26.

«Dio, dev’essere stata proprio una notte tempestosa!» esclamò Dermot mentre guidava la macchina aggirando le pozzanghere provocate dallo straripamento delle fogne. C’erano rami spezzati ovunque e detriti disseminati su tutta la strada.

«È vero. Non sono riuscito a dormire per i tuoni e i ful­mini» rispose Cormac.

Stavano percorrendo la carrozzabile da Kilbride a Du­blino, ma quando arrivarono all’incrocio con Mulhuddart, trovarono delle transenne a sbarrare loro la strada e, sopra, un segnale arancione con la scritta “Deviazione”. Accanto c’era un pezzo di legno simile a un tagliere per il pane, su cui, di­pinte a mano, campeggiavano le parole “Strada allagata”.

«Cazzo!» imprecò Dermot, svoltando a sinistra e immet­tendosi in una strada secondaria. Tre tortuosi chilometri di curve in aperta campagna li condussero a un’altra arteria principale. C’era un sacco di traffico, e Dermot impiegò due minuti buoni per riuscire a infilarsi nella coda delle macchine. Adesso viaggiavano sulla strada che portava da Derry a Dublino. Sarebbero passati proprio davanti a Fin­glas, dove un tempo abitava Dermot. Mentre si avvicina­vano, la strada cedette il passo a una moderna autostrada che non esisteva ancora quando Dermot aveva lasciato l’Ir­landa. Guardandosi intorno riconobbe le vie e le fabbriche della sua infanzia. Fermò di colpo la macchina.

«Che succede?» chiese Cormac.

Dermot fissava qualcosa fuori dal finestrino del condu­cente.

«Niente». Dermot continuava ad aguzzare lo sguardo. Per qualche istante Cormac rimase a girarsi i pollici. Poi si mise in ginocchio sul sedile del passeggero e, guardando fuori so­pra le spalle del padre, domandò: «Perché ci siamo fermati?»

Dermot indicò qualcosa, il dito puntato contro il fine­strino. «Vedi quel grande castagno laggiù?»

Il ragazzo seguì la direzione del dito di Dermot e alla fine i suoi occhi si posarono su quello che era indubbiamente un grande castagno.

«Sì, perché?» chiese.

«Quello, figlio mio, è Chestnut Hole, la Tana del Casta­gno!»

«Chestnut Hole? Come nel libro?» Cormac si stava ecci­tando.

«Ne sono quasi certo... almeno, direi proprio di sì». An­che Dermot era un po’ eccitato.

«Possiamo andarci, possiamo andare a dare un’occhiata, a vedere se riusciamo a trovare la Tana del Castagno?» Cor­mac stava strattonando la maniglia della portiera.

Dermot sorrise. «Ma sì, dai. Perché no!»

Prese per mano il ragazzo e, con cautela, attraversarono la strada a doppia carreggiata. Quando furono dall’altra parte, Dermot sollevò il ragazzo, per fargli superare una piccola recinzione, poi la scavalcò anche lui e i due comin­ciarono a tagliare per i campi.

«È emozionante, vero, Dermot?»

«Sì, eccome» annuì Dermot, anche se sembrava più im­paurito che emozionato, adesso. Mentre si inoltravano in un prato, il terreno si fece più umido e paludoso. Dermot si fermò.

«Cristo, ci infangheremo! Dai, torniamo indietro».

«Oh no, Dermot, non torniamo indietro adesso, voglio vedere Chestnut Hole, ti prego!»

Dermot guardò il ragazzo. Poi alzò gli occhi sul castagno. Mancavano non più di cento metri. Forse era l’alcol della sera prima, fatto sta che gli venne mal di stomaco e le mani cominciarono a tremargli. Quando rispose al ragazzo, aveva un tremito nella voce.

«Okay, allora, andiamo». Proseguirono. Raggiunsero l’al­bero in pochi istanti, affondati entrambi nel fango fino alle ginocchia. Ci vollero dieci minuti buoni di ricerche prima di localizzare l’entrata di Chestnut Hole. Fu Dermot a sco­varla.

«Cormac! Quaggiù, figliolo, credo di averla trovata!»

Aspettò che Cormac lo raggiungesse. Poi insieme si infi­larono dentro il vecchio rifugio. Dermot estrasse l’accen­dino e lo fece scattare. Il rifugio si illuminò. In mezzo al pa­vimento c’erano i resti di un piccolo fuoco, e quattro can­dele erano ordinatamente impilate in un angolo. Era evi­dente che Chestnut Hole aveva acquisito nuovi residenti ed era diventato il quartier generale di una nuova banda di Boot Hill degli anni Novanta. Dermot se ne rallegrò. Rac­colse due candele e ne diede una a Cormac. Le accesero e si guardarono intorno. I ricordi tornarono a sommergere Dermot che iniziò a fare da cicerone al figlio.

«Proprio laggiù» disse indicando un punto appartato, «mi sedevo io. Avevamo due sedili. Li avevamo presi da una vecchia Austin Cambridge; uno era di Bomba, uno mio. Il mio era là». Dermot si girò. «Quello di Bomba era qui. E vedi dove adesso c’è il fuoco? Era lì che mettevamo i mate­rassi quando ci fermavamo a dormire qui di notte».

«Si direbbe che ci si sia sistemato qualcun altro» com­mentò Cormac.

«Già, è vero» rispose Dermot. Spostarono le candele per cercare di perlustrare ogni centimetro quadrato della tana, e per un po’ nessuno dei due aprì bocca.

Poi Cormac, in piedi in mezzo alla grotta, inspirò pro­fondamente ed esclamò: «Questo posto è davvero magni­fico, Papà».

Mai, nemmeno per caso, dal giorno in cui Dermot era andato a prenderlo a casa di Margaret O’Brien, Cormac lo aveva chiamato “Papà”. Il ragazzo adesso non se n’era nep­pure accorto, mentre Dermot era rimasto quasi senza fiato.

«Sì, figliolo, c’è veramente una specie di magia, qui!»

mormorò Dermot, guardandosi lentamente intorno, e quelle parole gli suonarono vagamente familiari. All’im­provviso un pensiero lo colpì e gli fece schioccare le dita. «Scommetto che i nuovi inquilini non hanno ancora tro­vato il mio nascondiglio». Dermot iniziò a far scorrere la candela lungo il muro in cerca del mattone rimuovibile. Ne tastò un paio; se il mattone non traballava immediata­mente, capiva che non era lì il suo nascondiglio. Quando alla fine lo trovò, lo smosse a destra e a sinistra per estrarlo. Era più pesante di quanto ricordasse, gli scivolò dalle dita e cadde a terra con un tonfo. Dermot fece un salto indietro. Cormac salì sul mattone e sbirciò nel nascondiglio.

«Ehi! C’è qualcosa qui dentro» annunciò mentre infilava la mano nel buco. Quando la mano ricomparve, stringeva una busta. Cormac la esaminò a occhi spalancati, eccitati. Sulla busta c’era scritto il nome Dermot Browne.

«È una lettera! Ed è per te, Papà». La consegnò a Dermot.

«Cosa?» Dermot era allibito. Si accovacciò, piantò la can­dela nel morbido strato di argilla del pavimento e si mise ad armeggiare con la lettera. La busta era molto vecchia, im­pregnata di umidità, e quando cercò di sollevarne il lembo, gli si spezzò in mano. Dentro, c’era quello che sembrava un biglietto. Era stato piegato in tre e Dermot tentò di disten­derlo con delicatezza. Alla fine riuscì ad allargarlo del tutto, ma intanto il foglio si era strappato, e la maggior parte delle parole risultavano illeggibili. Dermot riuscì a decifrare solo l’inizio e la fine del biglietto. Le parole di apertura erano:

 

“Mio carissimo Dermot, mi dispiace così tanto...”

 

e la conclusione era:

 

...che ovunque andrai io sarò sempre fiera di te. Sei sem­pre nelle mie preghiere e nei miei pensieri. Con affetto, Mamma”.

 

Mentre Dermot sprofondava lentamente a sedere, le sue mani si separarono bruscamente e il pezzo di carta si lacerò. Tra il pollice e l’indice della mano sinistra ne teneva un frammento che diceva: “Caro Dermot” e tra l’indice e il pol­lice della destra un altro su cui si leggeva: “Con affetto, Mamma”. Non pianse.

«Stai bene, Papà?» gli chiese Cormac, preoccupato.

«Benissimo, figliolo» rispose Dermot, e si alzò in piedi. Mise via i due pezzettini di carta umida, uno in ciascuna ta­sca della giacca. Poi prese per mano il ragazzo e disse: «Dai, Cormac, è ora di andare in ospedale».

Quando, poco dopo, arrivarono i nuovi inquilini di Chestnut Hole, trovarono due candele che bruciavano al centro della grotta. Pensarono che il posto fosse stato visi­tato da un fantasma. Non erano lontani dalla verità.

 

Mano nella mano, Dermot e Cormac camminavano lungo il corridoio del Mater Hospital, lasciandosi dietro orme di fango sul pavimento di marmo lucido. Mentre si avvicinavano alla camera in cui giaceva Agnes Browne, la porta si aprì e Mark uscì in corridoio. Dermot si fermò. Mark andò verso di lui. Dermot non sapeva che tipo di rea­zione aspettarsi da Mark, quindi era pronto a tutto. Quando i fratelli in rotta si ritrovarono faccia a faccia, Der­mot cercò un indizio negli occhi di Mark.

«Bentornato, fratello» disse Mark con un sorriso, e spa­lancò le braccia. Dermot vi si tuffò. Fu un lungo abbraccio. Entrambi tennero gli occhi chiusi. Quando si staccarono, Dermot fu il primo a parlare.

«Come sta la Mamma?»

«Ancora in coma» rispose Mark con voce neutra.

Dermot abbassò gli occhi. «Senti, Mark, sono stato pro­prio uno stronzo...»

Mark lo interruppe con uno scatto della mano. Mise il braccio intorno alle spalle del fratello. «Ascolta, Dermot, quel che è stato è stato, non guardiamoci indietro. È bello averti qui, significherà così tanto per la Mamma... significa tanto per tutti noi».

«Grazie». Dermot non disse altro, pensando che se si fosse spinto oltre gli sarebbe scappato da piangere.

«Allora, tu saresti Cormac?» Mark si accovacciò di fronte al ragazzo. «Bene, Cormac, io sono tuo zio Mark, e dietro quella porta stai per conoscere più zii e zie di quanti tu possa imma­ginare!» Sorrise al ragazzo e il ragazzo ricambiò il sorriso.

Dermot fu sopraffatto dall’accoglienza che ricevette en­trando nella stanza della madre. La frattura nella sua vita era stata ricomposta dal solido acciaio dell’amore. Esauriti i saluti, Dermot si accostò al letto della madre. La pelle scura di Agnes sembrava più olivastra che pallida. L’anziana donna appariva come immersa in un sonno profondo. Der­mot le prese una mano e la tenne stretta tra le sue. Imper­territo, iniziò a parlare alla madre, mentre tutta la famiglia si riuniva attorno al letto.

«Mamma... sono io, Dermot. Voglio solo che tu sappia che sono tornato a casa, sano e salvo... e che ti voglio bene».

Fu una confessione breve e dolce, ma a Dermot ne derivò un sollievo incredibile, travolgente. Si sentì come se avesse avuto un camion parcheggiato sul petto per dieci anni e adesso, di colpo, qualcuno glielo avesse tolto di dosso... era scomparso! Sorrise. Tutti i Browne sorrisero.

 

Agnes vide che la luce stava ricomparendo. Stavolta le sue dimensioni aumentavano rapidamente. Come si aspettava, in­sieme alla luce arrivò la voce di Marion.

«Yu-huu! Agnes... sono tornata!»

«Come va, Marion? Mi sei mancata, dov’eri?»

«Ero andata a fare una corsetta».

«Corsetta un cazzo! Poco ma sicuro che rimarresti spompata solo a tenere in allenamento la tua fottuta memoria!»

Le due donne risero.

«Ah, non mi riconosceresti, adesso, Agnes... un corpo come quello di Brigitte Bardot».

«Vuoi dire Brigidina la Nana?» E di nuovo le due donne ri­sero.

«Dio, Marion... mi sei mancata davvero».

«Anche tu mi sei mancata, Agnes».

«Marion, perché non riesco a vederti?»

«Perché non hai fatto il salto. È una legge di qui, devi prima fare il salto. È una gran cazzata, se vuoi sapere come la penso, ma non c’è niente da fare, la legge è legge! Agnes, allunga la mano nel buio, io la prenderò e ti porterò da questa parte».

«Non posso, Marion, non ancora... Marion, senti le voci dei bambini?»

Ci fu silenzio per un attimo.

«No. Devono essere dalla tua parte, non riesco a sentirle. Adesso deciditi, Agnes, vieni o no?» Marion stava perdendo la pazienza.

«Marion, dammi solo qualche altro minuto, per favore. Solo qualche altro minuto per chiarirmi le idee, d’accordo?»

«D’accordo, allora. See you later, alligator». Marion at­taccò a cantare e la sua voce svanì.

 

Ancora una volta Agnes si ritrovò sola al buio. Ancora una volta sentì le voci dei bambini, ma stavolta più nitide. Ebbe anche la sensazione di avere qualcosa nella mano. Sembrava... un’altra mano, la mano di un bambino. Cercò disperatamente di aprire gli occhi. A poco a poco arrivò la luce... non come quella di Marion, stavolta era una luce fioca. La luce divenne una foschia attraverso la quale riuscì a distinguere alcune sagome di persone. Quando la foschia cominciò a diradarsi, fu in grado di mettere a fuoco le facce. Le guardò. Stavano tutte intorno al suo letto. Mark e Betty con Aaron. Simon e Fiona con Thomas. Trevor e Ma­ria, Cathy e Bomba con Pamela. Rory... e Dino. Com’era felice! Pierre, oh Pierre. Lo amava più di qualsiasi altro uomo avesse mai stretto tra le braccia. Il piccolo Cormac? Sentì che il suo cuore cominciava a tremare, ed ecco ac­canto a Cormac c’era il proprietario della mano che strin­geva la sua. Era un altro ragazzino quasi identico a Cormac. Era Dermot. Ma Dermot è un adulto, pensò. Si concentrò e riuscì a individuare la sagoma dell’uomo ma, con molta più chiarezza, da quella sagoma spuntava fuori un ragazzino che la teneva per mano. Il suo cuore si mise a cantare. Lo sforzo compiuto per tentare di vedere meglio la stava stan­cando, perciò si ritrasse nell’oscurità, solo che stavolta si sentiva completa. Intera!

«Ha mosso gli occhi». Fu Cormac a parlare.

«Come hai detto?» chiese Dermot.

«Ho detto che ha mosso gli occhi, Papà. La Nonna... ha mosso gli occhi. È stato solo un guizzo, ma si sono mossi».

Dermot appoggiò delicatamente la mano della madre sul letto, poi andò a sedersi prendendo il figlio sulle ginocchia.

«Ma certo, hai ragione, si sono proprio mossi». Abbrac­ciò il ragazzo.

«Cosa facciamo adesso, Papà?» chiese Cormac.

«Aspettiamo, figliolo. Preghiamo... e aspettiamo».

Fu alle tre in punto del pomeriggio del 6 dicembre 1992, con – per la prima volta in quindici anni – ogni singolo membro vivente della famiglia attorno a lei, tutti quanti uniti, che Agnes Browne sorrise e si trasformò in libellula.