2.

Dublino, 23 febbraio 1921

 

Constance Parker-Willis non ci avrebbe più pensato per molto tempo, ma il suo primo incontro con Bosco Reddin era stato traumatico.

La famiglia Parker-Willis fondeva ferro a Dublino fin dal 1801. Il padre di Constance, Geoffrey Parker-Willis, a­veva ereditato la fonderia da suo nonno, quando suo padre, che era ufficiale della Brigata Leggera, era morto nella guerra boera. Da sempre fiorente, allo scoppio della Grande Guerra la fonderia era letteralmente esplosa in mano a Geoffrey, con il lievitare di produzione e profitti. La guerra era stata buona con Geoffrey, che sposò Julia Cornwell, una donna timida che gli diede quattro figlie.

Nel 1921 Constance, la più grande, aveva quasi venti­cinque anni, e delle quattro sorelle era l’unica ad avere un lavoro. Da subito, Constance si era interessata moltissimo alla fonderia; e dal momento che non aveva eredi maschi, e che due delle figlie erano già sposate e al matrimonio di un’altra mancava poco, Geoffrey permetteva a Constance di lavorare nel reparto contabilità. Constance adorava quel posto. Il rumore e il calore, le continue esplosioni di gocce fuse che rimbalzavano sul pavimento, lo sferragliare delle macchine: tutte quelle cose, lontanissime dal noioso mondo dell’alta società in cui si muovevano le tre sorelle, erano musica per le sue orecchie. La fonderia era su Misery Hill, affacciata ai moli di Dublino sud: non poteva certo farsi un vanto del nome della via, che si chiamava così dal diciassettesimo secolo, quando tutta la zona era una colonia di lebbrosi.

Quel gelido febbraio del 1921, Constance aveva lavo­rato tutto il giorno in fonderia e stava per chiudere il re­parto contabilità quando sentì un boato che poteva sem­brare un colpo di fucile. Così, a orecchio, arrivava dall’altra sponda del fiume Liffey. Quella nord.

 

Il tizio con una gamba sola sputava addosso agli uomini del reparto speciale che lo trascinavano via dalla casetta a schiera. L’ufficiale che comandava quella banda malandata di miliziani britannici era ubriaco e urlava ai suoi uomini: «Dategli un po’ di botte a quel vecchio straccione, così si calma, il bastardo feniano!» E loro ubbidirono, picchian­dolo sulla bocca con una forza tale che le labbra dell’uomo si spaccarono tutte e due insieme. Per qualche istante ri­mase immobile, steso sull’acciottolato.

«Buttatelo sul camion!» berciò l’ufficiale. Due soldati si chinarono per rigirare il corpo del vecchio.

«È morto, signore» disse uno dei due.

«Col cazzo che sono morto!» strillò il morto in persona, per poi ricoprire il soldato di saliva di un bel rosso fiam­mante.

«Bastardo ribelle del cazzo!» urlò il militare. E si mise a pestarlo con il calcio del fucile. A quel punto, altri due sol­dati tentarono di trascinare il vecchio sul retro del camion; nel frattempo il primo continuava a menargli colpi. Nel ca­mion c’erano altri soldati che ridevano e prendevano in giro quello del calcio del fucile.

«Ehi, caporale Oliver, problemi con il prigioniero? Per fortuna non ne ha due, di gambe, altrimenti sì che sarebbe pericoloso» disse uno, al che gli altri risero sguaiatamente.

«Fanculo, stronzi» ribatté Oliver, e si mise a menare più forte.

Il ragazzo sembrò sbucare dal nulla. Un momento prima i soldati avevano via libera per arrivare dietro al ca­mion, e un momento dopo avevano di fronte un ragazzino dalla pelle scura. Il ragazzo, Bosco Reddin, aveva solo quat­tordici anni, ma era grande come un diciottenne. Aveva un martello da falegname nella mano destra, e un coltello corto, da sellaio, nella sinistra. Il primo soldato non aveva ancora visto il martello in mano al ragazzo che già ce l’a­veva conficcato in fronte. Cadde come un sacco di patate. Il secondo soldato mollò il vecchio e aprì la bocca per ur­lare mentre armeggiava col fucile. Troppo tardi. Il martello descrisse un arco e lo colpì in una tempia. Prima che il se­condo soldato toccasse terra, dalla gola del caporale Oliver sbucava già fuori il manico di legno di un coltello da sel­laio, e dalla sua bocca colava sangue. Il ragazzo si chinò sul vecchio.

«Papà? Sono qui, papà, mi senti?» Parlava fra i singhiozzi. Il vecchio aprì gli occhi. Toccò il ragazzo su una guancia.

«Corri, Bosco. Corri, ragazzo» furono le uniche parole del vecchio.

Tutto questo avvenne nel giro di pochi secondi. Ora c’era una frotta di soldati che usciva dal retro del camion. Sollevarono i fucili e si spintonarono, in cerca dello spazio che serviva per mettere i Browning in posizione di fuoco. Il giovane Reddin si infilò rotolandosi sotto al camion. I sol­dati si precipitarono dall’altra parte del veicolo. Ma Bosco si era rotolato solo fino a metà, poi era uscito da dove era entrato e si era messo a correre. I soldati ci misero un paio di secondi a rendersi conto che non c’era più.

«Laggiù!» gridò uno, puntando il dito sulla strada.

Bosco correva più forte che poteva in direzione del muro di mattoni rossi che faceva della sua via un vicolo cieco. Il muro era alto due metri scarsi, e Bosco si allenava a saltarlo da quando aveva compiuto dodici anni, due anni prima. Il muro era ancora a una decina di metri quando alle spalle di Bosco, un bel po’ alla sua sinistra, rimbalzò la prima raffica di colpi. Bosco sapeva che avrebbero corretto il tiro verso destra, e così, istintivamente, fece uno scatto a sinistra. Aveva visto giusto. La raffica seguente fece uscire degli schizzi di pietra alla sua destra, ma questa volta i colpi erano davanti a lui o alla sua altezza. Solo tre metri al muro. Bang, un’altra raffica, e un proiettile gli passò così vicino alle orec­chie che sentì il crac dell’aria che si spezzava. I soldati ormai sparavano a volontà, e l’ufficiale gli urlava contro. Fischia­vano pallottole in tutte le direzioni. Le finestre finivano in frantumi, e perfino le tegole saltavano via, colpite dai proiettili di rimbalzo. La vista di Bosco ormai era un obiet­tivo puntato su un singolo punto. Il muro di mattoni rossi. Da dietro le finestre rotte e dalle porte appena socchiuse sentiva le grida di incoraggiamento dei vicini.

«Corri, Bosco! Corri, ragazzo!» Una voce di donna.

Incredibilmente, passò davanti a un uomo molto vec­chio in piedi davanti alla sua porta d’ingresso, appoggiato a un vecchissimo bastone da passeggio di biancospino. Era in mezzo a una grandinata fittissima di pallottole, quel vec­chio matto, ma non ci faceva caso. Quando Bosco gli passò davanti lo incitò col bastone.

«Non farti prendere da quei bastardi, ragazzo. Corri, Bo­sco, corri!»

Bosco correva. Arrivò al muro di mattoni rossi. Con un movimento rapido, in scioltezza, si sollevò da terra, buttò le mani in cima al muro e tirò su il resto del corpo. Proprio nel momento in cui oltrepassava il muro, Bosco vide saltare delle schegge di mattone rosso e sentì una puntura in una coscia. Colpito. Il corpo di Bosco franò al suolo come un sacco di patate, dall’altra parte del muro, e cominciò a ro­tolare per la leggera discesa che portava alla strada. Più tra­mortito che dolorante, Bosco si tirò su e si rimise in movi­mento, trascinandosi dietro la gamba ormai inservibile. Ar­rivato a metà di Cunningham Street svoltò a destra. Così facendo si trovò nel labirinto di viottoli che per lui erano come una seconda casa. C’era del sangue che gli usciva a fiotti dalla gamba e lasciava una traccia per strada, ma nei vicoli del Jarro era al sicuro, e lo sapeva.

Nella via di Bosco, il camion dell’esercito si allontanò, carico di soldati, lasciando il padre di Bosco steso in mezzo alla strada. Ormai non c’era più motivo di arrestarlo, quel vecchio senza una gamba. Era morto.

 

La sirena sopra la fonderia urlava, e c’era uno sbuffo di vapore che sbucava dalla valvola. Ora di chiusura. Con­stance girò la chiave della porta con la targa: “Ufficio con­tabilità”. Girò la maniglia per controllare se aveva chiuso, e poi si mise in cammino sull’acciottolato del cortile. Prima di arrivare all’uscita incrociò vari dipendenti di suo padre, che si levarono il cappello per augurarle: «Buonanotte, si­gnorina». Lei restituì i saluti, usando il nome di battesimo di ognuno di loro, senza un sorriso. Non era per una qual­che forma di distacco che Constance non sorrideva; era più una questione di imbarazzo. I denti. Constance era una bella donna, fino a un certo punto: capelli rosso scuro, pelle candida, occhi verdi. Faceva girare la testa agli uomini, let­teralmente, ma solo finché non sorrideva. Se la benedizione di Dio era la casa comoda in cui l’aveva fatta nascere, la sua maledizione era la più ridicola collezione di denti che si po­tesse immaginare. Crescevano in tutte le direzioni tranne quella giusta, ed erano enormi. Quando Constance Parker-Willis sorrideva, era come guardare un cimitero tenuto male. E così, felice o no, Constance sorrideva il meno pos­sibile. Uscì dalla fonderia di suo padre dal cancello piccolo, sul lato ovest, e si trovò su Frowns Street. Si abbottonò il cappotto, si annodò bene il foulard e si infilò i guanti. C’era un che di gelido nell’aria del tardo pomeriggio, e il fiato si trasformava in vapore. Constance si mise le mani in tasca e si avviò verso il centro, per andare a prendere il tram nu­mero sei che l’avrebbe portata a casa, a Kingstown. Vide il corpo appena girato l’angolo di Windmill Lane. Sulle prime, da lontano, pensò che fosse un ubriaco mezzo steso per terra, appoggiato al lampione. Più si avvicinava, più di­ventava chiaro che era il corpo di un ragazzino. Di un ra­gazzino morto o gravemente ferito, perché la pozzanghera che aveva intorno era sangue, e non urina come aveva pen­sato lì per lì. Era semiseduto, con il mento appoggiato al petto. Constance si chinò su di lui e si guardò intorno in cerca di aiuto. La strada era vuota. Allora si inginocchiò di fianco al ragazzo e gli sollevò la testa. Per un attimo, la bel­lezza di quel viso le tolse il respiro.

«Ragazzo, svegliati, ragazzo» gli disse piano scostandogli dalla faccia i capelli corvini. Si tolse un guanto e gli mise la mano sul collo, per sentire il battito. C’era, ma molto de­bole. Constance vide lo squarcio nella gamba destra dei pantaloni; era da lì che usciva il sangue. Appoggiando il ra­gazzo a terra, strappò i pantaloni e scoprì la ferita. Poi si tolse il foulard e lo usò come laccio emostatico, legando­glielo stretto intorno alla gamba. A quel punto riprovò a farlo rinvenire.

«Ragazzo, svegliati, ragazzo». Gli diede uno schiaffo. Le palpebre di lui si mossero. «Forza, ragazzo, svegliati». Piano piano, il ragazzo riprendeva conoscenza. Constance sentì delle voci maschili in fondo alla strada. Prese fiato per gri­dare forte.

«Aiuto!» urlò.

Erano in quattro, tutti operai della fonderia. Si ferma­rono di colpo.

«Ehi, voi!» gridò di nuovo Constance. «Datemi una mano».

«Miss Parker-Willis? È lei, signorina?» fece uno degli uo­mini.

«Sì, Thomas». Anche lei lo riconobbe. Gli uomini si fe­cero avanti. Lei guardò il ragazzo. Era sveglio, gli occhi scuri la guardavano in faccia. Che sollievo vedere che dava segni di vita.

«Va tutto bene, ragazzo, arrivano i soccorsi». Gli sorrise. Le labbra di lui si mossero.

«Che cazzo ha fatto in bocca, signora?» le chiese il ra­gazzo, prima di svenire di nuovo. Gli uomini erano arrivati. Il ragazzo lo riconobbero subito, era il figlio di Gamba-svelta Reddin. E sapevano anche riconoscere al volo le fe­rite da arma da fuoco; a quel ragazzo serviva una casa si­cura.

Constance si mise a dare ordini: «Prendigli la testa. Tu coprilo col cappotto. Io vado a cercare un dottore».

Uno dei quattro – Thomas, quello che aveva ricono­sciuto per primo – la prese per un braccio. «Lasci stare, si­gnorina. Lo portiamo noi dal dottore, non si preoccupi» disse calmo.

«Ma l’hanno aggredito. Dobbiamo chiamare la polizia» provò a insistere Constance.

«È meglio di no, signorina. Lasci fare a noi». A quel punto, due di loro avevano già sollevato il ragazzo e se lo stavano portando via. Constance fece per seguirli. Thomas la fermò di nuovo.

«Senta, signorina, è stata brava. Gli ha salvato la vita, probabilmente. Adesso lasci fare a noi. Lei vada a casa». Thomas le sorrise. Mollò la presa e andò dietro agli altri, che stavano girando l’angolo in fondo al vicolo. Thomas si girò.

«Signorina. La cosa migliore per tutti, compresa lei, è che si dimentichi quello che ha visto». Le fece l’occhiolino. Un secondo dopo, Thomas era sparito. Constance se ne ri­mase lì per qualche istante, molto confusa. Non raccontò a nessuno cos’era successo quella sera, ma non se lo dimen­ticò. Mai.