Capitolo I

Le vie del Signore

Quando De Vincenzi si svegliò, dopo neppure tre ore di sonno, c’era il sole.

Entrava dalla finestra, che Antonietta aveva aperta. Un sole già caldo di giugno.

– C’è il sole! – esclamò il giovane con lieto stupore, e scese dal letto per andare alla finestra.

– Sì, c’è il sole, figliuolo mio; ma lei non stia così, in pigiama all’aria aperta. Le strade sono ancora tutte bagnate!

Gli alberi del Parco gocciolavano. L’aria era netta, tersa.

Dietro di lui, la vecchia gli toccava la spalla:

– Venga... il bagno è pronto.

Squillò il campanello del telefono vicino al letto.

– Ah! Già... – fece De Vincenzi, andando all’apparecchio.

Un impermeabile rosso, una borsetta con la cerniera di rubini e brillanti, un ombrellino da donna... E quel russo, che sapeva resistere per sette ore a un interrogatorio condotto con metodi da inquisizione!

A telefonare era Sani.

– De Vincenzi, scusami! Ti ho chiamato, perché il Questore ti vuole. Ho saputo adesso da Cruni tutto quello che è accaduto ieri sera, dopo che sono andato via io... Ma ci sono novità... Hanno trovato un cadavere... laggiù a San Remo...

– Il cadavere della donna! – disse lui e si sentì alle orecchie la voce di Ivan Kiergine: «La ritroverete!... Oh! Ritrovatela!».

– Di una donna?... Non credo. Il Questore ha parlato di un uomo...

– Sei sicuro?

– Bene. Non so!... Ma non direi che lui abbia accennato a una donna...

– Vengo!

Si vestì in fretta. Gettò nella valigia biancheria, oggetti da toletta, due o tre volumi – quelli nuovi che aveva pronti Le Rouge et le noir di Stendhal, che voleva rileggere per la terza volta – chiuse la valigia.

– Manderò a prenderla.

Depose sul tavolo un foglio da cento.

– Antonietta, posso star lontano anche una settimana...

– Figliuolo mio! – disse quella, allargando le braccia.

Lo guardava con tenerezza trepida.

– Non si strapazzi!

Si batté la palma sulla fronte, trotterellò a un mobile, prese una scatoletta, tornò verso di lui.

– La sua medicina!... Se le viene il mal di capo!... La metta nella valigia.

– Sì... Metticela tu... Grazie...

Dopo dieci minuti era a San Fedele. Aveva preso un tassì. Nessuno glielo avrebbe rimborsato. Ma la piccola rendita, che gli aveva lasciata suo padre, De Vincenzi la spendeva tutta così pel servizio, e in libri.

Prima di salire dal Questore, andò nel corpo di guardia.

– Che fa quello lì? – e indicò la porta chiusa della «guardina».

Cruni non c’era più, perché alle otto aveva terminato il servizio.

Gli rispose un altro brigadiere.

– Niente!... Cruni m’ha lasciato la consegna. L’uomo, lì dentro, non s’è mosso.

Il commissario si avvicinò alla porta, guardò dallo sportellino.

Ivan Kiergine stava sempre allo stesso posto, seduto sul tavolaccio, con le ginocchia serrate contro il petto, la testa sulle ginocchia. Si vedeva la luminosità chiara dei suoi capelli troppo biondi... Doveva essersi addormentato. E non s’era neppure disteso!...

Il Questore accolse De Vincenzi con un lungo sguardo concentrato, in cui balenava una sottile ironia quasi comica.

Era, come sempre, lisciato, azzimato, perfetto. Un grande garofano rosso cupo alla bottoniera dell’abito chiaro.

Davanti a sé, sul tavolo, aveva alcuni dispacci e tra le mani paffutelle, morbide, dalle unghie lucenti, un foglietto bianco, che il commissario riconobbe per un modulo da fonogrammi.

– Complicazioni, amico mio! A San Remo non si contentano di un cadavere di donna, che non riescono a trovare... Ne hanno tirato fuori un altro!... Di uomo, questo, e ben visibile e tangibile.

– Ma che c’entra quest’altro cadavere con la coppia Kiergine-Garat? Il russo non avrà mica fatto una strage!

– Eh! No. Lui, no. Anche perché il cadavere lo hanno trovato ieri sera, dopo che lui era partito. Ma il morto è un altro straniero ed era amico di quei due... e lo hanno rinvenuto in una camera dell’Albergo Europa, proprio vicina a quella che occupavano Kiergine e la sua amica.

De Vincenzi si strinse nelle spalle.

– Ha l’aria d’infischiarsene, lei! Ma ha torto! Anche quest’altro morto le capita addosso, amico mio!

– A me? San Remo è lontana.

– Non tanto! Lei ci arriverà in cinque o sei ore!

– Debbo andarvi proprio io?

– La fama, caro mio! La fama! Ho qui l’ordine di Roma di mandar lei.

– Bene – fece il commissario.

Lui sapeva che avrebbe dovuto vivere la tragedia di quel russo. Lo aveva sentito subito.

– A Roma danno grande importanza a questo affare. Lo credono un affare di spionaggio...

– Sì.

– Anche lei lo crede?

– No!

– Oh! Allora?

– Ho detto sì, perché la prima supposizione non può non essere quella. Ma io penso sia anche più complicato d’un caso di spionaggio. Il dramma dev’essere un altro.

– E quel giovanotto? Lei lo ha interrogato, quindi deve essersi fatta un’idea...

– Impossibile farsi un’idea con un tipo di quel genere. Siamo nel fantastico! È allucinante.

– Non mi vuole dire altro? – chiese il Questore con ironia. – Un caso proprio adatto al suo metodo, quindi! Avrà quanti indizi psicologici vuole!

De Vincenzi non rilevò l’ironia. C’era abituato. Ma il Questore gli voleva bene e lo apprezzava. Dopo il caso Magni, aveva preso l’abitudine di lasciargli le mani libere. «Otto giorni le bastano?» gli diceva, sorridendo, perché per trovare l’assassino del senatore Magni e di Norina Santini lui aveva impiegato proprio otto giorni, giusti giusti!

– Che cosa vuole che le dica? Un uomo non reca mai con sé un mistero, ma sempre un problema. Di questo qui mi mancano ancora i termini.

– Già – fece il Questore, e il lampo degli occhi, più che ironico, gli divenne francamente gioioso. – Un delitto intelligente, allora.

– Un delitto? Se lei parla di quel russo, che abbiamo preso, io non so neppure se si tratti davvero di un delitto. Dov’è il cadavere della donna? Il sangue nel canotto può essere di chiunque. E quest’uomo non mi sembra tanto imbecille da avere ucciso la sua amante e d’esser salito poi tranquillamente sul primo treno con una valigetta gialla in mano... In ogni caso, da San Remo avrebbe preso il treno per Nizza... Il passaporto lo aveva...

– Si vede che desiderava venirsi a mettere nelle sue mani! – celiò il Questore, che quella mattina era di buon umore. – Ma ascolti questa roba. Vado per ordine, come li ho ricevuti.

Prese i telegrammi, erano due, li scorse, poi ne lesse il primo:

«Paulette Garat sempre introvabile. Interrogate Kiergine circa sue gite motoscafo, che potrebbero avere scopi loschi. Forse trattasi vasta associazione spionaggio o commercio stupefacenti».

– Naturalmente i dispacci erano cifrati. Eccole il secondo: «Kiergine fece ieri grossa vincita Casino. Confermiamo precedente comunicazione. Abbiamo sollecitato istruzioni Autorità superiore. Fate tradurre uomo fermato questa città». Le istruzioni di Roma sono venute e mi ordinano di mandar lei a San Remo.

– E il cadavere? – chiese De Vincenzi.

– Eccoglielo! – e il Questore prese il fonogramma.

– È arrivato un’ora fa. «Rinvenuto cadavere giovane uomo nella camera Albergo Europa adiacente a quella occupata dalla coppia Kiergine-Garat. Scoperta fatta ieri sera ore 21. Da documenti rinvenuti sembra trattarsi Eduard Letang nazionalità francese, anni 25, senza professione. Frequentava assiduamente Kiergine-Garat. Attendiamo arrivo commissario De Vincenzi, di cui comunicazione ricevuta da Roma».

Il Questore aveva finito di leggere e fissava il commissario.

– Che ne dice?

– Tre punti: gite motoscafo, grossa vincita, cadavere Eduard Letang. Non sono molto loquaci quelli di San Remo, ma l’essenziale ce lo comunicano.

Levò dalla tasca il portafogli del russo, che aveva preso la sera prima al corpo di guardia, e ne estrasse il denaro. Un pacchetto di biglietti di banca azzurri e rossastri.

– È il portafogli del russo. Non conteneva che questo denaro.

Contò i biglietti.

– Quattromiladuecento lire italiane e tremilacinquecento franchi francesi. Se questa è la vincita, non può dirsi grossa.

Rimise i biglietti nel portafogli e lo porse al Questore.

– Lo tenga lei. Dovrà consegnarlo a quelli di San Remo. Io non c’entro.

De Vincenzi si mise la busta di pelle nera nella tasca posteriore dei pantaloni.

– Le sue istruzioni, commendatore?

– Nessuna. Se la sbrighi meglio che può.

– Mi permette di condurre il brigadiere Cruni con me?

– Naturalmente. Per la traduzione del «fermato» le occorre un uomo.

– Grazie.

– Torni presto.

De Vincenzi fece un gesto.

– Del resto, l’aria di mare le farà bene!

Decisamente il Questore era contento. Nessuna responsabilità e un proprio dipendente messo in vista.

– Buon viaggio!

De Vincenzi tornò nel suo ufficio.

Sani lo accolse con quel rispetto affettuoso ch’era la caratteristica della loro colleganza.

– Parti?

– Come lo sai?

– Me lo ha detto il Questore.

– Sì.

– Verrei con te tanto volentieri!...

– Non dirlo! Ho paura che questa volta dovrò far perdere le illusioni che vi siete fatte sulle mie capacità!

Consultò un orario ferroviario. C’era un direttissimo alle 11 e 55. Lo avrebbe preso. Avrebbe fatto viaggiare in direttissimo anche il suo prigioniero.

Suonò e diede ordine di fargli venire Cruni, senza pensare che il brigadiere doveva trovarsi a casa a dormire.

– È andato via alle otto, cavaliere.

– Mandalo a svegliare. Che venga immediatamente.

Una volta tanto, era lui che mandava a svegliare il brigadiere!

– Conducimi qui l’arrestato, che si trova in «guardina».

Ivan Kiergine arrivò con la sua aria sognante. Ma adesso recava sul volto e sulla persona le tracce della notte insonne, trascorsa sul tavolaccio. Aveva gli occhi leggermente gonfi, i segni agli angoli della bocca gli si erano fatti più profondi, il colore olivastro della pelle gli si era schiarito, illividito.

Senza colletto, la camicia aperta, i pantaloni leggermente cadenti, le scarpe private delle stringhe, riusciva ancora ad avere un aspetto elegante. Distinto lo era comunque.

– Partiremo fra un’ora per San Remo, Ivan Kiergine.

Quegli fece un gesto di rassegnazione.

– Non volete dirmi perché avete ucciso la vostra amante?

Batté le palpebre, le labbra gli si contrassero in una smorfia, che era di disgusto.

Perché lo avrei fatto?

Tenace. Non una sillaba di più. Anche il tono era il medesimo. Soltanto la voce suonava un poco arrocchita. S’era fatta gutturale. Rivelava l’accento.

– Badate, Kiergine! La cosa è assai più grave di quanto voi non crediate, anche se non si è ritrovato il cadavere di Paulette Garat.

– Ritroverete lei, non il suo cadavere.

La sua era una convinzione profonda. Lui doveva saper molte cose. Se avesse parlato, il compito di De Vincenzi sarebbe stato assai più facile.

– Perché non volete dire quel che sapete?

– Che cosa so, io?

Il commissario ebbe un gesto d’impazienza. Lo sguardo gli si fece duro, d’acciaio. Ma la voce non s’alzò neppure di una frazione di tono.

– Ivan Kiergine, verrò io laggiù con voi. Condurrò io l’inchiesta. Vi stringerò in un cerchio di ferro. Vi martellerò senza tregua, finché parlerete.

Chinò la testa.

– Ce sont toujours les déguenilles que l’on rosse!

Si era espresso in francese, con purezza. La lingua doveva essergli familiare. Dunque, lui si considerava uno straccione, un rottame! Parlava in senso morale oppure era ridotto a chi sa quale abiezione, sotto la sua apparenza? Quale era il suo dramma?

De Vincenzi ebbe la sensazione di una vita di tormento. Ma quello era russo. Non si credeva un perseguitato, un martoriato, forse perché gioiva d’esserlo, per un sadismo di razza?

– Che volete dire?

– Molte cose. Le saprete, le intuirete, vi si riveleranno...

Aveva detto più di quanto avrebbe voluto e s’interruppe.

– Se poteste non farle nulla di male, quando la ritroverete!

– E il sangue nel canotto?

Ebbe un lampo di terrore nello sguardo.

Le vie che sceglie il Signore per mettere alla prova le anime umane sono infinite!

Ecco, ecco, un russo! Parlava ad aforismi.

– Quel sangue non ce lo ha messo il Signore nel canotto!

De Vincenzi cercava di reagire, anche a se stesso. Conosceva troppo la letteratura russa, per non sentire il fascino del problema d’anima che quell’uomo gli presentava.

– Conoscete Eduard Letang?

Il colpo era stato vibrato all’improvviso.

– Lui! – esclamò il giovane, e sembrò perdere per un istante l’impassibilità. – Siete sulle sue tracce?

– Perché dite questo? E se l’avessimo trovato?

De Vincenzi aveva il cervello lucido, pronto a tutti i giuochi d’acrobazia. Cercava di seguire quell’altro per le vie traverse del suo pensiero. Era un giuoco di spilli e di perline. Si trattava d’infilare la perlina al passaggio.

– Non può esser fuggita con lui! Ditemi che Paulette non è andata con lui!

S’era animato. I pomelli gli si erano accesi. Gli occhi gli brillavano. Mosse le dita delle mani con un movimento rapido, come se toccasse invisibili tasti.

– Morto lo abbiamo trovato! Un primo cadavere c’è, Ivan Kiergine. Eduard Letang è stato trovato cadavere nella sua camera dell’Europa, accanto alla vostra!

Gli occhi, adesso, gli si dilatarono. Apparvero immensi.

Ma si riprese subito.

Si nous étions tout à fait forts, nous ne songerions pas à l’amour!

De Vincenzi, questa volta, ebbe un sussulto così forte che con la persona diede un urto al tavolo.

Che cosa voleva dire? E non era una frase sua, quella! De Vincenzi doveva averla letta. Gli era rimasta nelle orecchie. Ma quell’uomo come poteva, in un tale momento, subire la eco di reminiscenze letterarie?

De Vincenzi aveva detto al Questore che gli uomini non recano in sé misteri, ma soltanto problemi. Quella era algebra pura, in ogni caso. Un’equazione metafisica.

Eppure qualcosa aveva dovuto voler dire. Eduard Letang era innamorato forse di Paulette Garat? Ecco! Quello poteva essere il fulcro del dramma o per lo meno un aspetto di esso.

Un dramma passionale, allora? E laggiù a Roma parlavano di spionaggio! E lui aveva pensato a una ignobile impresa di stupefacenti!

Sentì un tremore interno, una specie di palpitazione affrettata. Sarebbe stato il più bel giuoco e il più sottilmente inebriante quell’inchiesta, se fosse stato così. Un dramma d’anime! E De Vincenzi, come il demonio, amava più le anime che i corpi.

Letteratura!

Reagì con violenza. Si alzò.

– Il fatto è uno, Ivan Kiergine! C’è un cadavere. Paulette Garat è scomparsa. Il canotto era insanguinato. Voi avete tentato di fuggire!

Fece una pausa.

L’altro rimaneva immobile. Di nuovo il pensiero sembrava stagnargli nel cervello. L’occhio gli si era spento.

– Verrete con me a San Remo. Vi terrò sempre al mio fianco. Non vi considererò neppure in arresto, fino al momento in cui non avrò conosciuto la verità.

– La verità è atroce e non si confessa!

– Me la confesseranno le cose stesse; gli altri, anche se non vorranno. E voi stesso, anche se non vorrete, per atroce che sia.

Lui si diede un’occhiata all’abito, ai pantaloni, che avevano perduto la piega e mostravano le borse ai ginocchi, si passò una mano sulle guance. Poi sollevò lo sguardo in volto al commissario.

– Dovrò venire a San Remo in questo stato?

C’era una grande afflizione nella sua voce. Si vedeva che le apparenze esteriori del corpo avevano per lui più importanza di ogni tragedia umana.

De Vincenzi lo capì. Volle arrischiare. Forse era l’unico mezzo. Sentì che in quell’attimo gli si presentava il destro di legare a sé quell’uomo con la riconoscenza, di farsene un alleato.

Avrebbe tentato. Sorrise internamente al pensiero della sconvolta meraviglia, che avrebbe fatto balzare il Questore, se avesse assistito alla scena.

– Desidererei fare un bagno! – mormorò il russo, come se chiedesse la cosa più naturale del mondo.

Sarebbe bastata quella richiesta a dimostrare che lui non era stato mai arrestato, che non aveva avuto a che fare mai con la giustizia e con la Polizia.

E se fosse tutta una finzione? Perbacco, però, che capolavoro!

– Ivan Kiergine, voglio avere fiducia in voi.

Suonò il campanello.

Fin quando comparve il piantone, i due uomini rimasero silenziosi. De Vincenzi a un tratto trasse dalla tasca il portafogli del russo e lo gettò sul tavolo, verso Kiergine.

– Prendete. È vostro.

L’altro lo contemplò qualche istante, poi lo prese e se lo mise in tasca, senza aprirlo.

Era comparso il piantone.

– Portate qui tutto quanto è stato tolto a questo signore.

Quando vide sul tavolo le bretelle, le giarrettiere, il colletto, la cravatta, tutto il resto, il giovane ebbe un impercettibile moto di soddisfazione. Ma fissò subito il portasigarette.

– Posso fumare?

– Riprendetevi tutto – gli disse freddamente il commissario e trasse l’orologio.

– Sono le 10 e noi partiremo alle 11 e 55. Vi do un’ora per recarvi a fare il bagno e per farvi stirare i pantaloni, se volete. Sapete dove andare?

– All’Albergo Diurno. Sono pratico di Milano.

– Bene, andate.

Kiergine prese gli oggetti dal tavolo. Aveva già acceso una sigaretta.

Ebbe un’esitazione.

– Mettetevi il colletto e tutto il resto nella camera accanto.

Ma non era quella la ragione della sua esitazione.

– Non sono più in arresto?

– Ve l’ho detto. Ma se tentate di fuggire, vi riprendono subito.

L’uomo scosse il capo e s’avviò verso la porta.

Lo si sentì muovere nella camera accanto. Sani doveva stare a guardarselo con meraviglia.

– Cruni? – chiese De Vincenzi al piantone, che aveva portato gli oggetti.

– È arrivato.

– Venga subito qui.

Cruni entrò quasi di corsa, muovendosi goffamente sulle gambe troppo corte.

– Debbo partire anch’io?

– Sì. Ma prima ascolta.

Abbassò la voce.

– Seguilo da lontano, senza che lui se ne accorga. Andrà all’Albergo Diurno. Quando lo avrai veduto entrare, parla col direttore, con la cassiera, cerca di sapere se lo conoscono, se è un cliente. Fatti dire i giorni in cui c’è stato.

– Debbo aspettare che esca? Debbo impedirgli di fuggire?

– Naturalmente, ma tornerà da sé. Appena hai saputo qualcosa, vieni a riferirmi.

Cruni uscì. Il russo era già andato via.

De Vincenzi chiamò Sani.

– Se quello non torna fra un’ora, io sono il più grande imbecille che esista sulla terra!