6.

Quel lunedì mattina, Bosco sfilò il cartellino dalla sua ca­sella. Sollevò le sopracciglia. C’era un biglietto appuntato al cartellino. Il biglietto era piegato, e c’era scritto “Perso­nale”. Bosco si guardò intorno, timbrò il cartellino come al solito e si infilò il biglietto in tasca senza leggerlo. Ri­mise a posto il cartellino e uscì in cortile, per andare alla fornace. A metà strada, tirò fuori il biglietto e lo aprì. C’era scritto: «Si prega di passare appena possibile da Miss Parker-Willis in contabilità, nella giornata di oggi». Niente firma. Bosco alzò gli occhi alle finestre dell’ufficio conta­bilità.

«Che cosa vogliono?» disse ad alta voce. Decise di pas­sare alla fornace per dire al suo supervisore che era arrivato, prima di scoprire la risposta alla sua domanda. Le sue mosse venivano seguite passo passo da due finestre del piano di sopra. Constance lo stava guardando. Per metà si nascondeva e per metà sbirciava dalla finestra; il momento di massimo nervosismo era stato quando lo aveva visto aprire il biglietto. Come se avesse scritto tutta la storia su quel pezzetto di carta. A un’altra finestra, anche Geoffrey Parker-Willis lo guardava. Non si abbassava a nascondersi e a sbirciare, lui. Lui riempiva tutto lo spazio della finestra, con le mani cacciate in tasca e gli occhi fissi su Bosco.

Quando Bosco arrivò alla fornace, fece un cenno di sa­luto al suo supervisore. Il supervisore gli andò incontro e lui cominciò a raccontargli della commissione.

«Torno fra un attimo. Devo andare in ufficio» disse ur­lando per superare il rumore della macchina, e indicando gli uffici.

«Lo so» gli rispose urlando il supervisore. Si tolse di ta­sca uno straccio e ci si asciugò il sudore sulla fronte. «Per che cosa?» domandò.

Bosco scrollò le spalle e gli sventolò davanti il biglietto. «Non lo so, ma se è la contabilità sarà una questione di paga».

«La contabilità?» chiese il supervisore aggrottando le ci­glia.

«Sì, la contabilità» urlò Bosco. Riaprì il biglietto per con­trollare. «Sì sì, la contabilità» confermò.

Il supervisore era lì che scuoteva la testa. «No. Mi hanno detto di mandarti nell’ufficio di lui appena arrivavi. Nell’ufficio di lui, non in contabilità!» urlò il supervisore indi­cando il cielo, come se il capo fosse una specie di divinità. Bosco, perplesso, se ne andò.

 

Constance lo vide che rientrava in cortile. Diede una vo­ce alla sua assistente. «Mary!»

La testa della ragazza spuntò sulla soglia. «Sì, Miss Con­stance?»

«Portami il tè. Due tazze, per favore». Constance sorrise.

«Sì, signorina». E se ne andò.

Constance tornò alla finestra per seguire i passi di Bosco, ma lui non c’era più. Guardò per tutto il cortile e, quando finalmente lo vide, sbiancò. Invece di andare su da lei, Bo­sco aveva preso le scale di ferro che portavano all’ufficio di suo padre.

«No! No!» esclamò prendendo a manate la finestra. Ma Bosco aveva chiuso la porta dell’ufficio, e a quel punto non la vedeva più.

Bosco non sapeva cosa aspettarsi. Forse che arrivasse una segretaria a chiedergli chi voleva vedere? Due o tre per­sone in giacca e cravatta che portavano pile di documenti da una stanza all’altra? Bosco non aveva mai visto un uffi­cio in vita sua, per cui le sue aspettative si basavano sull’immaginazione. E lui si sarebbe immaginato qualsiasi cosa, ma non quella. Niente. Era lì da solo, in una specie di sala d’attesa. Niente ticchettio di macchina da scrivere. Niente voci da dietro le porte. Niente. Ma una cosa la notò: non si sentiva il rumore della fonderia. C’era silen­zio. Si chiese come facessero. Bosco era lì che si guardava intorno e cominciava a rendersi conto del lusso della stan­za, quando sentì lo scricchiolio di un pomello d’ottone. Era il pomello di una di quelle grandi porte di mogano. La grande porta di mogano si aprì e ne uscì un uomo. L’uomo era di statura imponente, e con gli zigomi alti. Portava i ca­pelli pieni di brillantina pettinati all’indietro, e sfoggiava un paio di baffi incerati dalla forma perfetta. Indossava una giacca di tweed con mezza mano infilata in tasca, e con il pollice fuori. Bosco non sapeva chi fosse, quell’uomo, ma gli ispirò un’antipatia immediata, ed evidentemente reci­proca.

«Mr Reddin?» gli chiese il tizio baffuto. La voce era secca.

«Sono io» lo informò Bosco.

«Lei sa chi sono?» Aveva un sorriso beffardo, il tizio.

«No. Ma scommetto che non è il custode». Bosco gli striz­zò l’occhio.

«Ah, l’umorismo di Dublino. Dove l’avrà mai preso, eh?»

«A Dublino?» provò a rispondere Bosco.

«Era una domanda retorica, Mr Reddin».

«Era sempre umorismo di Dublino, Mr…?» Bosco lo sa­peva già, il nome, ma voleva che si presentasse lui.

«Parker-Willis. Sono Mr Parker-Willis» annunciò Geof­frey. Bosco diede un’occhiata distratta ai rivestimenti in noce di tutti quegli uffici lussuosi.

«Ma certo, Mr Parker-Willis» disse sorridendo.

«Venga nel mio ufficio, Mr Reddin» ordinò Geoffrey, voltandogli le spalle e precedendolo. Bosco entrò in un uf­ficio sontuoso, e andò a sedersi nella poltrona di pelle. Geoffrey si girò e rimase un po’ sorpreso quando vide che si era seduto senza invito. Si accorse che la porta dell’uffi­cio era rimasta socchiusa. La indicò.

«La porta, Mr Reddin». Bosco guardò la porta e si finse perplesso. Poi indicò un quadro appeso al muro.

«Il quadro, Mr Parker-Willis. Mi perdonerà, ma non co­nosco le regole del gioco» si scusò.

«Voglio dire: chiuda la porta, Mr Reddin» disse Geoffrey fra i denti.

«Oh, mi scusi, Mr Parker-Willis. Io lavoro alla fornace, non mi occupo di porte. Bisognerà chiamare un portiere». Bosco sorrise. Geoffrey gli restituì il sorriso e riattraversò la stanza. Si chiuse la porta da solo.

«Penso che lo sappiamo tutti e due perché si trova qui, Mr Reddin» disse Geoffrey tornando alla sua poltrona. Si mise seduto.

«Io so perché ci si trova lei, Mr Parker-Willis. Quanto a me, non ne ho la più pallida idea» rispose Bosco con since­rità.

«Oh, per favore, Mr Reddin! Non pretenderà che creda a una sciocchezza del genere! Che cosa pensava, che le dessi un bell’abbraccio e mi mettessi a chiamarla “figliolo”?» disse Parker-Willis, ridacchiando.

«Solo se prima facciamo a pugni. Mr Parker-Willis. Lei mi abbraccia solo se facciamo a pugni». Bosco non aveva idea di dove si andava a parare.

«Mia figlia è molto importante per me» cominciò a dire Geoffrey, e lì si fermò. Bosco aspettava che terminasse la frase. Non aveva capito che doveva rispondere.

«Eh… è una bella cosa» riuscì a dire.

«Il pensiero di sposarvi sarà anche una cosa molto ro­mantica, per Constance, ma io e lei sappiamo che sarebbe un disastro!»

La bocca di Bosco rimase aperta per qualche secondo. Guardò Geoffrey dietro alla scrivania, mentre il suo cer­vello assorbiva i dettagli dell’ultima affermazione. Geoffrey scambiò lo shock dell’incredulità per lo shock di chi si vede scoperto e ricominciò a parlare.

«Sì. Me l’ha detto. So tutto». Geoffrey tirò fuori un si­garo e se lo accese. Al che Bosco si infilò subito una mano in tasca, e ne cavò fuori una sigaretta Afton stropicciata e mezza fumata. A sigaretta e sigaro accesi, Bosco aprì bocca per primo.

«Gliel’ha detto?» domandò. Parker-Willis annuì, con l’a­ria di chi la sa lunga.

«Ora mi stia a sentire, Mr Reddin. Ci sono già passato. So bene a che gioco sta giocando, e non sono il tipo che mena tanto il can per l’aia, in queste cose». Geoffrey si tirò su sulla poltrona e diede una lenta boccata al suo Avana.

«Sa a che gioco sto giocando?» chiese Bosco. Geoffrey fe­ce di sì con la testa.

«Capisco. E allora mi dica: a che gioco sto giocando, Mr Parker-Willis?» Bosco cominciava a riprendersi dalla sor­presa.

«Soldi» rispose Geoffrey. Bosco inarcò le sopracciglia.

«Ah, davvero?» disse.

«Oh sì, Mr Reddin. Soldi. È sempre una questione di soldi. Constance magari ci crede, al suo amore, ma lei ama solo i soldi!» Si fece una risatina e andò avanti: «Mia figlia è una brava ragazza, ma avrà, che so, dieci anni più di lei? E non è proprio una bellezza nel fiore degli anni, eh? Per­ciò… facciamola finita: quanto?» Geoffrey era ormai en­trato in modalità trattativa d’affari, e ci si sentiva molto a suo agio. Si riadagiò contro lo schienale e aspettò che il ti­zio sparasse un prezzo. Bosco si alzò e andò alla finestra. Guardò in basso, il cortile lurido. Tirò una boccata dalla sua Afton e guardò le quattro grandi ciminiere che sputa­vano fumo nero fuligginoso quasi sempre diretto al Jarro. Si girò.

«Mi faccia un’offerta, Mr Parker-Willis» disse. Geoffrey sorrise e si toccò la punta delle dita, formando un piccolo arco con le mani.

«Mille sterline, Mr Reddin». Geoffrey la pronunciò len­tamente quella cifra notevole, perché avesse maggiore im­patto. L’altro fece un fischio.

«Mille sterline basterebbero per comprare una bella casa e arredarla, o per prendere un negozio e riempirlo di roba, se uno avesse voglia di fare il commerciante» disse Bosco.

Geoffrey aveva un ghigno largo come la baia di Dublino. «Sì, Mr Reddin. Un sacco di soldi. Allora, cosa mi dice?»

Bosco spiaccicò la sigaretta nel portacenere e si passò una mano nella zazzera nera.

«Devo parlare con una persona, prima di darle una rispo­sta. Può andare bene, Mr Parker-Willis?» domandò Bosco.

Geoffrey si alzò e lo accompagnò alla porta. «Ma certo, certo. Capisco benissimo, Mr Reddin. Mi faccia sapere do­mani». Geoffrey ormai era tutto un sorriso. Ce l’aveva in pugno… non contrattava nemmeno, questo tizio!

«Oh, ci vorrà molto meno, Mr Parker-Willis, solo un at­timo» gli assicurò Bosco.

«Come vuole» disse Geoffrey con le mani alzate. «Come vuole» ripeté cordiale mentre Bosco usciva.

Chiusa la porta, Geoffrey andò alla finestra che dava sul cortile, e guardò Bosco che scendeva le scale. Lo seguì con gli occhi fino al centro del cortile, e lì lo vide portarsi le mani ai lati della bocca e mettersi a urlare. Bosco aspettò un attimo, e poi fece un altro urlo. Geoffrey non riusciva a di­stinguere le parole, per cui aprì la finestra e si sporse per sentire meglio.

 

Constance sulle prime era scoppiata a piangere, poi aveva smesso. Quindi era andata di corsa alla finestra per guardare fuori, e si era rimessa a piangere. Era passato un quarto d’ora da quando Bosco era scomparso nell’ufficio di suo padre. All’improvviso vide la porta dell’ufficio che si apriva, e Bosco che cominciava a scendere le scale. Lo seguì con lo sguardo fino al centro del cortile. Poi lo vide alzare gli occhi verso la sua finestra e lo sentì gridare: «Miss! Miss Parker-Willis!»

Sentendosi chiamare per nome, lei fece un gridolino in­volontario e si acquattò, ma anche così lo sentiva.

«Miss Parker-Willis!» gridò di nuovo lui. Le grida co­minciavano ad attirare l’attenzione, e sbucavano operai da tutte le parti.

«Miss Parker-Willis!» fece di nuovo Bosco. Poi si rivolse alla folla riunita. «Come si chiama di nome?» domandò. Scrollarono tutti le spalle.

«Constance» disse una voce in fondo al cortile. Era una delle ragazze che lavoravano nell’ufficio contabilità. «Si chiama Constance» disse ancora la ragazza. Bosco cambiò registro.

«Constance!» gridò. «Constance Parker-Willis!» Con­stance lentamente si alzò e azzardò una timida occhiata ol­tre il davanzale. Il cortile ormai era pieno di gente. Di oc­chi rivolti verso l’alto. C’era anche suo padre che si spor­geva dalla finestra del suo ufficio, per sentire bene.

Bosco la chiamò di nuovo: «Constance, ci sei?»

Constance si alzò, si sistemò i capelli, si asciugò gli oc­chi e diede due o tre colpetti alla gonna. Fece un gran re­spiro e spalancò le finestre. Guardò Bosco, laggiù. Aveva in­torno un cerchio di persone. Quando comparve lei, calò il silenzio. I due si guardarono in faccia.

«Sì, ci sono» fece lei. La voce le tremava un po’. Bosco si avvicinò alla finestra. «Che cosa vuole, Mr Reddin?» gli do­mandò Constance. Bosco parlò forte, per farsi sentire da tutti.

«Mi vuoi sposare?» le chiese. Tutte le teste si girarono verso Geoffrey Parker-Willis, e poi di nuovo verso Con­stance, così rossa che a momenti andava a fuoco. Lo guardò fisso negli occhi. La faccia di Bosco non tradiva nemmeno un pensiero. Le parole: «Certo che no, razza di stupido» le si affacciarono al cervello. Aprì bocca.

«Sì» disse. E gli occhi le si riempirono di lacrime. Era co­me se si fosse strappata i vestiti, e adesso fosse nuda davanti a tutti.

«Sicura?» le chiese Bosco.

«Sì. Sono sicura, Mr Reddin» rispose lei. Ormai non si poteva più tornare indietro. Le cadde una lacrima sul polso. Il cortile era immerso nel silenzio. Prima Bosco, e poi tutti gli altri, si girarono verso Geoffrey Parker-Willis.

«Mr Parker-Willis, se li metta nel culo i suoi soldi. Io mi sposo». Venne giù il cortile per l’entusiasmo. Geoffrey chiu­se la finestra con una gran botta. Bosco si girò di nuovo ver­so la sua nuova fidanzata, con un gran sorriso in faccia. Le sorrise e le fece l’occhiolino. Alla faccia del fare due chiac­chiere un giorno o l’altro, eh?