19.

Il cuore di Agnes era lì lì per spezzarsi. Marion le stringeva la mano. Dolly era minuscola lì davanti al giudice, attor­niata da due poliziotti enormi. Il poliziotto che l’aveva ar­restata fece rapporto sulla rapina. Secondo lui c’erano al­meno tre ragazzine implicate. Ma l’unica che aveva preso, Dolly, si era rifiutata di fare i nomi. Dolly girò la testa e in­crociò lo sguardo della sorella. Erano tutt’e due vicine alle lacrime, ma si sorrisero. Il giudice, una donna dall’aria se­vera con gli occhiali a mezzo naso, puntò gli occhi sulla bambina. Si lasciò sfuggire un tsk tsk mentre cercava qual­cosa con gli occhi.

«Il padre della bambina è in aula?»

«No, è morto». Era la voce di Agnes. Il giudice la guardò.

«E tu chi saresti, signorina?» le chiese.

«Sono sua sorella» disse Agnes, orgogliosa.

«E io sono amica sua» disse Marion.

«Sta’ zitta, Marion» disse Agnes storcendo la bocca.

«Okay» rispose Marion.

«E tua madre c’è?» Il giudice cercava di fare in fretta. C’erano molti altri bambini da passare in giudizio prima di sera.

«No. Mia mamma non è potuta venire, non sta bene» mentì Agnes. A sua mamma non l’aveva detto, per paura che morisse di dispiacere.

«Che cosa ci faccio con te, ragazzina? Eh? Che cosa ci faccio?» Il giudice si aspettava una risposta da Dolly. Dolly non disse nulla.

«Precedenti?» chiese il giudice al poliziotto, che fece di no con la testa. «Va bene, tre anni di libertà vigilata». Guardò Dolly. «Lo sai cosa vuol dire?»

«No, signora» rispose Dolly, a voce bassa.

«Se ti ritrovo qui nei prossimi tre anni, ti mando in un posto tanto lontano che se urli non ti sente nessuno. E in quel posto si urla, ragazzina!»

 

Fuori dal tribunale, Dolly buttò le braccia al collo di sua sorella. Scoppiarono a piangere.

«Non farmi più tornare qui dentro, capito, Dolly Red­din?» disse Agnes fra i singhiozzi.

«Scusa, Aggie, non lo faccio più. Te lo giuro». Dolly non allentava la presa di un millimetro. Le tre ragazzine presero la strada di casa. Be’, era la strada di casa per Agnes e Dolly, mentre Marion andava a lavorare, per cui le altre due la ac­compagnarono a Moore Street prima di tornare a casa. Quando arrivarono alla bancarella, Mrs Delany era furi­bonda.

«Dove sei stata?» urlò in faccia a Marion. Marion stava per dirglielo, ma poi vide lo sguardo preoccupato di Agnes.

«Da nessuna parte» rispose.

«Be’, la bancarella l’ho tirata su da sola. La roba l’ho messa su da sola. Dove cazzo ti credi di essere? Ho saltato la colazione, la pausa, non ho neanche avuto tempo di grat­tarmi il culo!» Detto questo, tirò uno scappellotto in testa alla figlia.

«Scusa» disse Marion, quasi in lacrime. L’aveva sentito, lo scappellotto.

«Scusa, eh? Ah, ma adesso mi sento molto meglio. E chi la sente più la fame? Te le do io le tue scuse, signorina». Il braccio partì di nuovo, ma Marion questa volta lo schivò. Agnes e Dolly si allontanarono ancora di più. Tutto a un tratto, Marion esplose.

«Bene, così ti accorgi della fatica che faccio. Tiro su quella bancarella da quando ho sette anni, e mai una volta che mi dici grazie!» urlò in faccia a sua madre. Mrs Delany diventò viola per la rabbia. Si buttò addosso a sua figlia, ma Marion si mise a correre attorno alla bancarella. Sua madre le dava dietro urlando. «Aspetta che ti prendo, stronzetta di merda!» Marion fece uno scatto e si buttò in strada. Sua madre fin lì non ci arrivava. Si fermò, sfiatata.

«Schifosa!» ruggì. «Vedi di non tornare!» Mrs Delany si girò e si accorse dei commercianti e dei clienti che la guar­davano. «E voi che cazzo avete da guardare?» urlò, e quelli tornarono ai loro affari.

Agnes prese Dolly per un braccio. «Vieni, andiamo a cercarla» disse, e corsero dietro a Marion.

 

Marion non era per niente pentita. «È una vecchia pigra e stronza». Era arrabbiata.

«Magari è solo di cattivo umore» azzardò Agnes.

«Ah, ma è sempre di cattivo umore. Non mi paga nean­che. Devo rubarle i soldi quando è girata dall’altra parte». Marion camminava dietro ad Agnes e Dolly.

«E adesso come fai?» le chiese Agnes.

«Non lo so». Marion chinò il capo. «Posso dormire da te, Agnes? Chiedi a tua mamma se posso stare da voi?»

«Non c’è bisogno di chiederglielo. Dai, andiamo a casa». Si avviarono affiancate, mano nella mano. Che giorno da adulte, per quelle tre ragazzine.

Quella notte, Marion svegliò Agnes a scossoni. Per un istante, Agnes la guardò stupefatta. Si era dimenticata che dormiva lì.

«Cosa c’è, Marion?» Agnes si tirò via il sonno dagli oc­chi con le mani. Marion, invece, pareva ben sveglia.

«Ho un’idea». Era in preda all’eccitazione.

«Dimmela domattina». Agnes si rimise giù.

«No, ascolta» disse Marion, insistente.

«Va bene, va bene, dimmi». Starla a sentire d’accordo, ma non aveva intenzione di rialzarsi.

«Vengo a lavorare con te».

«Eh?»

«Al laboratorio di sartoria. Mi trovo un lavoro lì. Così stiamo insieme tutti i giorni. Che ne dici?» Aveva già deciso tutto.

«Okay. Domattina chiedo» disse Agnes, assonnata. Si ti­rò addosso la coperta e si riaddormentò. Marion rimase sve­glia, con un sorriso dipinto in faccia.

 

Marion durò un giorno solo, al laboratorio di sartoria. Il lavoro non le piaceva. Non le piaceva farsi stipare in quella grande stia piena di sudore. Era come la scuola, ma con le macchine da cucire. Non le piacevano le altre ragazze. Nel momento esatto in cui si presentò insieme ad Agnes, quella mattina, c’erano già delle ragazze che la guardavano con so­spetto. Nell’ufficio controllo orari la fermarono e le chie­sero di tirare fuori il certificato di nascita. Quello del con­trollo orari si studiò il certificato e poi si studiò Marion, dalla testa ai piedi.

«Ma questo è proprio il tuo certificato?» le chiese.

«Ma sì» rispose Marion brusca; l’autorità non le andava a genio.

«Be’, a guardarti non te li davo, quindici anni» disse il ti­zio, stringendo gli occhi.

«Anch’io a guardarti non te lo davo del coglione, ma chi può dirlo?» rispose Marion.

«Non fare la furba con me, stronzetta» disse lui, secco. L’aveva fatto arrabbiare. Intervenne Agnes.

«È già passata dall’ufficio del personale, signore».

Il tizio ridiede il certificato di nascita a Marion e aprì il registro del personale. Scorse i nomi col dito finché non ar­rivò a Marion. A quel punto aprì un cassetto, tirò fuori un cartellino marrone nuovo di zecca e ci scrisse sopra il nome. Poi fece scivolare il cartellino dalla finestrella del suo uffi­cio. Dalla stessa finestrella fece uscire anche una cosa a metà fra un urlo e un ringhio: «Sei il numero 2185: non te lo scordare».

«Me lo faccio tatuare sulle palpebre» riuscì a ribattere Marion mentre Agnes la trascinava via, per poi farle vedere come si timbrava il cartellino e portarla nella sala macchine da cucire piane. Sulla soglia, Marion rimase senza fiato. «Cristo santo».

Era una sala molto grande, piena zeppa di file su file di macchine da cucire. Più di cento, in tutto. Agnes portò Marion dal supervisore, Mrs Kelly, le presentò, e poi lasciò Marion con quella signora di mezz’età vestita per benino. Dopo averle elencato tutte le regole (due pause bagno al giorno, due pause tè eccetera), Mrs Kelly portò Marion da­vanti a una macchina.

Era una macchina per asole, cominciavano tutte da lì. Mrs Kelly si mise seduta davanti alla macchina e, con Ma­rion che guardava, le insegnò come si tagliavano le asole: fa­cendo attenzione, bisognava spingere avanti la stoffa e in­tanto spingere il pedale con tutti e due i piedi per azionare la macchina. Marion imparava in fretta, e nel giro di due secondi Mrs Kelly l’aveva già messa davanti alla macchina. Prima di tornare alla sua scrivania in cima alla sala, Mrs Kelly diede a Marion un mazzo di quadrati di stoffa e la la­sciò lì a fare pratica da sola. Su ogni quadrato c’era posto per dieci asole. Mentre Marion faceva pratica, nella sala rimbombava il rumore di una catena di montaggio. Mac­chine da cucire piane, macchine per fare i punti e macchine per tagliare i tessuti procedevano a tutto spiano. Tutte le ra­gazze cantavano a squarciagola le canzoni che uscivano a volume altissimo dall’amplificatore.

Quando suonò la sirena che annunciava la prima pausa tè, Marion aveva già fatto cinquecento asole e ne aveva fin sopra i capelli. Agnes andò a prendere Marion e se la portò in mensa, dove si misero in fila per una tazza di tè. La pausa tè durava solo quindici minuti, e dieci li passarono a fare la fila. Gli altri cinque li impiegarono a mandare giù il tè e a farsi una fumata veloce. A quel punto la sirena suonò di nuovo. Al suono della sirena, tutta la sala si alzò in massa per tornare al lavoro. Mentre uscivano dalla mensa, Marion prese Agnes per un braccio.

«Scusami, Aggie, ma lo odio questo posto» disse in tono dispiaciuto.

«Aspetta un attimo, Marion. Poi vedrai che ti piace, ma bisogna che aspetti un attimo» la rassicurò Agnes.

«Impossibile, Agnes… impossibile» disse Marion. Troppo tardi. Agnes era già sparita.

Marion tornò alla sua macchina. Mrs Kelly le aveva la­sciato un altro mucchio di ritagli per esercitarsi, e Marion ricominciò. Dopo pranzo Mrs Kelly la spostò a una mac­china per fare i punti. Anche qui, Marion ci mise pochis­simo a imparare la tecnica, e nel giro di qualche minuto era già molto veloce e ancora più annoiata. In più, l’odore di olio da macchina miscelato a quello dei tessuti cominciava a darle la nausea. Le venne il voltastomaco, e poi il mal di testa. Lo disse alla ragazza che aveva di fianco, e lei le sug­gerì di dirlo a Mrs Kelly.

 

Eileen Kelly lavorava nel settore dell’abbigliamento da molti anni. Prima da brava tagliatrice, e poi da eccellente lavoratrice a macchina. Ma era sbocciata solo quando l’ave­vano promossa supervisore. Era molto ben organizzata, e con le ragazze era allo stesso tempo materna e autoritaria, una miscela che loro apprezzavano. C’erano ragazzine, e non poche, che entravano nel laboratorio di sartoria a tre­dici o quattordici anni. Assumere ragazzine di età non an­cora matura comportava molti problemi, fisici e psicolo­gici. Ad esempio, per un supervisore era difficile fissare obiettivi plausibili, perché a quell’età, in pratica, la conti­nuità di rendimento non esiste. Sul piano fisico, uno dei problemi fondamentali di Eileen Kelly era il fatto che molte delle sue ragazze cominciavano appena ad avere le mestrua­zioni, oppure dovevano ancora averle. E così arrivavano alla scrivania di Eileen spaventate, sconcertate e confuse. Ma Eileen era pronta a ogni evenienza. Nel cassetto in basso a sinistra della scrivania c’era un’enorme riserva di assorbenti e una scatola di aspirine formato famiglia. Quando le si presentava davanti una ragazzina pallida e con gli occhi gonfi che le diceva una cosa tipo: «Mrs Kelly, mi sento poco bene», Eileen non faceva altro che assentire, dire alla ragaz­zina che era tutto okay, tirare fuori due aspirine, avvolgerle in un assorbente, dare l’involto alla ragazzina e indicare il bagno delle donne.

E così fece quando le si presentò davanti Marion per dirle che aveva nausea e mal di testa. Eileen le fece il sorriso di chi la sa lunga e le passò l’involto. E fu così che Marion, che le mestruazioni ancora non le aveva, si trovò nel bagno delle donne, completamente disorientata, con due aspirine in una mano e una cosa che sembrava un’amaca bianca nell’altra. Cinque minuti dopo, uscita dal bagno delle donne, Marion passò davanti alla scrivania di Mrs Kelly. Passando le disse un educato: «Grazie, Mrs Kelly, mi sento un po’ meglio». Senza neanche alzare lo sguardo, Mrs Kelly fece un gesto con la mano e disse: «Figurati, cara». Marion tornò alla sua macchina e si rimise a fare i punti. Ora, tutte le ragazze che volevano andare in bagno erano costrette a passare davanti alla fila di macchine di Marion. Che quasi non ci fece caso, alle prime due o tre ragazze che le passa­rono davanti ridacchiando. Ma dopo un po’ le ragazze an­davano in bagno in quattro o cinque alla volta, e i risolini erano diventati risa sfacciate.

In bagno, Marion aveva preso un bicchierino di carta per mandare giù le due aspirine con un goccio d’acqua. Ma poi che fare dell’amaca bianca in miniatura? Ci aveva pensato bene. Aveva aperto l’acqua fredda e ci aveva messo sotto l’amaca, e poi l’aveva strizzata. Se l’era messa sulla fronte e se l’era fissata intorno alle orecchie. Quando Mrs Kelly si alzò per andare a vedere cosa c’era da ridere, Agnes si era già alzata, giusto in tempo per vedere la sua migliore amica seduta davanti alla macchina per fare i punti, combinata come un cavallo da corsa. Agnes si pre­cipitò da Marion, le strappò dalla fronte l’assorbente e lo buttò via. La prese per mano, e Marion si alzò. Agnes si rivolse alla folla che continuava a radunarsi: «Manica di

stronze!» «Cosa c’è?» le chiese Marion. «Cosa c’è? Cos’ho fatto?» «Niente, Marion. Vieni, andiamo via». Agnes prese l’amica per mano e passò in mezzo alla calca

di ragazze in preda alle risate. L’industria dell’abbigliamen­to non vide mai più Reddin e Delany.