11.

Sono pochissimi quelli che si rendono pienamente conto delle conseguenze di certe loro “marachelle”. Ciò risultava particolarmente vero nel caso di Dermot e Bomba. Fac­ciamo un esempio: in una caffetteria, Dermot versava il contenuto della saliera nella zuccheriera e se la svignava. Non sapeva che l’anziana signora che si sarebbe seduta al ta­volo dopo di lui avrebbe avuto dei violenti conati di vomito in seguito al primo sorso di caffè salato. O che questi conati avrebbero avuto un effetto negativo sulla reputazione della caffetteria e del suo proprietario, che combatteva quotidia­namente per far quadrare i conti. Per Dermot e Bomba era solo uno scherzo. A volte, però, le conseguenze si ritorcono contro di noi, come sperimentarono Dermot Browne e Bomba Brady la sera del 17 settembre 1981.

Dermot non aveva mai visto Mary Carter conciata così male. Mentre sedevano al bancone del pub di Foley, i suoi movimenti erano talmente scoordinati che non riusciva nemmeno a prendere in mano il bicchiere. Parlava a voce alta, faceva casino, e Dermot si sentiva in imbarazzo nel trovarsi al centro dell’attenzione di tutti gli altri avventori. Sollecitandolo a portare fuori la sua ragazza, Mr Foley non fece che anticipare le intenzioni di Dermot. Lui quindi la riaccompagnò al suo appartamento un po’ facendola cam­minare, un po’ prendendola in braccio, e la lasciò addor­mentata sul divano prima di ritornare da Foley. Adesso se ne stava silenzioso, seduto accanto a Bomba.

«Ha solo esagerato un po’, Dermo» concesse Bomba, per consolarlo.

«Sì, certo, Bomba».

«Domani mattina starà benone».

«Sì, certo, Bomba».

I due ragazzi indugiavano fianco a fianco al bancone, ap­pollaiati su alti sgabelli. Così Bomba stava più comodo, perché, da quando era stato operato ai testicoli, aveva diffi­coltà a sedersi su una sedia bassa e a piegare l’addome. C’era qualcosa che tormentava Dermot. Mentre riaccompagnava a casa Mary Carter, lei farneticava, uscendosene con ogni genere di sproloqui deliranti, per lo più incomprensibili. Ma quando arrivarono, e lui la adagiò sul divano, Mary disse qualcosa che era impossibile fraintendere. Parlò in tono piatto, ma con estrema chiarezza. «Piano, Dermo, non fare male al bambino».

Quelle parole ondeggiavano ancora nella sua mente. A Bomba, però, non disse niente. Con un gesto, ordinò altre due pinte a Mr Foley, più che felice di servire Dermot e Bomba da soli. Il giro seguente sarebbe stato accompagnato da due bicchierini di whiskey irlandese. I due amici conti­nuarono a bere fino a stordirsi.

A mezzanotte e mezzo si ritrovarono davanti allo Shakers Nightclub. Dermot si manteneva lontano dalla porta, ap­poggiandosi al palo di un lampione, cioè usandolo nel modo in cui la maggior parte degli irlandesi usa la storia: come supporto invece che per far luce. Nel frattempo, Bomba parlamentava con i buttafuori cercando di convin­cerli che lui e Dermot erano due commessi viaggiatori d’ol­tremare che volevano passare una serata divertente. I butta­fuori erano tipi scafati, anche se non c’era bisogno di essere granché scafati per capire che non molti commessi viaggia­tori stranieri avevano il tatuaggio del Manchester United sul braccio destro e parlavano con un forte accento dubli­nese. All’inizio, uno dei buttafuori ci provò con le buone, dicendo a Bomba che solo a un certo tipo di persone vestite in un certo modo era consentito l’ingresso al club. La re­plica di Bomba fu: «È per questo che fanno stare due go­rilla come voi qui fuori?»

A quel punto, scattò il ricorso al classico benservito di tutti i buttafuori: «Tu qua dentro non ci entri, amico, per­ciò vaffanculo».

Mentre percorrevano barcollando il lato est di Parnell Square, Bomba disse a Dermot che i gorilla avevano avuto culo a trovarlo di buonumore, perché altrimenti li avrebbe ammazzati. Quando giunsero all’altezza di Frederick Street, avevano già tentato invano di fermare venti taxi. Alcuni erano già occupati e quelli che non lo erano avevano auti­sti abbastanza smaliziati da riconoscere due ubriachi alla prima occhiata. Una volta arrivati a Mountjoy Square, si in­filarono carponi in un varco tra le inferriate che circonda­vano il parco nel tentativo di guadagnare i cespugli e lì ri­posarsi. Bomba passò per primo e Dermot, che non aveva ancora finito di dimenarsi, sentì venire da lontano il ri­chiamo dell’amico.

«Ehi, Dermo, spingimi, dai, spingimi!»

Dermot seguì la scia della voce, uscì dai cespugli e vide Bomba seduto su un’altalena nel parco giochi dei bambini. Scoppiò in una sonora risata, corse verso Bomba e iniziò a spingerlo. A ogni spinta, Bomba saliva sempre più su, fin­ché, raggiunto il punto più alto, gli venne da vomitare, tanto che, nel tornare in giù, sembrava quasi che stesse spu­tando fuoco.

«Ah, fermami, Dermo, fermami, ti prego» lo supplicava adesso.

Dermot cercò di protendere le mani in avanti per bloc­care l’altalena, ma, data la potenza del rinculo, Bomba gli sgusciò via e il sedile dell’altalena lo centrò sopra l’occhio, scaraventandolo a terra, supino. Bomba, nel tentativo di far girare l’altalena per vedere cosa fosse successo a Dermot, si sganciò dal sedile e atterrò a cinque o sei metri di distanza dal corpo di Dermot. I due amici gemettero a lungo. Poi, alzandosi sui gomiti, si guardarono in faccia. Le risate scop­piarono spontanee. La faccia di Bomba era tutta scorticata sul lato sinistro e Dermot aveva sulla fronte un bernoccolo lungo e largo come un buon sigaro Avana. Si rimisero in piedi e sgattaiolarono fuori dal parco, ridendo. Si appog­giarono alla cancellata del parco finché le risate non si spen­sero. Poi Dermot ebbe un’idea. Alzò il braccio sinistro e in­dicò: «Bomba, vedi anche tu quello che vedo io?»

Lo sguardo inebetito di Bomba seguì il dito di Dermot. «Che cosa?»

«Il deposito degli autobus!»

«E allora?»

«Dove c’è un deposito di autobus ci sono anche gli auto­bus». Adesso Dermot farfugliava, la parola “autobus” suonò come un confuso borbottio, e ciò nonostante Bomba capì. Ma non poté fare a meno di ripetere la domanda: «E al­lora?»

«Allora andiamo a prenderci un autobus!» E Dermot si inoltrò nella notte.

Per un istante Bomba rimase immobile, con aria stralu­nata, poi ebbe l’illuminazione. Si riscosse e trotterellò die­tro a Dermot.

«Grande idea, Dermo! Voglio guidare io».

Anche se erano solo le prime ore del mattino, alcuni pas­santi cercarono di fermare l’autobus mentre zigzagava lungo Glasnevin Road. Dermot aveva avuto qualche diffi­coltà nel cercare di mettere in moto il veicolo senza la chiave di avviamento ma, una volta acceso il motore, lo trovò facile da guidare come un camion, e anche più diver­tente. Bomba, che si era installato al piano di sopra con una manciata di monete, andava su e giù per i sedili, faceva tin­tinnare le monete e parlava con passeggeri immaginari. Ogni tanto suonava la campanella dell’autobus e ruggiva giù per la scaletta: «C’è un sacco di posto qua sopra» susci­tando l’ilarità di Dermot.

Dermot aveva già guidato dei grossi camion, ma non si era mai messo alla guida di un veicolo con il servosterzo. Tendeva a compensare troppo le curve e in questo modo fa­ceva ondeggiare l’autobus. In fondo a Glasnevin Hill ci sta­vano davvero dando dentro. Percorrendo il ponte sul fiume Tolka e risalendo la collina verso Finglas Road, la strada svoltò bruscamente a destra. In curva, Dermot esagerò a controbilanciare dalla parte opposta e l’autobus sbandò a sinistra. Aveva girato con forza il volante nel tentativo di raddrizzare la traiettoria. Ma aveva sterzato troppo. L’auto­bus andò in testacoda e slittò di lato. Bomba ruzzolò a te­sta in giù e rimase incastrato tra due sedili, il che probabil­mente gli salvò la vita. Dalle ruote, ormai bloccate, si alza­vano volute di fumo, mentre il piede di Dermot era in­chiodato sul pedale del freno. In un primo momento, le ruote posteriori erano salite sul bordo del marciapiede, fa­cendo ruotare più velocemente la sezione anteriore dell’au­tobus. Le ruote anteriori avevano sobbalzato sul marcia­piede. Sembrava che l’autobus non dovesse mai fermarsi, ma alla fine ci riuscì. Dermot ebbe l’impressione di assistere a una scena al rallentatore: vide il muretto che fiancheg­giava la strada venirgli incontro e l’autobus schiantarglisi addosso proprio dalla parte del conducente. Cinque fine­strini del piano di sopra erano già andati in frantumi quando l’autobus era salito sul marciapiede, tutti gli altri tranne due si sbriciolarono nell’impatto contro il muro. Poi, nient’altro che silenzio.

Seguì prima di tutto il buio, poi in lontananza Dermot sentì il din-din di una campanella. In seguito percepì la voce di Bomba, ma non riuscì a capire cosa dicesse. Avver­tiva un dolore acuto alla gamba destra. Scosse la testa come per schiarirsi le idee e la cosa funzionò: la voce di Bomba era molto più nitida, adesso. Bomba stava continuando a parlare con i suoi passeggeri immaginari, al piano di sopra.

«Fine della corsa, ragazzi. Si scende!» gridò a un certo punto, scendendo giù dalla scaletta con passo malfermo. «Dermo, Dermo, stai bene, Dermo?»

Anche Dermot si stava facendo la stessa domanda. Si ta­stò il corpo dappertutto e gli parve di non avere niente di rotto. Aveva del sangue sul viso, che era stato investito dai frammenti di vetro. Ma a parte questo, non sembrava es­serci niente di serio. La gamba destra era imprigionata nella lamiera che si era deformata poco sopra la pedaliera. Non riusciva a muoverla. Bomba gli fu subito accanto.

«Sono incastrato, Bomba».

«Dove?»

Dermot indicò un punto, in fondo alla gamba destra. Bomba si sdraiò per metà, infilando il piede dietro la gamba di Dermot, fino alla lamiera contorta. Con un gru­gnito, spinse più che poté la lamiera in fuori, e poi mollò.

«Va meglio?»

«Sì, mi sembra che funzioni, riprovaci». Dermot sentiva crescere il dolore.

Bomba ricominciò a esercitare sulla lamiera tutta la pres­sione di cui era capace. Con uno strattone, Dermot liberò il piede, senza scarpa. Strisciarono fuori dall’autobus. At­torno a loro regnava ancora un silenzio di tomba.

«Cazzo, dobbiamo tagliare la corda, Bomba, la polizia ar­riverà da un momento all’altro. Prendiamo per i campi». Dermot stava indicando una specie di passaggio attraverso un fossato.

Si diressero verso il passaggio, scavalcarono il fossato e si ritrovarono in un campo che si estendeva dietro un caseifi­cio. Non restava che avviarsi lentamente verso casa. Forse per una reazione nervosa, dopo una ventina di minuti di cammino tutti e due cominciarono a ridacchiare.

«Nessun dubbio, Bomba: quello che facciamo, lo fac­ciamo con stile». E giù altre risate.

«Accidenti, Dermot, quando il direttore di quel deposito arriverà lì, stamattina, non sarà molto contento».

Pochissime persone, in realtà, sarebbero state contente, quella mattina: la previsione di Mark Browne sulle “mara­chelle” del fratello stava per avverarsi.

 

John Cullen aveva fatto il barman per cinquantuno anni. Ne aveva solo quattordici quando aveva imparato il me­stiere al Miley’s Pub di Galvaston, il suo paese natale, a due passi da Mullingar. Nell’arco di mezzo secolo, l’evolversi della sua carriera lo aveva condotto a lavorare nei bar di quasi tutte le contee irlandesi, fino all’attuale posizione di vicedirettore di The Widow’s pub a Main Street, Finglas. Portava molto bene i suoi sessantacinque anni. Attribuiva la sua efficienza al fatto che beveva poco, fumava solo la pipa e per andare e tornare dal lavoro viaggiava ogni giorno in bicicletta. John Cullen aveva ancora una regolare patente di guida, anche se aveva ormai rinunciato a servirsene. Sba­gliava. I proprietari di The Widow’s pub e i suoi affezionati clienti avevano fatto una colletta, raccogliendo una somma sufficiente per una “nuova” macchina usata da regalare a John il giorno in cui sarebbe andato in pensione, di lì a due settimane. La bicicletta, diceva John a chiunque fosse di­sposto ad ascoltarlo, aveva i suoi vantaggi. Non bisognava combattere con il traffico. Faceva bene alla salute e, ag­giungeva con una risata, se si era assaliti da un’impellente necessità corporale, bastava parcheggiare la bici da qualche parte e trovare un cespuglio o un muro dove liberare l’inte­stino o la vescica. Ed era esattamente questo che stava fa­cendo quella sera, sulla via del ritorno a casa da The Wi­dow’s. Era nascosto dietro il muretto, a cui si appoggiava con un braccio, e guardava in basso per accertarsi che le scarpe non si stessero sporcando, quando sentì uno stridìo di pneumatici proveniente dalla strada. Seguito da due esplosioni e da un frastuono di vetri frantumati.

«Cosa diavolo succede?» furono le ultime parole che usci­rono dalla bocca di John Cullen mentre l’autobus si schian­tava contro il muretto, che gli si disintegrò addosso e lo sep­pellì. La sua morte, dissero in seguito alla vedova, era stata istantanea.