Prologo

Il Jarro, Dublino, Irlanda

 

Il quartiere di St Jarlath si trova nella zona nordorientale del centro di Dublino. Si estende lungo la direttrice nord-sud dalle rive del fiume Liffey a Summerhill, e da Fairview Park, sulla costa est, fino a Gardiner Street a ovest, a pochi passi dall’arteria principale della città, O’Connell Street. Ma il cuore pulsante del quartiere è la manciata di case po­polari raccolta intorno alla chiesa di St Jarlath. Questa pic­cola zona al centro del quartiere è nota a tutti i suoi abitanti come il Jarro.

Se c’è una cosa che potrebbe legare insieme i ricordi delle migliaia e migliaia di persone nate, cresciute e morte di fame nel Jarro, è senza dubbio il rumore. Nel corso degli anni sono cambiati i tipi e le fonti di rumore, ma il livello è sempre ri­masto lo stesso.

Il rumore del Jarro si costituisce di tre strati. Il rumore di fondo è una sinfonia di mezzi di trasporto. Una volta era solo il clop clop degli zoccoli dei cavalli da tiro e il basso rim­bombo dei carrettini di ogni forma e grandezza che pialla­vano l’acciottolato in tutte le direzioni. Il rumore di mezzo è da sempre un rumore di bambini. Urla, pianti, giochi, calci, risate di bambini. Nel Jarro ci sono quattro bambini per ogni adulto. Il suono che producono i bambini si posa su tutto come una coperta. Eppure, come in una colonia di leoni marini, una mamma di Dublino riesce a sentire “uno dei suoi” da due isolati di distanza. E, grazie a questo ta­lento, eccoci arrivati al rumore in primo piano: la voce della donna di Dublino. La voce della donna di Dublino è in grado di perforare una porta d’acciaio da venti metri. Le donne del Jarro si confidano i dettagli più intimi della loro vita, o meglio ancora della vita di qualcun altro, in conver­sazioni che si tengono da un lato all’altro della strada, da fi­nestra a finestra, a un volume assordante e senza sforzo ap­parente. Queste conversazioni, o questi pettegolezzi, non avrebbero senso per uno che viene da fuori, ma ce l’hanno per queste donne dure e lavoratrici, ed è ciò che conta. Le loro voci sovrastano i rumori della strada e le urla dei bam­bini.

«Hai presente quella ragazzina, la figlia di O’Brien? L’ha mollata il ragazzo» dice una a un’altra.

«Ho visto, ho visto, ma cos’è successo?» replica l’altra.

«Dice che non la sposa, lui, una che non è vergine» le spie­ga la prima. Alla spiegazione fa seguito un breve silenzio.

«È vergine lei?» La domanda arriva sotto forma di urlo.

«No, ancora no» annuncia la prima, con tono autorevole. La cosa incredibile, visto che la conversazione si tiene da fi­nestra a finestra, a suon di urli, è che se si unisse una terza voce le due le direbbero di farsi gli affari suoi.

Ecco: questi sono i suoni del Jarro, una zona popolare a nord di Dublino piena zeppa di operai e disoccupati con le loro famiglie numerose. Gli edifici a quattro piani di mattoni rossi, un tempo regali e grandiosi, sono ormai vecchi e fati­scenti, umidi e tetri. Le strade sono sporche e buie, avvolte in un sudario di fumo per via delle migliaia di fuochi di torba

o carbonella accesi nelle case. Eppure, il Jarro è ben più di un’accozzaglia di strade e case. Perché in mezzo al fumo ci sono canzoni e musica. In questi edifici c’è una comunità vera. Una comunità che condivide quasi tutto. Ogni giorno, in queste strade, ci sono ragazzi che sognano di diventare mi­lionari e ragazze che sognano di sposare principi azzurri (non del Jarro). Fra i vicoli stretti, umidi e fumosi del Jarro abitano i sogni di cinquemila persone. E le risate. Alla minima pro­vocazione, si ride. E la magia. Non sarà roba da polvere di stelle, da testa fra le nuvole, da fate in fondo al giardino, ma credetemi, nel Jarro ce n’è eccome, di magia.

 

Il Jarro, Dublino, 17 luglio 1954

 

Quella mattina, alle cinque e un quarto, un sole rosso san­gue fece capolino sopra la cupola di rame della Dogana. La splendida alba di luglio fece filtrare un raggio di luce am­brata dalla finestra della camera da letto di Agnes Reddin. Mattina. Si era fatto giorno. Non un giorno qualunque, ma il giorno. Quel giorno, alle quattro del pomeriggio, Agnes Reddin doveva percorrere i pochi metri che la sepa­ravano dalla chiesa di St Jarlath. Sarebbe entrata in chiesa da “ragazza” di diciannove anni, per poi tornare sul sagrato, si spera non più di una mezzora più tardi, da donna. Da quel giorno in poi l’avrebbero chiamata tutti Mrs Agnes Browne.

La luce del sole si arrampicò lenta sul letto di Agnes, fino a trovare il suo viso bello, giovane e sorridente. Agnes era sveglia da un po’. Se ne stava seduta sul letto, con la schiena dritta. A pensare, come capita in giornate così fauste. Al suo fianco, quella mattina, dormiva la sua migliore amica non­ché damigella d’onore, Marion Monks. Era da un po’ che non era più damigella, Marion, e da un’oretta a quella parte il suo contegno era tutt’altro che onorevole. Perché le me­ditazioni di Agnes, da un’oretta a quella parte, erano pun­teggiate dal ciclo regolare di rantoli, grugniti e scoregge prodotto dall’amica addormentata. Agnes sorrise alla vista della figura minuscola e rannicchiata, e sorridendo si tirò addosso le coperte, cercando di ripararsi dal tututututum le­tale della scoreggia che si annunciava sempre più immi­nente. Puntuale, la scoreggia arrivò. Marion sorrise, si diede una stropicciata al naso e, con un rantolo, tornò a russare a ritmo regolare.

Agnes e Marion erano diverse come il giorno e la notte. Agnes, per sua fortuna, aveva ereditato la pelle scura e i ca­pelli corvini del padre e la figura snella della madre, una combinazione notevole. Marion, invece, era alta non più di un metro e quaranta, e fatta a barilotto. Aveva la faccia tonda, due forellini grigi al posto degli occhi, e tre grandi nei marroni sul mento. Ognuno di questi nei aveva il suo ciuffetto di pelo, e quando Marion sorrideva, cosa che ac­cadeva spesso, i nei si univano a formare una barbetta. Le due ragazze erano amiche fin dall’infanzia: due vite intrec­ciate e legate strette come funi da marinaio.

Agnes sgattaiolò fuori dal letto per non svegliare Ma­rion: stare a letto dopo le cinque del mattino era un lusso per lei. A quell’ora, normalmente, le due ragazze erano già in piedi. Anzi, a quell’ora erano già a Green Street, al mer­cato all’ingrosso di frutta e verdura, a ordinare la merce da vendere sulla bancarella. Ma non quel giorno. Agnes uscì dalla camera senza fare rumore.

L’altra camera da letto era occupata dalla madre di Agnes, Connie, che in quel momento era seduta con la schiena dritta, nella stessa posizione appena abbandonata dalla figlia. Lei non si era svegliata alle cinque del mattino. Non aveva proprio chiuso occhio. Era rimasta lì in quella posizione, sve­glia. A pensare! Come capita in giornate così fauste, all’alba delle nozze. Ma se la figlia, Agnes, pensava al futuro, i pen­sieri della madre erano profondamente radicati nel passato, e così la sua mente. Anche se aveva solo cinquantasette anni, la madre di Agnes, Connie, ne dimostrava una settantina. La demenza senile precoce e le altre malattie avevano lasciato il segno, e i ruoli si erano invertiti da tempo: Agnes faceva da madre a sua madre. La demenza senile andava e veniva. Ogni tanto i pensieri di sua madre tornavano chiari e razionali, e Agnes rivedeva la donna intelligente di un tempo. Ma in ge­nere Connie era da qualche altra parte, un po’ più vicina a Dio che a noi poveri mortali. Certe volte erano lampi, un an­dirivieni così rapido che solo Agnes notava qualcosa. Agnes rimaneva convinta che tutto questo fosse dovuto soprattutto al trauma per la morte di suo padre. Perché con tutti i difetti che aveva, ed erano parecchi, Bosco Reddin era stato molto amato da sua moglie.

Passando davanti alla camera della madre, Agnes si fermò ad ascoltare. Sua madre cantava. Piano piano, ma cantava. Agnes riconobbe la canzone. «I could show the world how to smile, make it seem happy, just for a while, I could turn the gray skies to blue, if I had you». Era la canzone di suo padre. La cantava quando spalancava la porta di casa, la sera tardi, ubriaco. Quando sapeva di essere nei guai. Non succedeva spesso che suo padre si ubriacasse. Ma quando era sbronzo cantava sempre questa canzone alle sue «tre belle ragazze». Agnes e la sorella minore, Dolly, erano ancora piccole: di­ventavano rosse e si trattenevano per non ridere. La mamma gli dava dello scemo ubriacone e faceva finta di arrabbiarsi. Forse all’inizio era arrabbiata sul serio, ma lui andava avanti a cantare finché lei non gli faceva un sorriso.

Agnes si toccò la lacrima con il dorso della mano. Andò in sala. Anche se era luglio, e fuori c’era il sole, la sala era gelida, perciò Agnes decise di accendere il fuoco per scal­darla un po’. Si mise la vestaglia, afferrò il secchio e uscì per andare a prendere il carbone nella buca della cantina.

Poco dopo il fuoco aveva già preso, e la sala era calda. Agnes aprì il rubinetto e trascinò i tre pentoloni in cui scal­dare l’acqua per fare il bagno. Lasciando il primo pentolone a riempirsi lentamente sotto il getto d’acqua, Agnes tornò in camera.

«Marion» disse dolcemente per svegliare la sua damigella d’onore. «Datti una mossa, dai, che abbiamo un sacco di co­se da fare».

«Ci sono, ci sono» rispose Marion.

«No che non ci sei. Dai, svegliati, Marion». Agnes si mise ai piedi del letto e fece il solletico ai piedi di Marion. L’amica saltò su di scatto.

«Togliti dai coglioni o ti ammazzo».

«Alzati, allora!» Agnes cominciava a irritarsi un pochino.

«Sono alzata. Vai via. Vai a mettere su l’acqua». Marion si alzò a sedere. Sembrava il Titanic colato a picco da un bel po’.

Agnes sollevò l’ultimo dei tre pentoloni pieni d’acqua e lo appoggiò sul fornello. Si asciugò le mani con lo strofi­naccio e accese un fiammifero. Girando una dopo l’altra le manopole, infilò sotto a ogni pentolone un fiammifero ac­ceso, e i getti di gas presero vita.

«Ma che cazzo cuoci, a quest’ora del mattino?» chiese Marion, intontita. Agnes fece un salto.

«Cristo, Marion, a momenti mi viene un infarto».

«Che ore sono?» chiese Marion, mentre si sedeva e si in­filava una pantofola di tela.

«Le otto e mezzo» rispose Agnes continuando a darsi da fare.

«Cosa? Le otto e mezzo? Ma che cazzo, non mi sono sve­gliata alle otto e mezzo neanche per il mio, di matrimonio!» Marion, che ricordava di essere andata a letto alle quattro meno un quarto, era sbigottita. Agnes si mise a ridere.

«Ma sta’ un po’ zitta, va’, e parla bene. Mia mamma è sveglia» la sgridò Agnes.

«Perché, se ne accorge? Ma se sarà lì che violenta Napo­leone». Marion si infilò l’altra ciabatta.

«Dai, Marion, sta’ zitta. Non dire cattiverie» provò ad ammonirla Agnes, ma le veniva un po’ da ridere. Mandò giù un sorso di tè. Marion invece si rivolse alla porta della camera di sua mamma.

«Coraggio, Mrs Reddin, glielo stacchi, quell’arnese!» Scoppiarono a ridere tutte e due.

Ad Agnes, per il gran ridere, andò di traverso il tè. Ap­poggiò a fatica la teiera, e rideva e sputacchiava tanto che le usciva del tè dalle narici. Marion a questo punto rise ancora più forte, si buttò sul pavimento e si mise a contorcersi fra i gemiti.

«Dai, Bonaparte, fa’ il bravo… fammi vedere le palle di cannone».

Agnes era piegata in due per le risate. Si buttò addosso all’amica, per cercare di metterle una mano davanti alla bocca. Concedendosi una replica dei giochi della sera prima, le due ragazze fecero la lotta sul pavimento per tre minuti buoni. Alla fine erano stese una di fianco all’altra, sfiatate, esauste. A pancia sopra. Agnes prese la mano di Marion.

«Cristo, mi sposo» disse a bassa voce Agnes.

«Eh sì» rispose l’amica.

Le due teste si girarono verso l’abito nuziale appeso alla porta.

«Ti ricordi l’ultima volta che ti sei messa un vestito bianco?» le chiese Marion. Si scambiarono un sorriso d’in­tesa e dissero contemporaneamente: «La prima comu­nione». Si rimisero a ridere fino alle lacrime.

«Ti ricordi?» chiese Marion.

«E chi se la scorda…»

 

Era il giorno in cui erano diventate amiche, per sempre.