34.

Padre Pius ci aveva visto giusto. Non aveva chiuso occhio. Aveva pregato un po’ e fumato moltissimo, come si notava dal portacenere ormai traboccante. Fece per tirare fuori l’ennesima sigaretta dal pacchetto. Vuoto. Schiacciò il pac­chetto e cercò di centrare il cestino. Fuori di parecchio. Pa­dre Pius decise per un altro tentativo. L’ultimo tentativo di farla ragionare. Si mise la giacca, scese senza far rumore per le scale di quercia e sgattaiolò fuori, chiudendosi la porta alle spalle, piano piano. Se ne scese per la scala esterna di granito, e non aveva ancora fatto cento metri quando in­contrò un tizio grosso e tarchiato.

«Giorno, padre» disse il tizio toccandosi la punta del ber­retto.

«Giorno» disse padre Pius. Il tizio lo oltrepassò e padre Pius si girò per chiamarlo. «Mi scusi!» gli fece.

Il tizio si girò e gli si avvicinò, togliendosi il berretto dal­la testa. «Sì, padre?»

«Posso chiederle una sigaretta?» chiese padre Pius.

«Ma certo, padre». Il tizio infilò una mano nella tasca del giaccone da portuale e ne tirò fuori un pacchetto da venti. Ne tirò fuori tre e le offrì al prete. «Tenga, padre, sarà me­glio che ne prenda almeno un paio, i negozi prima di un’ora non aprono». Il tizio a quel punto tirò fuori dei fiammiferi e ne accese uno, tenendolo fra le mani a coppa per fare ac­cendere il prete. Mentre il prete accendeva, il tizio lo guar­dava fisso. «Ci conosciamo?» gli chiese.

«Be’, lei è di questa parrocchia?» rispose padre Pius, con un’altra domanda.

«Sì, ma mi scusi se glielo dico, padre, non frequento un granché, se mi capisce. Voglio dire, ci siamo mai visti da qualche altra parte?» chiese il tizio, dando un’altra bella guardata alla faccia del prete.

«Ne dubito» rispose il prete. Diede un tiro alla sigaretta e fece uscire un gran sbuffo di fumo.

Il tizio si rimise il berretto. «Bene, allora sarà meglio che vada. C’è gente che gli tocca lavorare per vivere». E se ne andò. Padre Pius si girò a guardarlo. «P.J. Williams, se la memoria non mi inganna» disse fra sé e sé, e poi se ne andò anche lui, ma in direzione opposta. Quando arrivò davanti a casa di Agnes, padre Pius si era più o meno preparato il discorso finale. Fece un respiro profondo ed entrò nel pa­lazzo. Dentro non volava una mosca, per cui cercò di salire le scale facendo meno baccano possibile. Arrivò davanti alla porta, e stava per bussare quando sentì uno scoppio di risa da dentro l’appartamento. Il pugno chiuso gli si arrestò a pochi centimetri dalla porta, e padre Pius si fermò ad ascol­tare. C’era qualcuno che faceva la lotta. Poi il silenzio: be’, si sentiva il fiatone. Quando udì le prime parole, riconobbe le voci di Agnes e Marion.

«Cristo, mi sposo» disse a bassa voce Agnes.

«Eh sì» rispose l’amica.

«Con quel vestito bianco». La voce di Agnes era deter­minata.

«Ma prima…» Adesso era Marion che parlava. Poi dis­sero un nome all’unisono.

«Dolly!»

Qualche secondo dopo, padre Pius era di nuovo in strada, e sulla via di casa. Non aveva il coraggio. Gli ci vo­leva qualche altra sigaretta.

 

Dolly venne rilasciata alle nove e mezzo di quel mattino per il suo permesso di due giorni. Dalla prigione prese un autobus per Dublino, che doveva arrivare a Busaras, l’affol­lata stazione degli autobus del centro, alle undici e quaran­tacinque.

L’autobus arrivò spaccando il secondo. Agnes e Marion erano lì alla fermata. Nella borsa di Agnes c’era la busta gialla su cui dormiva da giorni. Le due ragazze guardavano i passeggeri in uscita.

Quando Dolly comparve sulla soglia, gridarono entrambe il suo nome: «Dolly!» Le corsero incontro. Si abbracciarono tutte e tre, e ridevano e piangevano insieme.

«Dai, andiamo al bar a farci una tazza di tè e a fumarci una sigaretta» propose Agnes.

Marion era poco convinta. «Agnes, facciamo tardi» la avvisò.

«Non ti preoccupare, che abbiamo tempo. Dai, an­diamo!»

Andarono a prendersi un tè.

«Cosa dite, che non c’è tempo? Il matrimonio è fra quat­tro ore e un quarto» disse Dolly.

Marion si guardò intorno sospettosa. Agnes afferrò Dolly per le spalle e la guardò in faccia. «Dolly, tu non ci vieni al matrimonio». Dolly aggrottò la fronte, confusa. «E in quel posto non ci torni più, capito?» Questo lo disse fra i denti.

Dolly fece di no con la testa. «Sei pazza, Agnes. Quelli mi vengono a prendere. Anche se mi nascondo, non ti preoccu­pare che mi trovano; no, io torno dentro». Dolly aveva paura. Paura di pensare che potesse esserci una via di fuga.

«No che non ti trovano, dove stai per andare. Vieni, che ci beviamo un tè e ti spiego tutto». Trovarono un tavolo, e non dissero più nulla finché non arrivò il cameriere con le tazze. A questo punto, Agnes tirò fuori la busta gialla. La prima cosa che estrasse fu il passaporto. Lo passò a Dolly dall’altra parte del tavolo. Dolly lo aprì e rimase stupefatta. Il nome era Agnes Reddin, ma la foto era di Dolly. L’ultima della scuola.

«Come hai fatto?» Era ancora scioccata.

«È stato facile. Guarda qui!» disse Agnes mentre scorreva le pagine del passaporto per trovare il visto di residenza in Canada. «Te ne vai in Canada» annunciò.

«Quando?» chiese Dolly. Marion e Agnes diedero un’oc­chiata all’orologio da muro.

«Fra tre ore» disse Agnes sorridendo. Poi tirò fuori un bi­glietto aereo. E una mazzetta di dollari canadesi.

«Ci sono trecento dollari; come inizio dovrebbero basta­re. Stammi a sentire: quando arrivi in Canada, vai subito allo sportello per nuovi residenti dell’aeroporto di Toronto. Loro ti troveranno una stanza e ti presenteranno una per­sona che ti aiuterà a trovare un lavoro. È tutto scritto in questa lettera dell’ambasciata, puoi leggertela in aereo». Agnes rimise tutto dentro la busta. Era bello sapere che il suo piano aveva funzionato. Dolly si mise a piangere. Ma­rion si alzò immediatamente.

«Vado a farmi un giretto». Lasciò sole le due sorelle. Quando Marion fu uscita, Agnes mise le mani su quelle di Dolly.

«Andrà tutto bene. Una nuova vita, un posto nuovo, gente nuova, e ricominci da capo» le disse.

Dolly fece il gesto di darle la busta. «Ma questo è il tuo so­gno. È sempre stato il tuo sogno!» disse fra i singhiozzi.

«Io non ci posso andare, Dolly. C’è la mamma, c’è Rosso, c’è il bambino, la bancarella, c’è un milione di mo­tivi. Ma tu sì che puoi. E di motivi te ne basta uno… la li­bertà! Sì, era il mio sogno, ma anch’io non resto a mani vuote. Vivilo tu! Per favore, Dolly, vivi tu il mio sogno an­che per me». Agnes adesso faceva fatica a parlare.

«Ti voglio bene, Agnes» disse Dolly.

«E allora vai, vai in Canada, perché te lo giuro su Dio, Dolly Reddin, se torni in quel posto mi scoppia il cuore di sicuro». Agnes era serissima.

«Va bene» disse Dolly.

«Grazie, Dolly. E anch’io ti voglio bene». Agnes sorrise. Marion si ripresentò al tavolo.

«Alzatevi, voi due, che l’autobus per l’aeroporto parte fra tre minuti. Ah, Dolly. Tieni» disse Marion passandole una valigia.

«Che cos’è?» chiese Agnes.

«Roba» rispose Marion.

«Che genere di roba?» Agnes non ci aveva pensato, alla valigia.

«Vestiti, mutande, trucco, roba, hai presente? È da quan­do me l’hai detto che metto insieme delle cose. Non può mi­ca arrivare in Canada senza roba».

L’altoparlante annunciò la partenza imminente dell’au­tobus espresso per l’aeroporto. La fecero salire quasi a forza. L’autobus fece subito marcia indietro. Agnes si mise a cor­rere salutando con la mano Dolly, che ormai piangeva a di­rotto ma si sforzava di sorridere. Poi Dolly sparì. Agnes tor­nò da Marion a passo normale, asciugandosi le lacrime dal­la faccia.

«Sembravi un’idiota del cazzo che corre dietro a un au­tobus» le disse Marion.

«Sta’ zitta, Marion» le rispose Agnes.

«Okay» fu la solita risposta. Si presero per mano e si avvia­rono verso casa.