7.

Quarantuno scalini. Constance li aveva contati uno per uno, mentre saliva fino in cima al condominio. L’edificio era una vecchia struttura georgiana divisa in quattro “ap­partamenti” di tre stanze ciascuno. In tutto il palazzo non c’era nemmeno un bagno, e c’era un unico cesso, al secon­do piano. Le scale erano di legno dal secondo piano in su, di granito dall’atrio al cesso. Tutte le dodici stanze del pa­lazzo avevano come unica fonte di calore un camino aperto, e nel sottoscala del piano terra c’era un magazzino diviso in quattro parti uguali, ognuna con il suo lucchetto. Lì met­tevi quello che bruciavi nel camino, che fosse torba, car­bone o carbonella. Rimaneva posto per altre due o tre cose, se avevi due o tre cose da metterci.

Constance era alle spalle di uno sfiatato Bosco mentre quest’ultimo litigava con la chiave dell’appartamento 4C. Sentì il clic rumoroso della serratura. Bosco girò il pomello d’ottone annerito e spalancò la porta di legno marrone. Poi si girò.

«Non è un palazzo» disse per mettere le mani avanti, men­tre con il braccio la invitava a entrare per prima.

Constance fece un sorriso nervoso ed entrò in quella che stava per diventare la sua nuova casa. Arrivò al centro della stanza principale. Era cupo. La stanza aveva una sola finestra che dava sul mondo, e quell’unica finestra era un caleidoscopio di sporco e sudiciume vario, dal verde alga dell’esterno al marrone del fumo di carbone e torba dell’interno.

«Accendi la luce» disse a Bosco che era dietro di lei, senza girarsi. Lui rise.

«È accesa» disse. Lei alzò lo sguardo e vide una povera lampadina macchiata che faceva del suo meglio per invade­re l’oscurità.

«Cristo» disse lei sottovoce. In quella luce fioca, Con­stance ispezionò la sua nuova casa. La sala aveva un camino e quattro pareti. Nell’angolo alla destra di Constance c’era una stufa a gas con quattro fuochi e un forno. Di fianco al forno c’era un acquaio molto grande, fortunosamente ap­poggiato su due supporti che sbucavano dal muro. Sopra il lavandino c’era un singolo tubo di ottone, il quale, quando Constance girò il rubinetto, emise una serie di cigolii e scoppiettii, per poi sputare fuori dell’acqua gelata. Lei guardò Bosco con un sopracciglio alzato.

«Da mettere un po’ a posto» disse lui.

Constance girò uno dei pomelli della cucina a gas. Il puff puff e l’odore le dissero che andava. Andò alla finestra, tolse il fermo e provò a sollevare il vetro. Niente. Dietro di lei Bo­sco borbottò: «Da mettere un po’ a posto anche questa».

Constance si leccò un dito e lo passò sulla finestra, la­sciando sul vetro una traccia chiara.

«Chi ci stava prima?» domandò.

«La vedova Clancy» rispose Bosco.

«Poteva pulire i vetri, perlomeno» si lamentò Constance.

«Viveva da sola con cinque bambini. Non aveva nem­meno il tempo di affacciarsi alla finestra, figurarsi di pu­lirla» rispose Bosco, con una punta di disapprovazione nella voce.

«Scusa» disse Constance. «Scusa. Non volevo…»

Bosco la fermò con la mano prima che finisse la frase. «No, Connie, scusami tu. Aspettavo solo che ti lamentassi. Hai ragione, non ci voleva tanto a pulirla, quella finestra del cazzo. Senti, te l’ho detto che non era un palazzo» disse con le braccia a squadra sui fianchi e la testa piegata da un lato.

«No, non è un palazzo, e probabilmente non lo diven­terà, ma possiamo fare del nostro meglio perché diventi una casa» disse Constance. Si sorrisero.

«L’attico» disse Bosco ridendo. Anche Constance si mise a ridere, prima piano, poi più forte, poi isterica, poi con i lacrimoni. Abbracciò Bosco, e abbracciati cominciarono a dondolarsi avanti e indietro, ridendo con le lacrime che gli rigavano la faccia.

Nelle sei settimane seguenti, Constance usciva dalla fon­deria e andava dritta al 4C, per mettere a posto l’apparta­mento. Bosco la raggiungeva alla fine del turno, e lavorava­no spalla a spalla per prepararsi il nido. Constance strofina­va e raschiava, imbiancava e lucidava. Bosco dava martella­te e segava e sollevava e piallava. Finché, l’11 ottobre 1933, a due sole settimane dalle nozze, Bosco, con un po’ di amici, portò su per i quarantuno scalini il letto e il mate­rasso. Montarono la struttura del letto e la misero nella più grande delle due camere da letto. Fatto questo, i due guar­darono la loro casa. Nella sala, il pavimento di legno era stato levigato e lucidato; sul pavimento c’era un rimasuglio quadrato di tappeto che ormai era ridotto a uno stuoino. Il soffitto, dopo tre mani di vernice bianca, rifletteva la luce della lampadina da 150 watt comprata da Constance nei magazzini della fonderia. Le pareti le avevano dipinte di giallo ranuncolo, il battiscopa di bianco. L’acquaio adesso aveva intorno un armadietto e di fianco una credenza. Il tubo e il rubinetto di rame, lucidati allo sfinimento, erano un luccichio dorato sopra il lavandino.