Cathy provò una grande gioia nel ricevere la lettera di Bomba. Era passato un sacco di tempo dall’ultima volta che, per iscritto o verbalmente, qualcuno le aveva chiesto come stava. Per giunta Bomba le rivolgeva complimenti come: “Spero che tu sia bella come sempre”, che le diedero la sensazione di essere ancora una ragazzina. Lesse la lettera seduta a tavola, all’ora di colazione, sola. Mick non era tornato a casa dall’ultimo turno. Di nuovo. La prima volta la lesse in silenzio, la seconda ad alta voce a beneficio di Pamela. La bambina sorrise e gorgogliò nei momenti opportuni: alla fine, terminata la lettura, si accigliò e scoppiò a piangere, costringendo Cathy a rileggerle la lettera un’infinità di volte. Finché Pamela scivolò nel sonno con le parole di Bomba Brady che le risuonavano nelle orecchie.
La nascita di Pamela non aveva segnato il minimo cambiamento nel rapporto tra Cathy e Mick. Cathy non si illudeva più che il loro fosse un vero matrimonio, né che Mick potesse essere qualcosa di diverso dal bastardo che era. Ma dove sarebbe potuta andare? Cosa avrebbe potuto fare? Ogni tanto, certo, le era passato per la testa di fare le valigie e di tornare con Pamela a Dublino, dalla madre. Ma poi ripensava alla sua migliore amica, Cathy Dowdall, e agli anni terribili che aveva passato, ancora adolescente, per cercare di mantenere, da sola, sé stessa e il suo bambino. E così l’idea si dileguava subito dalla sua mente. Si prendeva cura della casa e riversava tutte le energie e le attenzioni su Pamela. Quel giorno, mentre Pamela dormiva, Cathy riordinò la cucina, poi si sedette al tavolo e rispose alla lettera di Bomba. Iniziò raccontandogli di come andavano le cose tra lei e Mick. Era la prima volta che confessava le sue difficoltà a un essere umano, e quando imbucò la lettera si sentì stranamente più leggera. Cathy O’Leary sapeva di essere in trappola. Sapeva di non poter cambiare Mick O’Leary. Sapeva di non poter cambiare le circostanze. Sapeva che il primo cambiamento doveva riguardare Cathy O’Leary, ma lei, con una bambina appena nata, lei non si sentiva pronta per quel cambiamento. Non ancora.
Il supervisore del blocco C diede a Dermot il permesso di accompagnare Bomba in amministrazione. Era il 24 marzo, giorno del rilascio di Bomba. Si diressero pigramente verso l’edificio che ospitava gli uffici, Bomba teneva in mano una busta di nylon contenente gli scarsi effetti personali che avrebbe riportato a casa. Dermot camminava al suo fianco, le mani in tasca. Una volta arrivati davanti alla porta dell’amministrazione, dato che Dermot non poteva proseguire, si fermarono. Si girarono, vennero a trovarsi uno di fronte all’altro. Dermot abbassò lo sguardo sul viso paffuto del suo migliore amico. Stava per parlare quando la porta si aprì e ne schizzarono fuori, spintonati, i nuovi detenuti di quel giorno. Dermot e Bomba li passarono in rassegna.
«Le solite facce, non fanno altro che tornare qui dentro» disse Dermot con voce atona.
«Già. Ma io no, Dermo. Non ci tornerò più».
Si scambiarono un’altra occhiata.
«Lo spero anch’io, Bomba. Senti, quando uscirò di qui...» iniziò Dermot. «Be’, lo sai». E si mise a strascicare i piedi.
«Dermo, io sarò fuori da quel portone, ad aspettarti. Ci sarò!» Gli occhi di Bomba si stavano riempiendo di lacrime.
«Ma certo, Bomba, lo so benissimo». Dermot gli allungò una pacca sulle spalle. «Adesso fila, vattene via di corsa» concluse Dermot, voltandosi e iniziando ad allontanarsi.
«Dermo?» chiamò Bomba.
Dermot si girò.
«Posso scriverti?».
«Sarà meglio che tu lo faccia, sennò quando esco ti ammazzo» rispose Dermot con un sorriso. Ed entrambi uscirono in quella risata triste che solo due amici che stanno per separarsi possono conoscere.
Quella sera, mentre si metteva in fila per la cena, nel carcere di Mountjoy, Dermot non era dell’umore giusto per chiacchierare, ma non aveva molta scelta. Uno dei nuovi arrivati lo aveva riconosciuto. Dermot era tentato di dirgli di chiudere quel cazzo di bocca che si ritrovava, di lasciargli ritirare il vassoio che gli spettava e di permettergli di tornare nella sua cella a mangiare in santa pace. D’altra parte conosceva la sensazione che si provava ad essere “appena entrati” e sapeva anche che, in certi casi, c’era un solo modo per sciogliere la tensione: parlare senza sosta. Perciò lasciò che quel tizio si sfogasse. Anche se ben poco di quello che gli diceva era di qualche interesse per lui, finse di seguirlo con attenzione. Finché l’uomo lo informò: «Ah, sai, a proposito, una tua vecchia amica ha tirato le cuoia!»
Quella frase risvegliò l’interesse di Dermot. «Tirato le cuoia? Morta, vuoi dire?»
«Sì, per overdose di eroina!» L’uomo adesso parlava con il tipico compiacimento di un pettegolo consapevole di dispensare informazioni nuove di zecca.
«Una mia amica? Chi?»
«La tua ragazza di Townsend Street. Com’è che si chiama? Ehm... Mary Carter! Sì, proprio lei, Mary Carter».
Di colpo, Dermot lasciò cadere il vassoio sul pavimento. Spinse da parte il chiacchierone, si voltò e s’incamminò con passo malfermo verso la sua cella. Appena arrivato in cima alle scale del ballatoio, vomitò. Padre Gibney passò quella notte nella cella di Dermot: il giovane cappellano del carcere di Mountjoy ascoltò, sottolineati da potenti singhiozzi, gli sfoghi intrisi di sensi di colpa e di rimorso cui si abbandonava un ragazzo letteralmente distrutto.