16.

Davanti alla Fonderia Parker-Willis, nonostante il freddo e l’umidità, gli operai in sciopero erano di umore stranamente pimpante. Poco prima erano arrivati dei carri del Sindacato irlandese pasticceri, carichi di doni per il picchetto. I panet­tieri dei forni Johnston, Mooney e O’Brien, dall’altra parte del fiume, avevano mandato agli scioperanti un gran carico di pane di due giorni e ciambelline mezze stantie. Gli operai di turno al picchetto si riempivano le tasche per portare a casa la roba da mangiare, e intanto masticavano un po’ di ciambelline alla marmellata, vecchie ma ancora buone. Per gli operai della fonderia in sciopero, il pane e le ciambelline non erano solo cose da mangiare. Erano il segno tangibile dell’appoggio dei lavoratori di un sindacato molto distante dal loro, e sapere che c’era qualcuno che li appoggiava basta­va già a metterli tutti di ottimo umore. Nel picchetto nottur­no, quella volta, erano una trentina. Avevano preso dei vec­chi bidoni d’olio e ci avevano fatto dei buchi. Pieni di legna che divampava, diventavano bracieri perfetti. In prossimità del porto, legna e pezzetti di carbone non scarseggiavano certo. Gli uomini se ne stavano raccolti attorno ai bidoni, a gruppi, con le facce sorridenti, calde e accese, e uno scoppio di risa ogni tanto quando qualcuno raccontava una storia.

Dall’altra parte del muro l’umore era diverso. Sulla fon­deria incombeva la luna piena, e sotto la luna, in cortile, c’e­rano molti più uomini. Uomini divisi in gruppi numerosi. Da un gruppo all’altro passavano ordini sussurrati e cenni d’intesa.

 

Quando Bosco imboccò la strada che portava all’entrata principale della fonderia, notò due cose. Uno, per la prima volta da quando avevano cominciato il picchetto non c’e­rano poliziotti. Neanche l’ombra. Due, se di solito per il picchetto notturno c’erano dai trenta ai quaranta uomini, quella notte se n’erano aggiunti almeno cinque volte tanti.

Tommy Mangan gli si fece incontro per raccontargli le novità, e per dargli una spiegazione almeno sul punto nu­mero due.

«Crumiri?» gli chiese Bosco, un po’ perplesso. «Sicuro?» Mangan fece di sì con la testa. Sicuro come la morte. Al primo turno, gli disse, era arrivato un camion che aveva fatto passare almeno cento uomini dal portone principale. Bosco ci rimuginò un po’ sopra.

«Che si fa?» gli chiese Mangan, interrompendo il flusso dei pensieri di Bosco.

«Per ora niente». Bosco era in ansia. «Fammici pensare». Molto in ansia. C’era qualcosa di strano. Si mise ad ab­baiare degli ordini: «Tommy, raduna tutti i capisquadra. Voglio parlarci. Di’ a tutti di stare calmi, che ci penso io. Va bene?» Mangan fece di sì con la testa e sparì.

Qualcosa di molto strano, si disse. Ma… cos’è? Manca qualcosa? Non era una novità, che i padroni portassero in fabbrica dei crumiri per rompere l’unità dello sciopero. Al contrario, era previsto. Ma di solito succedeva alla luce del giorno, quando c’erano moltissimi scioperanti a fare da pubblico. Era una tattica che i padroni usavano per intimi­dire i duri e per spaventare i meno duri, che temevano di perdere il lavoro. Ma perché di notte? E perché mai farli en­trare di nascosto?

Bosco era perplesso per davvero, ma nel frattempo aveva anche problemi più pressanti: controllare i suoi uomini. Tommy Mangan aveva radunato la ventina di capisquadra di quella notte, e bisognava dir loro qualcosa. Pendevano dalle sue labbra.

«Non ho ben capito che cosa combina, Parker-Willis. Ma succeda quel che deve succedere, noi dobbiamo tenere in or­dine i nostri». Li guardò in faccia. «C’è qualcuno che ha be­vuto?» Tre capisquadra alzarono lentamente le mani. «Okay,

voi tre ve ne andate subito a casa» fu l’ordine di Bosco.

«Eh?» protestò uno dei tre.

«Sentite, se succede qualcosa non voglio che la polizia ci descriva nei giornali come una marmaglia ubriaca, capito? Perciò ve ne andate a casa. Subito!» Se ne andarono. «Voi, fate il giro degli altri uomini e annusategli il fiato. Quelli che hanno anche solo il minimo sentore di alcol li mandate a casa. Chiaro?» Fecero di sì con la testa. La cosa non li ri­empiva di gioia, ma fecero di sì con la testa.

«E poi?» chiese uno.

«Ancora non lo so» rispose Bosco, con la voce che la­sciava trapelare la preoccupazione. «Aspettiamo. Aspet­tiamo e stiamo a vedere cosa succede». Gli uomini si dis­persero. Bosco era sempre in ansia. Entro mezzora, tutti quelli che avevano bevuto anche solo un goccio erano tor­nati a casa. Nel quartiere si era sparsa la voce che in fonde­ria erano arrivati i crumiri, e all’alba il picchetto contava ol­tre trecento uomini. I capisquadra non sentivano più il fiato a nessuno, e Bosco si accorse che avevano difficoltà a controllare la folla. Misero insieme un palco di fortuna con un paio di bidoni e un’asse. Bosco ci saltò sopra e provò a parlare agli uomini.

Erano le sei e quarantacinque del mattino.

Dopo qualche secondo di urli per attirare l’attenzione, una serie di «sst!» cominciò a serpeggiare tra la folla, che si azzittì. Guardarono tutti Bosco.

«Buongiorno, fratelli» iniziò Bosco. «Ora, se Mr Parker-Willis vuole essere sicuro che siamo tutti uniti, in questo sciopero, non ha che da guardare fuori dalla finestra questa mattina!» A quella frase seguirono un gran boato e un agi­tarsi di pugni alzati. Bosco alzò le braccia per ottenere si­lenzio, e la folla si zittì di nuovo. Lui proseguì il discorso. «E mi piacerebbe davvero che vi vedesse» tuonò abbrac­ciando la folla con un ampio gesto, «ma mi piacerebbe an­che che vedesse un gruppo di lavoratori che si comporta con dignità e onore». A questa frase fece seguito qualche mugugno.

«Sono dei crumiri del cazzo!» ruggì una voce dal fondo, salutata da un boato ancora maggiore.

Bosco fece di nuovo segno di tacere.

Erano le sei e cinquantotto.

Dopo un po’, la folla si azzittì.

«Ascoltatemi, per favore. Ascoltatemi» li implorò Bosco. Tutt’a un tratto si sentì un tonfo sordo. Veniva da dietro i sei metri d’acciaio del portone d’entrata alla fonderia. Tutte le teste si girarono verso il portone. C’era silenzio assoluto, a parte un cigolio di passi su una scala di legno. Tutti gli occhi erano puntati al cancello d’acciaio. D’improvviso, in cima al portone fece capolino una testa. Vedendo quello che credeva un crumiro, la folla prese fuoco e si mise a stril­lare all’indirizzo della testa. Qualcuno lanciò un mattone. Non gli andò neanche vicino, al tizio sulla scala, ma il ru­more dell’impatto bastò a farlo sparire. La scomparsa della testa provocò boati e fischi di derisione. Fu in quel mo­mento che Bosco capì. Ecco che cos’era che mancava. Era il cigolio sui pioli della scala che gli aveva acceso la lampa­dina. Il rumore! Non c’era rumore. Se erano crumiri por­tati lì per lavorare, quei tizi, perché non li avevano sentiti lavorare?

«Picchiatori» disse ad alta voce, ma nessuno lo sentì. «In­dietro!» urlò. Bosco saltò giù dalla piattaforma e prese per il bavero tutti i capisquadra che gli capitavano a tiro. «Sgom­berate la strada!» urlava. Loro lo guardavano con facce vuote, perplesse.

«Cazzo, cazzo, sgomberate la strada!» urlava. La sua voce era sommersa dai fischi e dai boati. Troppo tardi. Alle sette in punto, gli enormi battenti d’acciaio si spalancarono, mettendo in mostra duecento picchiatori armati fino ai denti. Sulle prime gli scioperanti urlarono degli insulti, an­cora convinti che fossero crumiri. Ma quando partì la prima carica, capirono l’antifona e se la diedero a gambe.

Ora quelli che erano davanti cercavano di allontanarsi dal cancello, mentre quelli che stavano dietro spingevano avanti. I picchiatori le avevano già nel sacco, le loro prede. Con l’adrenalina a mille, diedero addosso agli scioperanti. Nel macello che ne seguì, l’aria era piena di urla e grida di dolore, e di uno scricchiolio di ossa che cedevano sotto i pe­santi colpi dei picchiatori. Bosco intanto sollevava i caduti e se li trascinava verso il fondo della strada. Gridava: «Corri!» Gli sembrava di sentire la voce di suo padre mo­rente che gli sussurrava: «Corri, Bosco. Corri, ragazzo». Ma la ignorò. Avvistò un ragazzo in difficoltà. A occhio e croce, non aveva più di vent’anni. All’inizio si difese bene. Saltel­lava qua e là per schivare i colpi di un picchiatore che me­nava bastonate con grande tranquillità. Mentre schivava le bastonate, il ragazzo metteva sempre più distanza fra sé e il suo inseguitore. Poi il ragazzo inciampò e cadde per terra, e a quel punto Bosco lo riconobbe. Era Mick O’Malley, il bambino delle campane. Era inciampato sul corpo di un anziano che sanguinava steso sul selciato. Al picchiatore non sembrò vero. Si scagliò sul ragazzo. Con un urlo di rab­bia, Bosco si scagliò sul picchiatore. Arrivò lui per primo. Diede una gran spallata all’omone, facendolo rotolare per terra. Poi si chinò su Michael. Lo aiutò ad alzarsi in piedi. Il ragazzo era terrorizzato. Bosco lo guardò in faccia.

«Corri, ragazzo. Vai, Michael, corri!» gli urlò. Gli occhi di O’Malley si spalancarono per il terrore, quando vide il bastone che calava sulla testa di Bosco. Gli si conficcarono nel cranio cinque centimetri di chiodo. Mentre Bosco sci­volava lentamente in avanti, Michael O’Malley fuggì per salvarsi la pelle.

 

I giornali del giorno dopo parlavano dell’attacco. C’era scritto che l’“incidente” era stato provocato da un gruppo di scioperanti ubriachi che avevano aggredito la forza la­voro legalmente impiegata dalla Fonderia Parker-Willis. I diciotto uomini che erano morti erano rimasti schiacciati da tutta quella gentaglia in preda al panico. Non erano pre­viste autopsie.

Connie leggeva tutto questo nella sala d’attesa del Rich­mond Hospital. Se ne stava lì seduta, ridotta al silenzio dallo shock. Si aprì la porta della sala d’attesa. Connie guardò la porta sperando che fosse un dottore, che le dices­sero qualcosa di suo marito. No. Era solo un ragazzo con la faccia pallida. Si presentò come Michael O’Malley; aveva vent’anni, le disse, e l’intervento di suo marito gli aveva sal­vato la vita. Gli avevano detto che era lì.

«Come sta?» domandò il ragazzo.

«Non lo so, ragazzo mio, non lo so» gli rispose Connie. Era paralizzata. Il ragazzo mise la mano su quella di lei e si mise a recitare ad alta voce il Padre nostro. Connie non sentì né la mano né le parole. Alla fine della preghiera, il ra­gazzo si tolse dal collo una catenina d’oro con un crocifisso. Provò a metterla nella mano di Connie. La mano di lei però non la afferrava, così come il suo cervello non afferrava l’or­rore delle ultime dodici ore. E così il ragazzo gliela arrotolò attorno al pollice.

«Signora, per favore, dica a suo marito che se posso fare qualsiasi cosa per lui, non ha che da chiedermelo». Connie non reagì. Il ragazzo le accarezzò la mano e si mise seduto ad aspettare lì di fianco, in silenzio. Vide il giornale appog­giato al tavolino e lo girò per leggere. Arrivò solo al titolo.

«Dio mio, diciotto morti». Sospirò. Si aprì la porta della sala d’aspetto. I morti stavano per diventare diciannove. Connie cadde svenuta.

Michael O’Malley uscì dall’ospedale accecato dalle lacri­me, e camminò e camminò. E camminò.