31.

Era la prima domenica che Agnes non andava a trovarla, ma Dolly non se la prese. Lo sapeva, quanto era importante Nellie Nugent per sua sorella. Quella domenica, Dolly aveva chiesto il permesso di uscire per il funerale, ma non gliel’avevano accordato. Il permesso giornaliero si poteva concedere soltanto in caso di morte di un consanguineo. E così, non potendo andare, era rimasta alla cappella della prigione dopo la messa, a pregare per lei.

Alla messa funebre di St Jarlath, padre Pius disse alle ven­ditrici riunite in preghiera che sapeva pochissimo di Nellie, stessa identica cosa che si poteva dire di tutte loro. «Ma una cosa la so» aggiunse. «La nostra paura più grande, in questa vita, è rimanere soli. Abbiamo paura di andarcene da questo mondo senza che se ne accorga nessuno, senza nessuno che pianga per noi». A quel punto guardò in faccia Agnes. «Nel­lie Nugent non era sola. E c’è qualcuno che piange per lei. Ora, seduta alla destra del Padre, al sicuro fra le sue braccia, Nellie sa per certo che qui, nel nostro mondo mortale, in questo mondo pieno di pianto e di dolore, lei è stata molto amata!»

Dopo la messa, Agnes ringraziò padre Pius per le sue bellissime parole. Era molto triste. Lui le prese la mano e gliela strinse.

«Agnes, hai ancora tua madre» provò a dire per consolarla.

Lei fece un minuscolo sorriso per ringraziarlo dello sforzo. «No, padre. Non ce l’ho più da un bel pezzo. Ma gra­zie lo stesso!»

Seppellirono Nellie nel cimitero di Glasnevin, e per l’e­stremo saluto c’erano più amici di quelli che Nellie credeva di avere.

La morte di Nellie fece da catalizzatore. C’erano tante cose da fare. Per prima cosa, Agnes andò all’ambasciata ca­nadese per il colloquio. Il colloquio andò bene, e le fissa­rono un altro appuntamento tre settimane dopo, per la vi­sita medica. Il passo seguente era procurarsi un passaporto. Agnes si fece dare i moduli che ci volevano alla stazione di polizia e li compilò meglio che poteva. Mise a soqquadro l’appartamento in cerca delle fotografie. Erano foto della scuola, ma Agnes si disse che aveva già la faccia abbastanza adulta, per cui potevano andare. Le aveva trovate, roba da matti, nel cassetto del comodino di sua madre. Portò le fo­tografie e il modulo alla stazione di polizia, e le misero un timbro sul modulo. Il poliziotto fece un commento sulle foto. «Eri più piccola, qui» le disse.

«Lo so, sono della scuola. Non volevo spendere i soldi per farle nuove, se andavano bene» gli spiegò Agnes.

«Oh, ma si vede benissimo che sei tu. Facevo così per di­re. E dov’è che vai?»

«In Canada. Vado a stare là» gli disse lei con un gran sor­riso.

«Brava. Ho un cugino che sta in Nuova Scozia. Dieci anni che è là. Sta benissimo! Fai proprio bene, tesoro! Fatti una bella vita». Le mise il timbro sulla foto e sul modulo.

«Porta tutto all’ufficio passaporti, che ci pensano loro. E buona fortuna!» Le sorrise.

«Grazie!» rispose Agnes.

Agnes raccontò solo a Marion la faccenda del Canada. Non disse niente nemmeno a Rosso, con cui continuava a uscire e al quale cominciava ad affezionarsi. Sì, era rude come un orso appena sveglio, ma per altri versi era un buon ragazzo. Andavano al cinema, o a bere qualcosa; o alle corse dei cani, ma solo una volta ogni tanto: Rosso ci andava sempre tutte le settimane, ma Agnes ce la portava una volta ogni tanto. Lei ormai aspettava solo il passaporto e la visita medica. Nel frattempo, lavorava alla bancarella come e più di prima, incassava tutto quello che poteva e metteva da parte come non aveva mai fatto. Quando arrivò il passa­

porto, non stava più nella pelle dalla felicità.

Vedendo la fotografia, Marion scoppiò a ridere.

«Certo, a te non te l’hanno mai fatta la foto a scuola, ve­ro?» la prese in giro Agnes.

«Ci voleva una macchina molto veloce» disse Marion ri­dendo.

Il giorno dopo, Agnes andò a consegnare il passaporto in ambasciata. Le spiegarono che dopo la visita medica le avreb­bero allegato il visto, e da quel momento c’erano novanta giorni di tempo per emigrare ufficialmente in Canada.

 

Novanta giorni. Un bel problema. Lo sapeva dall’inizio che a un certo punto il piano si sarebbe incagliato. Ma aveva sperato che, una volta organizzato tutto, le sarebbe venuta un’idea per sistemare le cose. L’idea non era arrivata. Mancavano cinque giorni alla visita medica, e poi le rima­nevano solo novanta giorni. Poteva farcela, in novanta giorni? Improbabile; anzi, impossibile, a essere proprio onesti. Entrò in depressione. Marion cercava di rincuorarla, ma niente. Agnes era stressata, e vomitava tutte le volte che pensava all’avvicinarsi del novantesimo giorno. Rispondeva male a tutti, e quel mese i dolori delle mestruazioni furono peggio che mai, era piegata in due dal male. Andare a tro­vare Dolly la faceva stare malissimo: starsene lì a scambiare quattro chiacchiere tranquille, cercando disperatamente di non fare mai parola del Canada, di non farle capire che c’era qualcosa che bolliva in pentola… Fra tutti quei piani e il lavoro che aveva da fare, ad Agnes non era mai venuto in mente che magari non passava la visita medica. Non era mai stata male, non era mai andata da un dottore, e si sen­tiva a posto. Ad ogni modo arrivò il giorno della visita me­dica, e non c’era piano che avrebbe potuto prepararla per ciò che stava per scoprire. La visita era destinata a risolvere il suo dilemma canadese una volta per tutte.

Non si aspettava che il dottore fosse un così bell’uomo, perlomeno il primo. Agnes doveva passare per le mani di tre dottori. Un medico generico, uno specialista e un otorino­laringoiatra. Quello bello era il medico generico, il dottor O’Reilly. Prima ci voleva un campione di urine. Poi un’in­fermiera le fece un prelievo. Poi diventò imbarazzante. Le chiesero di spogliarsi e di mettersi una camiciola sottilis­sima. Nella mezzora seguente la pesarono, la sondarono, la strizzarono e la misurarono. A visita finita tirò un sospiro di sollievo. Era esausta.

Per qualche ragione, Agnes si era convinta che l’avrebbero lasciata andare, e poi le avrebbero spedito i risultati a casa. Perciò rimase molto sorpresa quando l’infermiera le chiese di aspettare qualche minuto in sala d’attesa, che poi il dottor O’Reilly l’avrebbe chiamata per darle un responso prelimi­nare. Per ingannare il tempo, si mise a dare un’occhiata a una rivista di cinema. Era piena di foto di grandi attori, Marlon Brando, Grace Kelly, Anna Magnani, che le era piaciuta da morire nella Rosa tatuata. Passò un po’ di tempo, e alla fine la fecero entrare nell’ambulatorio del dottor O’Reilly. Lui era seduto dietro alla scrivania con un gran sorriso.

«Accomodati, Agnes!» la invitò. Lei pensò: E così adesso ci diamo del tu, eh? E del resto cos’altro puoi aspettarti da uno che ti ha appena infilato un dito coperto di gomma su per il retto? Si mise seduta. Lui chiuse la cartella che aveva davanti.

«Be’, sono sicuro che non vedi l’ora di sapere i risultati. A volte questa è la parte che mi piace di meno. Perché mi tocca starmene dietro la scrivania a guardare una persona piena di speranza, e so che devo deluderla. Non mi piace per niente». Si appoggiò con la schiena alla sedia.

Agnes non capiva bene a che gioco giocasse, ma non ne aveva voglia per niente. «Insomma, l’ho passata o no, que­sta cazzo di visita?» gli chiese direttamente. Così, per sgon­fiarlo subito.

Lui si sporse verso di lei. «Sì. L’hai passata, e alla grande, se posso aggiungerlo». Le fece un sorriso.

Agnes gli restituì il sorriso. Si rilassò. «Grazie, dottore. Allora posso andare?» gli chiese, ansiosa di tornare alla ban­carella.

«Ma certo, qui abbiamo finito. Inoltrerò il certificato alla sezione visti. Chiedo scusa per le parti sgradevoli della visita. Ce lo chiede l’ambasciata canadese, andare a vedere anche il pelo nell’uovo eccetera». Si alzò per aprire la porta.

Agnes diventò rossa. «Sì, il pelo nell’uovo». Non le venne da dire nient’altro. Fece per uscire.

«Certo, se ci avessi detto subito che eri incinta avremmo fatto meno fatica» buttò là il dottore mentre Agnes usciva.

Agnes si immobilizzò. Diventò pallida. Con gli occhi spalancati sul dottore, si sentì mancare e crollò sul pavi­mento.

Quando riprese i sensi, Agnes era stesa sul divano del dottore. C’era un’infermiera che la chiamava per nome. C’era un bicchiere d’acqua nella mano dell’infermiera. Il dottore era seduto in fondo al divano con l’aria preoccu­pata.

«Agnes?» le fece. «Sei sveglia, Agnes?» chiese. Agnes lo vedeva come se fosse in fondo a un tunnel. Le si schiarì un po’ la testa, e mandò giù un altro sorso d’acqua.

«Sto bene!» gli disse.

«Agnes, non cambia niente se sei incinta. Il visto te lo danno lo stesso». Il dottore cercava di rassicurarla.

«Non cambia niente?» gli chiese Agnes. «E allora perché non lo fai tu, ’sto cazzo di bambino? Cambia eccome, in­vece!» urlò.