15.

«Puoi dirgli di andare a cacare» sbraitò Sue White dall’altra stanza. Quella frase, l’aveva imparata da Trevor. Però il verbo “cacare” non suonava allo stesso modo, pronunciato con un accento inglese.

«La senti?» sussurrò Trevor nella cornetta del telefono. All’altro capo del filo c’era Tony.

La lite era iniziata, apparentemente, per un nonnulla. Be’, non proprio per un nonnulla, a dire il vero c’era di mezzo una piccola scultura. S’intitolava “Lupo sognante”, anche se Trevor pensava che somigliasse piuttosto a un “Setter rosso addormentato”. Comunque l’estetica non c’entrava, il litigio era scoppiato a causa del prezzo: trecento sterline. Sue l’aveva vista, le era piaciuta e l’aveva comprata. Tony si era incazzato come una belva. Ne era seguito un duello di urla, con entrambi i contendenti che usavano le solite munizioni: parole come «irresponsabile», «spilorcio», «infantile». La baruffa era culminata con Tony che annun­ciava, urlando, di voler «uscire da quella porta per non tor­nare mai più» e, alla fine, con il tonfo della porta sbattuta. A quell’uscita di scena erano seguiti un pianto dirotto e una pioggia di soprammobili sbattuti contro il muro.

Cessato il fracasso e ridottosi il pianto a un piagnucolio sommesso, Trevor aveva capito che non avrebbe corso rischi a uscire dalla sua camera da letto. Aveva preparato a Sue una tazza di caffè, cercando poi di consolarla come meglio po­teva. Questo era successo tre ore prima. Adesso Sue aveva smesso di piangere, ma era ancora infuriata. Tony disse a Trevor che aveva chiamato solo per sapere se Sue stava bene. Non aveva nessuna intenzione, ribadì, di tornare a casa. Tre­vor gli rispose ancora sottovoce: «Ascolta, Tony, stasera ri­mani in albergo, domattina, per prima cosa, ti telefono io, okay? Buona notte». Riattaccò e tornò nell’altra stanza.

«Allora, cosa ha detto Scrooge in sua difesa?» chiese Sue, con enfasi teatrale.

«Stasera rimarrà in albergo».

«In albergo? Ah no, Trevor, probabilmente dormirà in una scatola di cartone a Piccadilly Circus! Non in un al­bergo, il nostro Tony. Gli alberghi costano un sacco di soldi, cazzo!»

«Non ti pare di essere un po’ troppo dura con lui, Sue?»

Lei si girò verso Trevor. «No, non mi sembra proprio di essere dura con lui. È un tirchio bastardo, non vuole che spenda perché non vuole che mi diverta. Vuole starsene a guardare. Vuole risparmiare. Andare sempre con i piedi di piombo».

«Vuole sposarsi, Sue» disse Trevor in tono oggettivo.

Sue si interruppe di colpo. Si passò la mano tra i capelli e lentamente si sedette. Poi si accese una sigaretta.

Trevor si sedette accanto a lei e iniziò a parlarle con dol­cezza. «Vuole un bel ricevimento di nozze, vuole una vil­letta nel Surrey, vuole un paio di macchine, vuole tutto questo per te e per lui, e sa che per questo servono soldi».

La mano di Sue tremava nell’accostare la sigaretta alle labbra. Una volta digerite le parole di Trevor, si alzò im­provvisamente in piedi e gli voltò le spalle.

«Be’, può andare a cacare» disse con tono di sfida.

«Non farlo, Sue».

«Non fare cosa?»

«Non buttare tutto nel cesso. Lui ti ama».

Sue non replicò e nemmeno si girò. Così Trevor parlò ri­volgendosi alle sue spalle. «Voi due, probabilmente, state buttando via la più bella storia d’amore che io abbia mai vi­sto, tutto questo perché? Perché siete troppo stupidi per ri­conoscere quanto vi amate».

Sue si girò adagio e guardò Trevor. Ma lui non aveva fi­nito – ormai aveva ingranato la quarta. «Credimi, Sue, io lo so. L’opportunità di incontrare il vero amore arriva di rado, molto di rado, e quando si presenta, bisogna afferrarla al volo con tutte e due le mani. Altrimenti...» Trevor tornò a sedersi lentamente. Non guardava Sue, non stava nemmeno parlando a lei. «Altrimenti, lo rimpiangerai per tutta la vita». A quel punto alzò gli occhi sull’amica. «Io lo so bene, Sue!»

Sue aveva capito dalla sua espressione che lui lo sapeva. Spense la sigaretta e tolse le due tazze vuote dal tavolino. «Preparo un’altra tazza di caffè, che ne pensi, Trevor?» Senza aspettare risposta, uscì dalla stanza.

Dieci minuti dopo, tornò con due tazze di caffè caldo. Trevor aspettò che si sedesse, poi le chiese: «Tutto bene?»

Sue si limitò ad annuire. Si accese un’altra sigaretta e ap­parve evidente, da come si accomodò sulla sedia, che era pronta a parlare. «Hai ragione, Trevor».

«Lo so».

«E non sei il primo a dirmelo. Hai presente Nicky, la mia amica di Glasgow?»

«Certo, ma che c’entra lei?»

«Mi ha detto la stessa cosa due anni fa. Sai, Trevor, quando frequentava l’università, c’era qualcuno che lasciava dei qua­dretti per lei. Copie in miniatura di celebri opere d’arte. Le trovava in posti strani, Trevor, e la prima lettera del nome del pittore corrispondeva a una lettera del suo nome. Non ha mai scoperto chi fosse, e mi dice che se ne rammarica ancora adesso. Hai ragione, Trevor, ora per me e Tony si tratta di “prendere o lasciare”, o ci sposiamo o la finiamo qui».

Mentre parlava, Sue evitava di guardare Trevor. Lui, dal canto suo, era impietrito, divorava ogni parola che usciva dalla bocca della ragazza. Il sangue gli era defluito dal viso, gli girava la testa, non aveva più una goccia di saliva, e quando gli venne spontanea la fatidica domanda, quasi non riuscì ad articolare le parole.

«Nicky? La tua amica di Glasgow... Nicky?»

Solo allora Sue notò il cambiamento di Trevor. «Sì, cosa c’è che non va in lei?»

«Come si chiama di cognome? Qual è il cognome di Nicky?»

«È questo il suo cognome, Trevor. Be’, non proprio per intero, quello completo è Nicholson. Si chiama Maria Ni­cholson – ma tutti la chiamano Nicky».

 

Sedevano tutti e quattro intorno al tavolo rotondo nella sala da pranzo della casa di Cookham. Era la prima sera che Tony Vescoli rimetteva piede in casa da quando, quattro giorni prima, aveva levato le tende. Alla stessa ora, mentre Trevor era andato a prendere Tony in albergo, Sue era an­data alla stazione per incontrarsi con Maria Nicholson. Quando Trevor le aveva chiesto di invitare Nicky a cena, Sue aveva accettato con gioia la sua proposta. Per due ra­gioni: anzitutto avrebbe avuto finalmente la possibilità di presentare l’uno all’altra i due “fallimenti di Cupido”; in se­condo luogo, quell’incontro l’avrebbe aiutata a rompere il ghiaccio in occasione del ritorno di Tony.

Nel momento in cui Trevor arrivò in albergo, era difficile dire quale dei due uomini fosse più nervoso. Quando Tony aprì la porta della sua camera, aveva il colletto della cami­cia risvoltato e, intorno, una cravatta rigirata in modo mal­destro.

«Non riesco a farmi il nodo, Trevor, mi tremano le mani».

«Be’, non chiederlo a me, Tony» replicò Trevor.

«Gesù Cristo, Trevor, si direbbe che sia la tua serata, non la mia». Tony rise, ma era una risata nervosa.

Adesso però erano tutti lì, seduti intorno al tavolo ro­tondo. Tony di fronte a Sue, Trevor di fronte a Nicky. Se Nicky aveva riconosciuto Trevor, non lo lasciò minimamente trasparire dalla sua espressione. Al momento della presenta­zione a Trevor, il suo fu un saluto molto formale e i suoi pen­sieri sembrarono concentrarsi esclusivamente sul modo in cui si sarebbe risolta la serata per Tony e Sue. Ovviamente Sue aveva informato Nicky della situazione, sia nelle loro te­lefonate, sia durante il tragitto dalla stazione a casa. Sue, con un piccolo contributo di Nicky, aveva preparato una magni­fica cena a base di filetti di maiale ripieni, broccoli, asparagi e patate novelle, seguiti da una torta al formaggio insaporita con limone e panna: cioè a dire – guarda caso! – le specialità preferite di Tony. Ormai dalla tavola erano stati tolti tutti i piatti sporchi e vi campeggiavano solo quattro tazze di caffè, una caffettiera, una zuccheriera, un vasetto di panna, tre bot­tiglie di vino vuote e un candelabro. Tony tossì, pronto per la sua solenne dichiarazione.

«Susan White, con il tuo permesso e quello dei nostri gentili commensali» fece un cenno in direzione di Trevor e Nicky, che annuirono in risposta, «vorrei chiederti ufficial­mente di diventare mia moglie. Se accetti, ti prego...» – e in così dire Tony infilò la mano nel taschino della giacca e ne estrasse una scatolina di velluto color porpora: la aprì, met­tendo in mostra un bellissimo anello di fidanzamento a tre pietre – «...di infilare al dito questo anello come segno del nostro fidanzamento».

La proposta suonò alquanto formale, anche se Trevor non si aspettava niente di diverso da Tony. Sue fissò l’anello per qualche istante prima di prelevarlo dalla scatola. Se lo fece scivolare lentamente lungo l’anulare e alzò gli occhi su Tony con un sorriso radioso stampato sul viso. «Ti amo, Tony Vescoli».

«Ti amo anch’io, Sue White».

Mentre Tony e Sue si baciavano, Trevor e Nicky batte­rono le mani.

«A questo punto s’impone un brindisi» esclamò Trevor. Uscì per andare a prendere dal frigo la bottiglia di champa­gne. Quando tornò e tutti i bicchieri furono riempiti, i quattro brindarono alla felicità della coppia di fidanzati.

Al termine del brindisi, Trevor si schiarì la voce. «Ho idea che sarebbe una specie di farsa avere allo stesso tavolo due belle donne e regalare qualcosa solo a una di loro» sen­tenziò. Le due donne da lui citate ridacchiarono come ra­gazzine.

«Be’, buon per te, Trevor» concluse Tony, e gli diede una pacca sulla schiena.

Trevor infilò la mano nella tasca posteriore dei pantaloni ed estrasse il portafoglio. Lo appoggiò con delicatezza sul tavolo e lo aprì. Gli occhi degli altri tre erano incollati al portafoglio. Lentamente, da uno scomparto sul retro, Tre­vor fece scivolare fuori l’ultimo dipinto della collezione di Maria Nicholson. Lo posò davanti a Nicky. Poi pronunciò la frase che aveva provato con Rory e Dino, e che gli era ri­masta bloccata in gola per tanti anni: «Aggiungi anche que­sto alla tua collezione, Maria!»

 

Trevor Browne e Maria Nicholson si sposarono dodici settimane dopo in una chiesetta cattolica di Deepcut, nel Surrey. Gli unici due membri della famiglia Browne che non intervennero alla cerimonia erano Dermot e Cathy. Pur avendo passato una magnifica giornata, Agnes, la ma­dre dello sposo, fu assalita da un senso di sconforto perché, anche in occasione di questa ennesima festa di famiglia, non era riuscita a radunare tutti i suoi figli in una sola stanza.