4.

Dublino, 1932

 

Quando Bosco Reddin tornò a Dublino, la città era molto cambiata. La popolazione cominciava appena ad abituarsi all’indipendenza, anche se la secessione col Nord era una ferita aperta. Bosco tornò nella casa paterna e la trovò oc­cupata dalla sorella di suo padre, Julia. Zia Julia lo accolse a braccia aperte, e Bosco ci mise pochissimo a sistemarsi nella sua vecchia nuova casa. A Dublino, in generale, si fa­ceva fatica a trovare lavoro, anche se per un giovane alto e ben piantato come Bosco qualche possibilità c’era. Ogni tanto cercavano qualcuno alla Guinness. C’erano dei lavoretti saltuari nella zona del porto. Bosco non fece né l’una né l’altra cosa, perché il marito di zia Julia, Dessie Regan, lavorava alla fornace della Fonderia Parker-Willis, e gli disse di andarsi a cercare un lavoro lì. A tre settimane dal suo ri­torno a casa, Bosco aveva già un lavoro a tempo pieno in fonderia.

Quando cominci un lavoro nuovo, la prima settimana non ti pagano; la chiamano “settimana di recupero”. Perciò Bosco si presentò nell’ufficio contabilità, per ritirare lo sti­pendio, solo due settimane dopo. Ormai si era già ambien­tato, alla fonderia. La sua reputazione l’aveva preceduto, e per certi versi Bosco era una specie di eroe, in quella zona. Aveva modi pacati e amichevoli che tranquillizzavano le persone intorno a lui, e anche se lavorava lì solo da due set­timane, era già intervenuto a sedare un paio di risse che po­tevano finire male. Il venerdì della seconda settimana, si mise in fila con gli altri agli sportelli dell’ufficio contabilità per ritirare la paga. Di sportelli ce n’erano cinque, e lui scelse il primo a destra. Mentre era in fila, gli cadde l’occhio sulla ragazza dello sportello al centro. A differenza delle al­tre quattro che distribuivano le paghe, non era in uniforme, ma in borghese. In più, Bosco notò che aveva una parola gentile per tutti i dipendenti che andavano a ritirare i soldi da lei. Li chiamava con il nome di battesimo e, anche se era ovvio che aveva una qualche autorità, con lei sembravano tutti a loro agio. Bosco la guardò finché non arrivò il suo turno. La ragazzina gli allungò una busta da dietro lo spor­tello e gli chiese di fare una firma. Bosco sorrise, ignorò la richiesta, aprì la busta e si rovesciò in mano i contanti. Li contò e li ridiede alla ragazza.

«Mancano dei soldi. Cinque scellini» disse. Senza ombra di polemica. Con un sorriso. La ragazza era sgomenta. Nes­suno si permetteva di contestarla.

«Prego?» disse, ma non per pregarlo.

«La busta paga, qui, è un po’ leggera, di cinque scellini, per la precisione» disse di nuovo Bosco. Ora, sebbene que­sto scambio si svolgesse con molta calma e senza alzare la voce, avveniva anche sotto gli occhi di tutti gli altri dipen­denti in fila, nonché della signorina dello sportello al cen­tro, Constance Parker-Willis. Constance chiese scusa al di­pendente che aveva davanti e andò al primo sportello.

«Qualche problema?» chiese, con la stessa cortesia con cui Bosco aveva protestato.

«No, signorina, nessun problema, sono sicuro che si tratta di un errore. Mi mancano cinque scellini nella paga». Bosco rimaneva calmo e sorridente. Constance andò ad aprire lo schedario di fianco alla ragazza, e si mise a scorrere tutti i cartellini finché non trovò quello con lo stesso nome della busta paga, Bosco Reddin. Tirò fuori il cartellino e se lo studiò ben bene.

«Ah» disse, «ecco qui». Appoggiò il cartellino sul banco dello sportello e lo girò verso Bosco. «Vedi, qui c’è scritto che martedì hai timbrato alle otto e un quarto, invece che alle otto. Anche se è solo un quarto d’ora, bastano quindici minuti di ritardo e ti togliamo un’ora di paga» gli spiegò Constance.

«Non sono arrivato in ritardo, martedì» disse Bosco in tono neutro.

«Sì che sei arrivato in ritardo. Guarda qui». Constance cominciava a perdere la pazienza.

«L’ho visto il cartellino, c’è scritto otto e quindici. Ma io ho timbrato alle otto in punto, come sempre, non arrivo mai in ritardo. Secondo me avete l’orologio che va avanti; se volete ve lo metto a posto. Ci ho lavorato, con gli oro­logi» si offrì Bosco. Constance a questo punto era a bocca aperta.

«Ma è ridicolo. Cosa fa, sbaglia solo con te, l’orologio? Voglio dire» proseguì facendo un cenno della mano al­l’uomo dietro a Bosco. «Peter Bennett, per esempio. A che ora hai timbrato martedì?»

«Alle otto meno un quarto, signorina. Come gli altri… Timbriamo sempre alle otto meno un quarto, il martedì» rispose Peter abbassando lo sguardo, perché aveva paura di metterla in imbarazzo, anche se la stanza era piena di gente che borbottava «sì, è vero» e faceva di sì con la testa. Con­stance a questo punto si rimise a rovistare nello schedario e tirò fuori il cartellino di Bennett. Non c’era scritto sette e quarantacinque: c’era scritto otto. I pensieri di Constance correvano veloci. Tutti gli occhi, lì dentro, erano puntati su di lei, ma non riusciva a convincersi del fatto che l’orologio andava avanti sulla base della parola di quegli uomini. Si sforzò di ragionare correttamente.

«Be’, Mr…» diede un’occhiata al nome «Reddin. Farò senza dubbio controllare l’orologio, e se l’orologio è effetti­vamente guasto, la prossima settimana le farò avere i cinque scellini». Bosco le sorrise.

«Stia a sentire me, signorina: lei mi dà i cinque scellini, poi fa controllare l’orologio, e se l’orologio non è guasto glieli do indietro io i cinque scellini, la prossima setti­mana». Constance guardò il ragazzo con gli occhi spalan­cati. Se ne stava lì davanti a lei, con quel sorriso. Si trovò costretta a sorridere anche lei. Appoggiò una mano sulla spalla della ragazzina al suo fianco.

«Catherine, vai a prendere cinque scellini nel mio ufficio, per favore» le disse. La ragazza ci andò di corsa.

«Grazie, signorina» disse Bosco, e si portò una mano al ciuffo. Quel giorno, Bosco uscì dalla fabbrica con molto più di cinque scellini. Perché se era vero che la sua reputa­zione l’aveva preceduto, e che il comportamento delle ul­time due settimane gli aveva procurato la stima degli ope­rai, quel giorno, insieme ai cinque scellini, Bosco si portò a casa una fama ormai leggendaria.

 

Fondere l’acciaio è un’attività pericolosa. Per qualche ra­gione che gli scienziati non sanno spiegarsi, l’acciaio fuso esplode a contatto con l’acqua. Perciò è di vitale impor­tanza che tutte le colate siano tenute asciutte e al riparo dall’umidità. Alla Fonderia Parker-Willis, le morti e gli infor­tuni più orribili erano all’ordine del giorno, anche se non più che in qualsiasi altra fonderia dell’epoca. Tutti quelli che ci lavoravano sapevano che quel posto portava infor­tuni e morte. Ogni volta che moriva qualcuno in fonderia, Constance stava malissimo. Dal momento che si interes­sava ai suoi dipendenti, li conosceva per nome uno a uno. Chiedeva loro come stava la famiglia, e si teneva aggiornata sulle vicende personali di tutti. Constance Parker-Willis era sempre presente al funerale dei dipendenti, che morissero sul lavoro o altrove. Qualche settimana dopo la discussione dei cinque scellini, rivide Bosco a uno di questi funerali. (Nel frattempo era venuto fuori che in effetti c’era un dente mancante nell’ingranaggio del martedì dell’orologio azien­dale. E, in effetti, faceva un salto di quindici minuti esatti, tutti i martedì. L’orologio venne riparato, e i dipendenti guadagnarono un quarto d’ora di sonno tutti i martedì).

Già il funerale era stato molto triste. Era morto un ra­gazzo, Liam Casey, di soli sedici anni. Il padre di Liam, Pat, che si era portato il ragazzo in fonderia, era fuori di sé per il dispiacere. Dopo la sepoltura del ragazzo, dopo le pre­ghiere, si radunarono tutti quanti al Gravediggers Pub, di fianco al cimitero. Constance andò a fare le condoglianze al padre e alla madre del ragazzo, e poi si fermò a bere uno sherry, per educazione. Tutt’a un tratto si sentirono delle botte sul bancone, e nel locale calò un gran silenzio. Bosco Reddin si alzò in piedi sulla sedia. Vedendo Bosco che si al­zava, Constance Parker-Willis si mise seduta, lentamente. Quando Bosco aprì bocca, la sua voce era come una musica che catturò le orecchie di tutti i presenti.

«Oggi abbiamo fatto una cosa triste» cominciò. Gli ri­sposero i cenni del capo di tutti, e arrivarono pacche sulle spalle del padre del ragazzo. Bosco continuò: «E sarà ancora più triste domani, se permettiamo che succeda così facil­mente».

Da qualche parte si alzò una voce. «Non puoi farci nien­te. Sono cose che capitano».

«Ci sono cose che capitano, sì» disse Bosco alzando la voce a sua volta, «ma ce ne sono altre che non devono ca­pitare. Far lavorare dodici ore al giorno un ragazzo di sedici anni non deve capitare. Lavorare senza una tuta da lavoro che ti protegge non deve capitare. Camminare sul pavi­mento della fonderia con delle scarpe che non terrebbero nemmeno la pioggia, figurarsi l’acciaio fuso, non deve ca­pitare». Bosco si infilò una mano nella tasca della giacca e tirò fuori un fascio di fogli bianchi; li sventolò per aria.

«Li vedete questi? Li ha portati Jim Larkin dall’America. La Carta dei diritti del lavoratore. Pensate un po’ che roba: i diritti del lavoratore».

Nel locale si alzò un’altra voce: «Larkin era un pazzo». Poi si sentì una serie di brontolii diffusi.

Bosco sorrise. «Davvero? Era un pazzo? È un pazzo, uno che vuole dare al lavoratore qualche diritto in più, oltre a quello di sfamare a malapena la famiglia? È un pazzo, uno che vuole dare al lavoratore il diritto alle ferie pagate? Era un pazzo uno che voleva vedere voi, i lavoratori, che andate a lavorare a testa alta, con il senso della dignità di quello che fate e con l’orgoglio di sapere che grazie a voi il posto di la­voro diventerà un posto migliore anche per i vostri figli?» Diede un’occhiata a Pat Casey. Pat Casey fece di sì con la testa. Bosco andò avanti.

«Questa Carta dei diritti non l’ha scritta Larkin, l’hanno scritta i lavoratori americani. Gente come voi. Parla di si­curezza, di preservare la salute del lavoratore, di come evi­tare la disoccupazione, parla di istruzione e di formazione, di dare al lavoratore manuale la dignità che merita». Bosco si rimise le carte in tasca. Fece un gran sospiro, e gli si in­curvarono le spalle. Poi ricominciò a parlare in tono più calmo.

«La Costituzione degli Stati Uniti d’America si apre con le parole: “Noi, il popolo”; la Proclamazione d’indipen­denza dell’Irlanda comincia con: “Popolo d’Irlanda”. Gli americani sono come noi, e noi siamo come loro, e se ce la fanno loro ce la possiamo fare anche noi. Per questo dico a tutti voi… iscrivetevi al Sindacato generale dei trasporti e dei lavoratori d’Irlanda, unitevi ai lavoratori che stanno cer­cando di migliorare le condizioni di tutti, datori di lavoro compresi. Grazie per l’attenzione». Bosco scese dalla sedia. Qualcuno batté le mani, ma pochi. A sorpresa, fra i pochi c’era Constance Parker-Willis. Quel ragazzo la affascinava. Un giorno o l’altro, si disse, mi piacerebbe farci due chiac­chiere.