25.

Probabilmente il modo migliore per comprendere cosa sia un aneurisma è di immaginare le vene come condutture idrauliche. Adesso, provate a raffigurarvi un tubo di dieci centimetri che sfocia in una biforcazione a V, dove si divide in due tubetti di cinque centimetri l’uno. È verosimile che quando il getto d’acqua proveniente dal tubo di dieci centimetri cerca di disperdersi attraverso i due tubetti da cin­que, l’aumento della pressione sulla biforcazione risulti piuttosto rilevante. I condotti idraulici sono fatti di rame. Le vene, purtroppo, no. Gli aneurismi possono verificarsi in qualsiasi parte del corpo, ma sono più gravi se interes­sano il cervello. Quando, in un aneurisma, la pressione au­menta, questo comincia a dilatarsi, e ciò può provocare pe­riodi di incoscienza. Se poi la biforcazione esplode, ne con­segue un’emorragia cerebrale, la più seria delle possibili conseguenze, che di solito causa danni al cervello, con sin­tomi simili a un colpo apoplettico. Molto spesso, in effetti, un aneurisma è seguito da un colpo apoplettico. In taluni casi può essere fatale.

Quando l’ambulanza arrivò al Madigan’s pub, gli infer­mieri somministrarono in fretta e furia l’ossigeno ad Agnes. Poi, con delicatezza, adagiarono il corpo inerte della donna su una barella. L’ambulanza si precipitò verso il più vicino pronto soccorso, quello del Mater Hospital sulla North Cir­cular Road. Winnie la Maccarella telefonò a Pierre. Prima di uscire dalla casa di Wolfe Tone Grove per andare in ospe­dale, Pierre, spaventato e preoccupato, chiamò al telefono Mark e gli diede la brutta notizia. Mark mollò subito tutto e, preparandosi a raggiungere il Mater, incaricò la segretaria di comunicare a ogni membro della famiglia Browne quanto era successo e dov’era ricoverata la loro madre. Poi si spostò nella sede centrale della Senga Furnishings e prese da parte Cathy per informarla di tutto. Con Cathy in lacrime, si di­resse quindi rapidamente verso il pronto soccorso del Mater Hospital. Tre quarti d’ora dopo, nella sala d’attesa, manca­vano solo due dei figli viventi di Agnes Browne.

A Manchester, Trevor Browne stava lavorando a un’illu­strazione per l’ultimo libro del fratello Dermot, Il ragazzo blu e Mary, quando la porta del suo studio si aprì. Capì im­mediatamente, appena vide il volto cereo di Maria, che era successo qualcosa di terribile. Due ore dopo erano entrambi a bordo del St Finbar, un 737 della Aer Lingus, e decolla­vano dall’aeroporto di Manchester. Attraverso il finestrino Trevor fissava inebetito la terra che sprofondava, staccandosi dall’aereo. Maria gli strinse dolcemente la mano. Lui si sforzò con tutto se stesso di sorridere, ma non ci riuscì.

Alle otto e mezzo di quella stessa sera, Bomba Brady era seduto davanti al camino della sua casa. Pamela dormiva e Bomba era preoccupato. Non aveva notizie di Cathy, ep­pure lei lo aveva avvertito sempre quando tardava ad arri­vare a casa. A malapena sentì bussare alla porta con tutto il chiasso provocato dalla pioggia che sferzava le finestre. Quando aprì la porta, si stupì di trovare il piccolo Cormac ritto in piedi sulla soglia sotto un ombrello. Il ragazzo era senza cappotto e tremava.

«Cormac? Entra, figliolo, entra». Bomba prese in conse­gna l’ombrello e lo scrollò. Condusse Cormac in antica­mera e chiuse la porta sul sipario di pioggia.

«Dermot dice che stanotte devo restare qui» disse Cor­mac, con aria triste.

«Certo, sarà un piacere averti qui. Ti ha detto perché, Cormac?»

Il ragazzo si strinse nelle spalle e scosse lentamente la testa.

Bomba si accovacciò di fronte a lui. «Che succede, fi­gliolo?»

«Dermot è a casa da solo. Piange... ed è ubriaco». Il ra­gazzo cominciò a singhiozzare.

Bomba lo avvolse in un abbraccio affettuoso e gli parlò dolcemente all’orecchio. «Non ti preoccupare, Cormac. Dermot ha tanti pensieri che gli frullano per la testa, forse ha solo bisogno di essere lasciato solo, stanotte. Domattina starà bene, vedrai. Dai, andiamo a farci una tazza di cioc­colata calda». Staccò da sé il ragazzo, tenendoselo davanti a braccia tese, e gli rivolse un sorriso radioso. «Che ne dici?»

Il viso di Cormac si rischiarò un po’. «Okay, Bomba, grazie».

Dopo una tazza di cioccolata calda, e una lunga chiac­chierata che incluse tutto, dalla nuova scuola di Cormac alle aspettative di Bomba riguardo alla sua attività di giardiniere, Cormac cominciò a sbadigliare. Bomba lo prese in braccio, lo portò nella camera da letto sua e di Cathy, lo spogliò e lo infilò sotto le coperte. Un’ora dopo squillò il telefono. Bomba sollevò la cornetta al volo interrompendo il secondo squillo. Lentamente, sprofondò nella poltroncina accanto al tavolo dell’ingresso mentre Cathy gli raccontava l’accaduto, spiegandogli perché non era ancora tornata a casa.

Adesso pioveva a dirotto. Bomba percorse il vialetto di gran carriera e tuttavia, quando arrivò davanti alla porta di casa di Dermot, su cui ora spiccava una targa di ottone con la scritta Libellula, era bagnato fradicio. Le luci erano accese ovunque. Sentiva le note di Johnny Reggae rimbombare in una delle stanze. Era la musica dei vecchi anni Settanta e ri­cordava a Bomba i giorni in cui lui e Dermot erano skin­head e ballavano ogni genere di reggae. Suonò il campa­nello. Aspettò. Suonò ancora, altri quattro squilli. Aspettò di nuovo. E di nuovo non ci fu risposta. Sempre più inzup­pato, imprecando, Bomba fece il giro della casa, fino alla porta della cucina che – scoprì – non era chiusa a chiave. Una volta che se la fu tirata dietro alle spalle, afferrò uno dei canovacci di Mrs Dolan e si asciugò i capelli, senza fermarsi.

Trovò Dermot in salotto. L’album che stava ascoltando era finito e il piatto adesso stava producendo uno stridente clic-clic, mentre la puntina saltellava intorno all’ultimo solco del disco. Nei pressi del camino erano disseminati i frantumi di una bottiglia di whiskey. Dermot era semisdra­iato sul divano, in stato d’incoscienza, la mano appoggiata a un’altra bottiglia di whiskey, mezza vuota. Bomba lo strat­tonò. Dermot adagio sollevò le palpebre. Quando rico­nobbe Bomba, il suo viso si aprì nel sorriso indolente e ot­tuso dell’ubriaco.

«Ah, Bomba... eccoti qui... dai, vieni che andiamo a ru­bare un autobus. Ah, ah, ah!» Dermot farfugliava e scoppiò in una risata convulsa mentre si tirava su a sedere, o almeno ci provava.

«Gesù, Dermo, stai bene?» Bomba era allarmato.

«Sto alla grande, Bomba, alla grande, cazzo, mai sentito meglio in vita mia. Ma certo, sono figlio di mio padre, per­ciò sono capace di reggere il whiskey!» Dermot brandì la bottiglia mezza vuota. «Il whiskey è il tuo unico amico, Bomba, ne vuoi un po’?»

«No, grazie, Dermo, non mi va. Senti, ho una brutta no­tizia...»

«Ma che bravo ragazzo! Proprio quello di cui abbiamo bisogno... un po’ di brutte notizie. Spara... sono l’uomo ideale per ricevere le brutte notizie. Certo, mio padre era un poco di buono, e io sono un poco di buono, e nessuna nuova buona nuova e... Oh, merda!» Dermot stava scivo­lando giù dal divano, ma con uno sforzo si rimise seduto.

Bomba allungò il braccio e impedì a Dermot di portarsi la bottiglia alle labbra. «Dermo, ascoltami per un attimo. Tua madre è stata ricoverata in ospedale».

Dermot aveva atteggiato la bocca a forma di O, pregu­stando l’incontro con il collo della bottiglia. A quel punto le labbra si stirarono in un sorriso sarcastico. «Bene! Spero che l’abbiano portata in un cazzo di manicomio!»

«Dermo, dico sul serio».

«Sono serissimo anch’io, Bomba. Quella donna non ha tempo per me... e io non ne ho per lei. È così e basta, Bomba, non abbiamo un cazzo di tempo. Mi sono spie­gato?»

Bomba ci riprovò. «Dermot, penso che stia davvero male».

«Bomba, io so per certo che sta davvero male, cazzo... Di sicuro è una lunatica di merda».

Costernato, Bomba tentò di rimettere in piedi Dermot. «Avanti, Dermo, dobbiamo andare in ospedale».

«Col cazzo». Dermot lo disse con una certa dose di ve­leno, respingendo Bomba. Nella sua ubriachezza, Dermot sottovalutava la sua forza. Bomba ruzzolò indietro, an­dando a sbattere con un lato della faccia contro uno spigolo del tavolino da caffè. Dermot si risedette sul divano. Bomba si rialzò e si portò la mano allo zigomo, nel punto d’impatto col tavolino. Quando tolse la mano, e si guardò le dita, c’era del sangue.

«Mi sono tagliato» disse semplicemente.

Dermot non lo degnò di uno sguardo, limitandosi a in­gollare un sorso dalla bottiglia di whiskey. «Non ti preoc­cupare, cazzo, guarirai». Si distese supino sul divano e chiuse gli occhi.

Bomba ne aveva avuto abbastanza. Girò sui tacchi e uscì dalla stanza. Mentre stava aprendo la porta per andarsene, il telefono cominciò a squillare. Sentì Dermot che rispon­deva.

«Cosa vuoi?» ringhiò nella cornetta. Era Mark che lo chiamava dall’ospedale. Stava telefonando per dire a Der­mot dov’era Agnes e cosa stava succedendo. Bomba aveva chiuso la porta e stava scendendo il primo scalino. Era sotto il diluvio quando sentì il ruggito di Dermot.

«Vaffanculo!» Il telefono andò a schiantarsi fuori dalla fi­nestra. Bomba si tirò su il colletto e tornò di corsa alla resi­denza del custode.

Dopo molte insistenze, Mark aveva ottenuto che Agnes venisse trasferita dal pronto soccorso a una camera privata. Il medico che aveva in cura Agnes aveva chiesto all’infer­miera di riunire tutti i membri della famiglia in una saletta d’attesa dove poi avrebbe potuto parlar loro in privato. Ed era lì che adesso si trovavano tutti, in silenzio, aspettando l’arrivo del medico. Un’infermiera era seduta proprio ac­canto alla porta e quando questa si aprì, pensò che si trat­tasse appunto del medico. Non era lui. Era un altro uomo. Uno che non riconobbe. Si alzò, impedendogli l’ingresso.

«Mi spiace, questa sala è riservata alla famiglia» disse in tono amichevole ma fermo, premendo la mano sul petto dell’uomo.

Intervenne Mark, apparso alle spalle dell’infermiera: «Mi scusi, infermiera. Lui è della famiglia».

L’infermiera si scusò e tenne la porta aperta. Dino Doyle ringraziò Mark con un sorriso e andò ad affiancarsi a Rory. I due uomini si guardarono per un attimo senza parlare, poi Rory scoppiò a piangere. Con dolcezza, Dino fece in modo che Rory appoggiasse la testa sulla sua spalla e iniziò ad ac­carezzargliela per confortarlo.

Quando sopraggiunse il medico, Pierre si alzò in piedi. Il medico gli porse la mano. «Mr Browne?».

«No, Mr Du Gloss. Sono il compagno di Mrs Browne».

«Oh, capisco, prego, si sieda». Il medico si sedette a sua volta all’unico tavolo della sala d’attesa. Il gruppo dei pa­renti aspettava ansiosamente che si esprimesse.

«Avrei voluto darvi notizie migliori» esordì il medico. «La TAC evidenzia un’emorragia cerebrale, causata da un aneu­risma. Ora, prima che mi facciate tutte le domande del caso, lasciate che vi spieghi che non c’è nessun particolare motivo per la comparsa di un aneurisma. A volte esiste fin dalla nascita. Alcuni soggetti, con un aneurisma congenito, ci convivono per tutta la vita senza mai esserne colpiti, ma­gari addirittura senza mai sapere di averlo. Qualcuno ne viene colpito e guarisce. Con franchezza, però, devo dirvi che in molti casi gli aneurismi possono provocare un ictus

– e, persino, diventare fatali». Il medico fece una pausa, nessuno chiese niente, perciò proseguì. «La prima cosa che stiamo facendo ora è cercare di ridurre la tumefazione che grava sul cervello. Mi preoc­cupa leggermente il fatto che vostra madre non abbia an­cora ripreso conoscenza. Comunque, se pure ciò avvenisse, devo avvisarvi che la terremo sotto sedativi ancora per un po’ di tempo. Le prossime ventiquattro ore saranno cru­ciali, non ci resta che aspettare e vedere cosa succede».

Ad eccezione di Rory, Fiona e Betty che tiravano su con il naso, tutti tacevano. Cathy alzò lentamente la mano come si fa a scuola.

«Sì?» chiese il medico.

«Possiamo stare accanto a lei?»

«Certamente, in effetti è un bene che siate tutti qui. Se riacquista conoscenza, vedere i suoi familiari le gioverà. E se non rinviene, be’...» Il medico lasciò in sospeso la frase. Poi si alzò e accennò ad andarsene, ma si fermò davanti a Pierre. «Mr Du Gloss, sono disponibile a rispondere a qual­siasi sua domanda, in qualunque momento», e gli porse di nuovo la mano.

Anche Pierre si alzò e ricambiò la stretta di mano. «Grazie, dottore, grazie davvero». La sua voce era affabile ma debole.

 

Quando Dermot si svegliò, la mattina dopo, era conge­lato. Era rimasto sdraiato sotto la finestra rotta. Anche se fuori aveva smesso di diluviare, durante la notte era piovuto abbastanza a lungo perché la pioggia, entrata dalla finestra rotta, inzuppasse il tappeto, il divano – e lo stesso Dermot. Si rimise in piedi con cautela. La testa gli pulsava e aveva la nausea. Barcollando come un vecchio balordo si diresse verso la cucina e infilò le mani nel frigorifero in cerca di un cartone di aranciata. La trangugiò in fretta tentando di spe­gnere la sete e di cancellare il sapore schifoso che sentiva in bocca. Mise sul fuoco il bollitore, poi aprì l’armadietto delle medicine e prese due compresse di analgesico. Avvertì un conato di vomito appena tentò di mandare giù il mezzo bicchiere d’acqua che conteneva le compresse solubili. Con l’acqua del bollitore si preparò una tazza di caffè istantaneo. Reggendo in mano la tazza, tornò in salotto. La stanza era un casino. Vide una traccia di sangue sul bordo del tavolino e altre macchie rosse sul tappeto. Si tastò accuratamente e non trovò nessuna ferita. C’erano frammenti di vetro ovun­que: intorno al camino quelli della bottiglia frantumata – e in tutta la stanza i pezzi di finestra soffiati all’interno dal vento e dalla pioggia. Guardò fuori, oltre la finestra fracas­sata. Il telefono era finito sul cofano della macchina.

«Che cazzo?» Si strofinò gli occhi, tornò in cucina e si se­dette, stringendosi la testa tra le mani. Dopo un po’, non sapeva quanto tempo fosse trascorso, sentì lo scatto della porta principale che si apriva e chiudeva e il fruscio di Mrs Dolan che si toglieva il cappotto, scuotendolo.

«Gesù santissimo!» urlò.

Si affacciò alla porta di cucina tenendo Cormac per mano. Il ragazzo aveva un’espressione stralunata.

«Oh, Cristo!» esclamò Dermot, tentando di nascondere il viso.

«Ma bene... deve essere molto fiero di sé stamattina, Mr Browne!» lo rimproverò Mrs Dolan, furibonda.

«Che ci fa il ragazzo qui?» disse Dermot da sotto il braccio.

«Lui ci vive, qui, oppure se l’è dimenticato, oltre al fatto che lei dovrebbe comportarsi da uomo?»

«Voglio dire, com’è che ce l’ha lei?»

«Mr Brady lo ha lasciato a casa mia stamattina prima di andare in ospedale. È andato a visitare sua madre, a quanto pare. Lei lo sapeva che sua madre è in ospedale?» Mrs Do­lan si esprimeva più come un’insegnante che come una go­vernante.

Ancora a testa bassa, Dermot rispose: «Sì».

«E allora mi chiedo perché non è andato a visitarla».

Dermot sollevò la testa e si alzò dalla sedia, squadrando Mrs Dolan. «Sarebbe meglio... che lei si facesse i cazzi suoi, Mrs Dolan!»

«Oh, Dio mio!» sospirò la donna, uscendo dalla cucina con passo pesante. Subito dopo, Dermot la sentì rovistare rumorosamente negli armadi del ripostiglio per tirare fuori scope, strofinacci e altri attrezzi con cui iniziò a riordinare il caos. Dermot si era rimesso a sedere al tavolo di cucina. Taciturno, Cormac mise a scaldare dell’acqua nel bollitore e tolse di mano la tazza al padre. La sciacquò sotto il rubi­netto e gli preparò un altro caffè. Muovendosi con circo­spezione attraverso la stanza, il ragazzo andò a posare la tazza davanti al padre, per poi sedersi al tavolo anche lui. Nel frattempo, non aveva aperto bocca nemmeno una volta. Dermot bevve un sorso di caffè.

«Mi dispiace per ieri sera, Cormac». Dermot era imba­razzato.

«Va bene».

«No, non va bene. Non avrei dovuto comportarmi in quel modo. Non lo farò più».

«No, davvero, va bene. Bomba mi ha spiegato tutto». Il ragazzo aveva l’aria di sapere esattamente cosa stava succe­dendo.

Dermot lo guardò. «Ah sì? E cosa ti ha spiegato di pre­ciso Bomba?»

«Che c’è tanto dolore dentro di te. Vecchi ricordi che non sono belli. E poi che c’è qualcuno che cerca di uccidere il dolore bevendo. E che anche se sai che non funziona, ci provi lo stesso, perché devi capirlo da solo. Ecco cosa mi ha detto Bomba».

Dermot lasciò ricadere la testa sul braccio. «Gesù Cristo, forse dovrebbe essere Bomba a scrivere quei maledetti libri» borbottò. Si alzò lentamente e s’incamminò verso le scale. Strada facendo entrò in salotto e cercò di scusarsi con Mrs Dolan.

«Ehm... Mrs Dolan, mi dispiace... Io, ehm... be’, sono spiacente».

«Dovrebbe proprio esserlo, giovanotto» replicò Mrs Dolan girandogli le spalle e continuando a fare le pulizie. Non vo­leva ancora arrendersi.

Dopo una doccia e una rasatura, Dermot si sentì meglio. Indossò un abito pulito e quando scese al piano di sotto vide Mrs Dolan indaffarata con l’aspirapolvere. Cormac era ancora seduto in cucina.

«Vuoi andare a giocare con Pamela?» gli chiese Dermot.

«Pamela non c’è. È andata con Bomba all’ospedale».

«Be’, pazienza. Ti faccio una proposta, perché non an­diamo a fare uno spuntino da qualche parte e lasciamo in pace Mrs Dolan? Così la intralciamo, e poi pare che io le dia proprio fastidio». Senza cercare di riguadagnarsi il fa­vore di Mrs Dolan, Dermot uscì in fretta con il figlio.

 

Era stata un’idea di Betty, quella di portare i bambini. Al­l’inizio Mark si oppose.

«No, no... l’ospedale non è un posto per bambini, oltre­tutto con la nonna in quelle condizioni» argomentò.

«Be’, io mi sentirei meglio se Aaron fosse qui, e poi ho parlato con Fiona e Cathy e loro sono d’accordo».

«Capisco che possa sembrarti una buona idea, tesoro, ma...»

Prima che Mark potesse terminare la frase, Pierre lo in­terruppe: «Non spetta a me dirlo, sono i vostri figli, ma Agnes ha sempre amato il suono delle voci dei bambini e le loro risate. Forse sarebbe una buona cosa averli qui».

Mark rifletté ancora per un attimo. «Ma sì... avete ra­gione, vai pure, Betty, va’ a prendere i bambini... e, Pierre, spetta a te dirlo. I nostri figli ti considerano il loro nonno, lo sai, proprio come noi ti consideriamo nostro padre».

Pierre sorrise. «Grazie, Mark».

Betty e Fiona andarono a casa a prendere i figli. Cathy te­lefonò a Bomba e gli chiese di venire con Pamela. Nel giro di un’ora la sala era invasa dal cicaleccio dei bambini. La presenza dei nipotini di Agnes ebbe un duplice effetto: ras­serenò un po’ tutti ed elevò il tono di voce degli adulti da un cauto mormorio a un normale livello di conversazione.

Agnes Browne non sapeva cosa stava succedendo. All’inizio era tutto buio. Poi vide una piccola luce, simile a una capoc­chia di spillo. Gradualmente la luce diventò sempre più grande. Rimase a fissarla per un po’ di tempo. Era bella, calda e amichevole. Poi sentì una voce familiare. Stava cantando.

«When no-one else can understand... ooh, uuh uuh, When everything I do is wrong...»

«Marion? Sei tu, Marion?»

«Ah, Agnes, come stai, tesoro?»

Era proprio la voce di Marion Monks, la migliore amica di Agnes, la compagna di molti, molti anni. Dall’infanzia, fino alla sua morte prematura avvenuta nel 1967, Agnes non riu­sciva a ricordare un momento in cui Marion Monks non fosse stata al suo fianco.

«Cosa sta succedendo, Marion, cosa mi sta succedendo?»

«Sono venuta a mostrarti la strada, Agnes. Devi solo allun­gare la mano nel buio e io la prenderò».

«Mostrarmi la strada per dove, Marion?»

«Per dove stai andando, Agnes. Per qui».

Agnes ci ragionò sopra per un attimo e poi capì.

«Oh... LÌ.»

«Adesso sì che hai capito, Agnes, contenta? Vieni».

«Com’è? Marion, com’è... lì?»

«È semplicemente fantastico, Agnes, ti piacerà da pazzi. Bingo tutte le sere. Tutto il sidro che vuoi. E anche gente vera­mente interessante. Ho cenato con Elvis, la settimana scorsa».

«Perché non vai affanculo, Marion Monks? Che cosa ci sa­rebbe venuto a fare Elvis con te?»

La risata di Marion era dolce e musicale. «Ah, Gesù, non sei cambiata per niente. Santo Dio, quanto mi sei mancata».

«Non tanto quanto tu sei mancata a me, Marion».

«Allora vieni, no? Non farmi aspettare».

«Marion?»

«Sì, Agnes?»

«Marion... c’è Francis lì?»

«Frankie? Sì, certo che c’è, Agnes. Adesso vieni, dai».

«Non posso, Marion, ancora non posso».

«Perché no?»

«Non è finita... non ancora».

«Cos’è che non è finita, Agnes, per l’amor di Dio?»

«Non lo so... qualcosa di incompiuto... devo fare qualcosa, ma non so cosa... Però devo farlo, Marion. Gesù, vorrei venire ma non posso, non ancora!»

«Dipende da te, Agnes. Io penso che tu sia matta. Ah, Gesù, io non riuscirei più a sopportare tutta quella merda, comunque dipende da te». Marion era estremamente concreta.

«Posso pensarci un po’ su, Marion?»

«Certo, Agnes, prenditi tutto il tempo che vuoi. Senti, io devo andare. Sto facendo un po’ di pulizie per John F. Ken­nedy».

«Davvero, Marion?» Agnes rimase colpita.

«Ma va’, sto solo scherzando», e Marion scoppiò in una ri­sata che si affievolì man mano che la luce si spegneva.

Anche se era risprofondata nell’oscurità, Agnes non aveva dubbi: quelle che sentiva in lontananza erano voci di bambini.