7.

Durante il primo mese in Inghilterra, Trevor scrisse una let­tera a sua madre ogni settimana. Il mese successivo, ad Agnes ne giunsero solo due, che poi si ridussero a una. Al­l’epoca in cui arrivò il suo quarantottesimo compleanno, il 7 luglio 1981, Agnes non si aspettava più una lettera da Tre­vor se non quando la vedeva nella casella della posta. Ma, quel giorno, da lui, così come da tutti gli altri figli e dal ni­pote Aaron, ricevette puntualmente un biglietto d’auguri. Ad Aaron si sarebbero presto aggiunti altri due nipoti, per­ché Fiona aveva scoperto solo qualche giorno prima di essere incinta e Cathy avrebbe partorito di lì a cinque settimane.

Non ci fu nessuna festa collettiva per il suo compleanno. Mark e Betty avevano portato fuori a cena Agnes e Pierre in un lussuoso ristorante, il Pot Pourri di Parliament Street. Dato che tutti i camerieri parlavano francese, Pierre si sentì davvero a casa. Passarono una serata deliziosa e, una volta rientrata a Wolfe Tone Grove, Agnes invitò Pierre a tratte­nersi per la notte. Lui acconsentì prontamente, felice di po­tersi concedere un paio di “organismi”. Presero una tazza di tè al volo e poi Pierre salì le scale, fino alla camera da letto. Prima di raggiungerlo di sopra, Agnes rilesse i biglietti d’au­guri. Erano bellissimi, rifletté, ma non era la stessa cosa che avere i figli accanto. Dedicò un fugace pensiero a Frankie, poi salì anche lei le scale con il cuore pesante, ma si illu­minò quando vide Pierre in camera da letto con indosso solo un perizoma, che lo faceva somigliare vagamente a un lottatore di sumo denutrito. Fecero l’amore per tre ore e mezza, ed Agnes Browne entrò nel quarantanovesimo anno da donna appagata.

Mancavano solo cinque settimane alla data prevista per il suo primo parto e Cathy era emozionata. Non vedeva l’ora di diventare madre. Sperava anche che la nascita del figlio contribuisse a riavvicinarle Mick, migliorando il loro rap­porto. Stava cercando in tutti i modi di gratificarlo – avrebbe fatto qualsiasi cosa per renderlo felice. Il problema era che lei non sapeva che cosa potesse davvero renderlo fe­lice. Quando uscivano con i suoi amici e le rispettive mo­gli, Mick le diceva di vestirsi elegante. Prima di varcare la soglia di casa, lui la controllava, ordinandole di togliersi questo e di mettersi quell’altro. Lei assecondava sempre i suoi desideri senza discutere, e quando lui era finalmente soddisfatto del suo aspetto, uscivano. Ma poi, dopo qual­che bicchiere, Mick cambiava completamente opinione e le diceva che sembrava una puttana. Più tardi, l’accusava di fare gli occhi dolci ai suoi amici o magari anche a qualche estraneo presente nel pub. Al ritorno dopo queste serate, Mick esplodeva, trasformandosi in una furia. Più lei re­spingeva le accuse del marito e proclamava il suo amore per lui e lui soltanto, più la situazione si aggravava. Imparò a stare zitta. Imparò che respingere le accuse, o scusarsi, non le risparmiava comunque le percosse. C’erano poi periodi in cui Mick, anziché picchiarla, le diceva che era una scema

o le intimava bruscamente il silenzio se lei cercava di attac­care discorso.

Cos’era successo all’uomo di cui si era innamorata e che aveva sposato? Cathy divenne una creatura silenziosa. Usciva di casa solo in caso di necessità. Le piaceva quella casa, era meglio della roulotte, che in inverno era una ghiacciaia. L’avevano presa in affitto ad Arklow. Ma era pur sempre un punto di partenza, si diceva, e la teneva pulita, in perfetto ordine. Non aveva molti amici – anzi, per la ve­rità non aveva nessun amico. A Mick non piaceva che lei avesse degli amici. Le diceva che non doveva fidarsi della gente del posto e non voleva che si mettesse a parlare con loro di faccende personali.

Ma il bambino avrebbe cambiato tutto, lo sentiva. Nelle giornate di sole lo avrebbe portato a passeggio con la car­rozzina, ascoltando i suoi balbettii. Pregava perché fosse un maschio: sapeva che Mick ne sarebbe stato felice. Un figlio maschio avrebbe inorgoglito il padre; e lei, in quanto porta­trice di quel figlio, avrebbe condiviso il palpito di quell’or­goglio, o almeno lo sperava – no, non lo sperava, ne era si­cura! Da quando era rimasta incinta, Mick l’aveva trattata con i guanti bianchi; rispetto ai suoi parametri, la stava de­cisamente viziando e, adesso, sembrava di umore molto mi­gliore anche quando si ubriacava. C’erano stati solo un paio di inconvenienti durante la gravidanza. Per esempio, Mick aveva deciso che Cathy non dovesse più fumare, e la cosa, secondo lei, poteva avere un risvolto positivo. Purtroppo, però, aveva deciso anche che dovesse smettere di bere. E a lei dispiaceva di non poter più andare al pub con lui e stare in­sieme agli altri. In compenso, ogni sera, quando tornava dal pub, lui le portava una porzione di fish and chips grondante di aceto; da quando era rimasta incinta, Cathy adorava l’aceto. Sì, era sicura che il bambino avrebbe cambiato tutto!

 

Trevor si ambientò benissimo alla Hutchinson & Bailey. Oltre a lui, nel settore creativo lavoravano altri tre artisti. Formavano un gruppetto molto affiatato, ma accolsero Tre­vor tra loro con sincera disponibilità. Si chiamavano Tony Vescoli, Sue White e Bert Chadwick. Agli occhi di Trevor apparve subito evidente il reciproco attaccamento di Tony e Sue. La famiglia di Tony Vescoli veniva da Liverpool. Erano cattolici di origine italiana. Tony aveva studiato alla St Thomas’s School, un istituto cattolico di Speke, prima di laurearsi in arte alla Manchester University. Come Trevor, anche Tony era stato selezionato dalla Hutchinson & Bai­ley direttamente all’università, cinque anni addietro. Tony era gentile, affabile, equilibrato, e non tardò a stringere amicizia con Trevor.

Sue White iniziava ogni giornata lavorativa come una bottiglia di champagne appena stappata. Aveva un sorriso per tutti e sembrava vedere sempre il lato positivo delle cose. Oltre che per la sua effervescenza, si distingueva per un forte istinto materno ed era la confidente dei colleghi. Nel suo primo giorno di lavoro, Trevor rimase enorme­mente sorpreso quando lei lo accolse con un grande ab­braccio, un bacio e una tazza di caffè, seguiti da un centi­naio di domande. Veniva facile risponderle, sicché, neanche un’ora dopo averlo conosciuto, Sue White sapeva già di Trevor Browne più cose di chiunque altro sulla terra. Sue era un’artista nata e sprigionava energia allo stato puro. Non era stata la Hutchinson & Bailey a cercarla, era stata lei, durante l’ultimo anno di università, a prendere di mira la Hutchinson & Bailey come l’azienda per cui voleva lavo­rare. In realtà, il suo colloquio di tre anni prima non era riuscito a procurarle un impiego negli uffici di Bond Street. L’avevano assegnata alla sede di Glasgow, con la promessa di un trasferimento non appena si fosse aperto uno spira­glio. Afferrando al volo l’occasione, lei era rimasta a Gla­sgow, dove incidentalmente si era messa in ottima luce, solo per due anni prima di approdare alla sede centrale di Lon­dra. Sue era nata e cresciuta in una bellissima palazzina in stile Tudor a Camberley, nel Surrey, non lontano dall’ippo­dromo di Ascot.

Bert Chadwick veniva dall’East End londinese. Era un trentacinquenne tarchiato, con una passione maniacale per il calcio – per la precisione, la squadra del Tottenham Hot­spur. La sua stretta di mano, anche se sudaticcia, era ferma e calorosa. A Trevor piacque. L’apogeo della giornata era per Bert la pausa caffè di metà mattina, durante la quale divo­rava le pagine sportive del Sun insieme con una mezza doz­zina di frittelle.

Sue era profondamente innamorata di Tony. Ma il suo problema era che non riusciva a capire perché non tutti avessero una storia d’amore simile a quella che lei viveva con Tony, in particolare se una persona era giovane, attra­ente e disponibile come Trevor. Perciò, appena Trevor mise piede in ufficio, per lei diventò una sfida personale accop­piarlo con una ragazza capace di rubargli il cuore. Non era la prima volta che Sue faceva una cosa del genere, le era già capitato in precedenza, a Glasgow. Nell’ufficio di Glasgow il bersaglio dell’“arco e della freccia di Cupido” era Nicky, la sua migliore amica e collega. Nicky era una ragazza favo­losa, dotata di grande personalità, eppure Sue non era riu­scita a trovarle un compagno adatto. Però le due ragazze erano diventate amiche intime e, anche se Nicky viveva an­cora a Glasgow, continuavano a restare in contatto. Tra l’uf­ficio di Glasgow e quello di Londra s’intrecciavano ore e ore di conversazioni telefoniche senza che ci fosse nessun affare in ballo. Sue teneva aggiornata Nicky sui suoi tentativi con Trevor. Suggerì addirittura a Nicky di venire a Londra per un weekend a conoscere Trevor, perché era sicura che le sa­rebbe piaciuto. Nicky l’aveva già sentita, questa storia.

Purtroppo Sue non stava facendo progressi con Trevor, così come le era successo con Nicky a Glasgow. Ogni fine settimana, organizzava un’uscita in quattro con lei e Tony, ma puntualmente nessuna delle ragazze da lei prescelte, an­che se qualcuna di loro era davvero bella, riusciva a solleti­care la fantasia di Trevor.

Fu così che i primi due mesi di Trevor nell’ufficio di Bond Street trascorsero serenamente. Non altrettanto bene andavano le cose fuori dall’ufficio. Trevor aveva trovato una sistemazione (era questa l’unica definizione possibile) a Sussex Gardens. Si riduceva a una stanza con doccia e tele­visione. Non c’era angolo cottura, nessun tavolo abbastanza grande per squadernarci un album da disegno, e nemmeno una poltrona su cui rilassarsi. Anche se la sua camera era al quinto piano, l’unica vista di cui godeva dalla finestra era su un edificio adiacente che pareva talmente vicino da poterlo toccare. Trevor chiamava quel buco la sua “cella”. Sentiva di odiarlo e cominciava a sentirsi molto, molto solo, sopraf­fatto dalla nostalgia di casa. Nel tentativo di alleviare que­sta solitudine, prese a frequentare i pub irlandesi, dove be­veva qualche bicchiere in compagnia di connazionali. Can­tavano le canzoni dei ribelli e raccontavano storie parados­sali sulla loro patria. Ma quando il pub chiudeva i battenti e lui tornava alla sua cella, dove lo attendeva un padrone di casa che nemmeno parlava inglese, la solitudine riaffiorava. Nelle prime due settimane scrisse a casa, alla madre, quasi ogni giorno. Quando la solitudine prese il sopravvento, la scrittura fu la prima cosa a risentirne. Temendo che le let­tere potessero tradire il suo stato d’animo, ne ridusse la fre­quenza. Non voleva che sua madre sapesse che non tutto nella sua vita da emigrante funzionava alla perfezione: nes­sun emigrante vuole che la propria madre conosca la verità.