: quattro a metà di ciascun lato del perimetro quadrangolare e uno sull’angolo prospiciente al centro della città. Trevor stava seminascosto dietro un cespuglio rasente alla cancellata sul lato ovest della piazza. Attraversata la strada, era venuto a trovarsi a tre case di distanza da quella di Maria Nicholson. Da quella postazione riusciva a sentire la musica ritmata di Desmond Decker che eseguiva The Israelites, una delle canzoni preferite di Trevor anche se non ne capiva mai le parole. Ogni tanto arrivava una macchina da cui scendeva un ragazzo o una ragazza, che poi andava alla festa. Ne riconobbe la maggior parte. Il suo punto di osservazione accanto al cancello distava circa duecento metri da una cassetta per le lettere verde, sullo stesso lato della strada, due portoni oltre quello di Maria. Trevor era già andato e venuto dalla cassetta delle lettere almeno dieci volte, continuando a borbottare dentro di sé: «Aggiungi anche questo alla tua collezione».
Adesso Trevor si era sbottonato il colletto della camicia e stava sudando. Le mani affondate in tasca, strascicava i piedi. All’improvviso gemette ad alta voce: «Non ce la faccio», e si allontanò a grandi passi. Girato l’angolo che da Belgrave Square immetteva in Victoria Street, si imbatté in una cabina telefonica illuminata. Entrò e compose il numero di sua madre. Rispose Rory.
«Rory? Sono io, Trevor».
«Trevor? Allora, come va la festa?»
«Va benissimo, la musica è fantastica».
«E il cibo com’è?»
«Eh... Non lo so, non lo so».
«Non hai mangiato niente?»
Seguì una pausa durante la quale Rory intuì la verità.
«Ah, Trevor, non mi dire che non sei entrato, cazzo!»
«Non ce la faccio, Rory».
«Certo che ce la fai, Trevor, devi!»
«Ma... ma vedo entrare una marea di gente, Rory, li conosco tutti... che succede se lei si mette a ridere?»
«Trevor Browne, non so dove sia la cabina telefonica da cui mi stai chiamando, ma adesso tu riporterai il culo davanti a quella porta, entrerai e darai il quadro a quella ragazza, oppure ti giuro che non ti rivolgerò più la parola. Dico sul serio!»
Rory chiuse bruscamente la comunicazione. Trevor rimase immobile per un paio di minuti, la cornetta che gli sibilava contro l’orecchio. La riagganciò adagio, uscì dalla cabina e mosse alcuni passi. Quasi senza rendersene conto arrivò alla base della scalinata davanti alla casa di Maria Nicholson. Tirò fuori le mani dalle tasche, si riabbottonò il colletto, spinse il mento in fuori e, mormorando: «Ma sì, vaffanculo», salì i gradini e bussò alla porta. L’uomo che gli aprì lo sovrastava di una quindicina di centimetri. Sopra una camicia e un farfallino bianchi indossava un tight rosso. Si rivolse a Trevor in tono solenne: «Buonasera, signore, mi fa vedere il suo invito, per favore?»
Rory, Dino, Dermot e Agnes erano seduti intorno al tavolo di cucina, bevevano la loro consueta tazza di tè e scambiavano due chiacchiere, quando sentirono aprirsi la porta. Agnes alzò lo sguardo sull’orologio della cucina: erano le due e mezzo del mattino. Rory sorrise e le strizzò l’occhio. Tutti e quattro stavano tenendo sotto controllo l’ingresso da molto prima che comparisse la sagoma di Trevor. Era ubriaco, ubriaco fradicio. Aveva i capelli arruffati, un rivoletto marrone che gli colava dal lato destro della bocca e gli occhi vitrei. Tutti avrebbero voluto fargli una certa domanda, ma nessuno osò articolarla. Con quattro passi malfermi Trevor raggiunse il tavolo. Affondò la mano nella tasca della giacca e ne estrasse il quadretto. Quattro paia di occhi lo fissarono. Trevor buttò il quadretto sul tavolo, si girò e andò a letto. Nessuno fiatò. Le parole non servivano.
La domenica mattina, l’invariabile routine di Trevor Browne consisteva nel fare colazione di buon’ora, mettere in una borsa l’album da disegno con le matite e raggiungere in autobus un posto dove sarebbe andato avanti a disegnare per gran parte del giorno. Persino dopo gli avvenimenti della notte precedente, questa domenica non risultò diversa dal solito se non per il fatto che la colazione fu consumata in silenzio. Quando Agnes fece per versargli un’altra tazza di tè, Trevor si limitò a indicare con la mano che non ne voleva più. Si alzò in piedi, portò il vassoio, la tazza e il piattino, uno sopra l’altro, al lavello e li depositò sullo scolapiatti. Agnes prese il quadretto dalla mensola dove lo aveva appoggiato e lo consegnò a Trevor senza una parola di commento. Trevor osservò il quadro, poi la faccia di sua madre.
Sorridendo le disse: «Non lo voglio, Mamma, puoi tenertelo!» Infine uscì, pronto per dedicarsi ai suoi disegni.
Frustrata e preoccupata per il figlio, Agnes si sentì il cuore pesante per gran parte del giorno. Si rasserenò solo quando arrivò l’ora del tè: aveva deciso di andare da Mark e da Betty per prendere il tè con loro, dopodiché Mark e Betty sarebbero usciti e lei avrebbe avuto il piccolo Aaron tutto per sé. Era un bambino talmente buono, era una vera gioia prendersene cura. Salutati Mark e Betty che si erano cambiati e andavano a trovare i loro amici, Agnes pulì la cucina e riordinò sommariamente il salotto. Poi scaldò a temperatura corporea il latte di Aaron, gli diede da mangiare, gli cambiò il pannolino, ma, invece di rimetterlo nella culla, accese la televisione sintonizzandosi sul film della domenica sera e si sdraiò sul divano con il piccolo Aaron in grembo. Ne sbirciava di continuo il visetto, con le palpebre che a tratti avevano un fremito. Niente, pensò, può sostituire il dolce profumo del respiro di un bambino che dorme.
Mark e Betty tornarono a un orario decente e la macchina era ancora bella calda quando Agnes vi salì per essere riaccompagnata a casa. Era stata per lei una splendida serata, tranquilla e serena, allietata dalla compagnia del nipotino, talmente splendida che, quando il giorno successivo si alzò, aveva quasi dimenticato la delusione di Trevor. Finché non vide, mentre stava per mettere sul fuoco il bollitore, il quadretto posato sulla mensola.
La sua tristezza ebbe vita breve. Trevor entrò in cucina con passo deciso. Andò dritto al lavandino e prese il quadro dalla mensola. Agnes lo scrutò in faccia. Una fiamma gli guizzava negli occhi e il mento attestava una cupa determinazione. Trevor fu laconico: «Cazzo, Maria Nicholson avrà questo quadro, che le piaccia o no, Mamma» e uscì di casa come un razzo.
All’ora del tè, quella sera, Agnes raccontò a tutta la famiglia quel fulmineo entrare e uscire di Trevor. Sedevano intorno al tavolo e, mentre sorbivano il tè, aspettavano il suo ritorno. Dermot aveva persino disdetto un appuntamento con Mary Carter in previsione degli attesi festeggiamenti. Seppero invece tutti, non appena rientrò, che qualsiasi cosa fosse successa quel giorno non era ciò che Trevor si era augurato. Trevor prese posto sull’unica sedia vuota attorno al tavolo e, mentre la madre gli versava una tazza di tè, disse: «Prima che qualcuno di voi me lo chieda, no, non ho dato il quadro a Maria Nicholson, ma un momento, non perché non abbia voluto o non ci abbia provato...» E si mise a raccontare tutta la storia.
A Trevor non era nemmeno passato per l’anticamera del cervello di chiedersi perché Maria Nicholson avesse organizzato una festa. Era il suo compleanno? Non lo sapeva – non gli interessava saperlo, perché l’unica cosa che aveva in testa quel sabato sera era come darle il quadro. Tornato al college quel lunedì mattina, vagò da un’aula all’altra in cerca di Maria Nicholson. Non la trovò da nessuna parte e quando chiese notizie di lei alla reception, gli dissero che quella mattina non l’avevano vista entrare. Fu Noel King a informarlo di come stessero le cose. Il padre di Maria aveva firmato un contratto offertogli da un’azienda con sede in Irlanda, ma per lavorare a un ponte in Nuova Zelanda. La festa era una festa d’addio. Quel giorno, al termine delle lezioni, Trevor passò da Belgrave Square. La casa dei Nicholson era vuota. Maria se ne era andata.
La famiglia Browne ascoltò la storia di Trevor in religioso silenzio. Trevor non l’aveva raccontata in tono accorato o rabbioso, ma in un modo che lasciava intendere come questo fosse precisamente l’epilogo che lui aveva previsto. Finito il racconto e finito il tè, Trevor si ritirò in camera sua. Staccò la cornice dal dipinto, e delicatamente sfilò le graffette dalla minuscola tela. Poi la spianò e la ripose nel portafogli, dove sarebbe rimasta a ricordargli che se mai l’amore fosse tornato a bussare alla sua porta, lui avrebbe dovuto afferrarlo con entrambe le mani.