Capitolo II

Nulla è più vivo della morte

Avevano fatto il viaggio in silenzio.

De Vincenzi leggeva e l’altro guardava il paesaggio o diritto davanti a sé.

Cruni, venendo dalla terza classe, s’era mostrato tre o quattro volte sulla porta dello scompartimento e sempre De Vincenzi gli aveva fatto cenno col capo di andarsene.

Avrebbe voluto che il suo compagno parlasse, che esprimesse qualche desiderio, che rivelasse la sua angoscia. Nulla! Anche nel vagone ristorante, seduto di fronte al commissario, non aveva parlato, se non per dire al cameriere che gli desse tè freddo per tutta bevanda.

– Siete astemio?

Aveva annuito col capo.

Un russo astemio! Finché non avesse trovata vodka o acquavite a ventotto! Oppure lo era davvero?

Alle undici aveva varcato la soglia di San Fedele ed era rientrato negli uffici della Squadra Mobile, senza il minimo imbarazzo e senza neppure aver l’aria di aver compiuto un eroismo con quell’andarsi a mettere di nuovo nella gola del lupo.

De Vincenzi, quando lo aveva veduto apparire sulla soglia della stanza, gli aveva detto con la maggiore naturalezza:

– Fra un quarto d’ora andremo alla stazione. Mettetevi a sedere.

– Posso fumare?

E aveva fumato, contemplando nelle spire i suoi pensieri.

In treno, aveva continuato a contemplarli dal finestrino o di fronte a sé sulla parete dello scompartimento.

Era evidente che almeno uno di essi lo martoriava. Quale? La scomparsa della donna? La morte di Eduard Letang? Non certo la propria sorte, a ogni modo. Che lo avessero arrestato, che lo obbligassero ora a tornare a San Remo, la minaccia stessa fattagli dal commissario di non dargli pace, di battere su lui come sopra un ferro riscaldato a calor bianco, non doveva importargli.

Il fatalismo dei russi!

Scesero alla stazione e De Vincenzi, che aveva telegrafato alla Questura di San Remo l’ora dell’arrivo, vide venirsi incontro un collega.

– Il commissario De Vincenzi? Sono il commissario Racheli... Giorgio Racheli...

Parlava con accento spiccatamente meridionale. Era basso, tozzo, solido. Aveva le mani quadrate, con le unghie corte, mani da contadino. Il volto però appariva aperto, gioviale, per quanto i tratti duri, fortemente segnati, la mascella prominente, gli occhi incavati, rivelassero una volontà testarda e chiusa. I capelli grigiastri e le rughe sottili agli angoli degli occhi e della bocca gli facevano dimostrare i quarant’anni passati.

– E così, sei venuto tu! Iddio ti benedica! Io me ne lavo le mani, adesso! Il caso è grave, gravissimo! Nessuno può sapere quali sorprese ci prepari!

Guardò Ivan Kiergine, che si teneva dietro a De Vincenzi con la sua valigetta gialla tra le mani, e Cruni che gli stava al fianco.

– Questo è il russo, eh?!

Gli diede un’occhiata malevola.

– Iddio sa dove ha cacciato il cadavere di quella donna! Perché, vedi, se si scoprisse il cadavere...

De Vincenzi, che non aveva ancora pronunciato una parola, l’interruppe.

– Il brigadiere Cruni mi ha accompagnato. Intendo servirmene per le indagini...

– Ah! – fece Racheli. – Abbiamo qualche buon elemento anche qui...

– Non ne dubito. Ma tu sai che cosa voglia dire l’abitudine...

– Già, già... e come no! Iddio te la mandi buona!

Nominava Dio a tutto spiano.

De Vincenzi si disse che avrebbe cercato di fare da solo. Ma come, se conosceva assai poco la città e niente affatto l’ambiente?

– Vieni dal Questore? È un brav’uomo. Non ci dà alcun fastidio! E quello lì – indicò Kiergine – vuoi che lo porti alle carceri? Darò ordine perché rimanga a tua disposizione, naturalmente.

– No. Il signor Kiergine rimarrà con me in albergo. E anche Cruni lo tengo con me.

– E se ti scappa?

– Oh! – fece De Vincenzi, alzando le spalle.

– Che lusso, però! Hai avuto i fondi da Roma? E già! Quando si tratta di un affare di spionaggio non lesinano! Soltanto a noi contano il centesimo! Ebbene? Che vuoi fare? Per andare alla Questura si sale di qui...

Erano usciti sul marciapiede esterno della stazione, sotto una breve tettoia.

Davanti, un semicerchio di case basse e dietro a esse altre case, con la facciata verso via Vittorio Emanuele, che sale lentamente, traversando la città in tutta la sua lunghezza. Una scalinata per abbreviare. E, a sinistra della stazione, De Vincenzi vide che cominciava quasi subito la lunga passeggiata a mare, tutta palmizi e ville bianche, sino al fondo, contro l’orizzonte azzurro.

Il treno era arrivato alle 17. Da quella parte, a quell’ora, la città appariva poco animata. Sul piazzale della stazione quasi nessuno, oltre i commissionari degli alberghi, i cocchieri in serpa alle loro carrozze a un cavallo, e gli autisti, fermi in crocchio davanti al caffè.

– L’Albergo Europa è qui vicino, credo...

– Eccolo lì – e Racheli indicò un fabbricato giallastro a tre piani, che sovrastava proprio di fronte alla stazione. – Ci si può andare anche senza salire il viale. C’è una scalinata privata.

– Andiamo – disse De Vincenzi, avviandosi.

Cruni veniva dietro di loro, portando la valigia del commissario e il proprio sacco da viaggio. Si guardava attorno.

Salirono la scalinata stretta e ripida, coi gradini di sasso, e raggiunsero un piccolo giardino e poi la veranda.

Il portiere gallonato accorse, attraverso alla saletta di lettura, e dietro lui un uomo grassoccio, rotondo, che sorrideva con ossequio. Guardò i nuovi clienti, riconobbe il commissario Racheli e il sorriso gli si spense sulle labbra.

– Ah! – fece.

Poi vide Ivan Kiergine e trasalì.

Che storia! Un cadavere nel suo albergo, tutto sossopra! E i pochi clienti che aveva stavano per andarsene.

– Il commissario De Vincenzi di Milano vuole una camera per sé... e una per il suo brigadiere – disse Racheli.

– Sì – aggiunse De Vincenzi, fissando l’albergatore. – Tre camere. Una anche per il signor Kiergine...

– Ma il signore ha la sua!... – protestò l’ometto, che s’era ancor più scurito in volto e si toccava i ciondoli d’oro appesi alla catena, sul ventre.

– No. Quella deve rimanere chiusa, per ora.

– E chi paga? Mi farete almeno i buoni di pagamento, no?

– Niente! Pago io – disse subito bruscamente De Vincenzi, a cui l’uomo produceva una sorda irritazione.

Salirono al primo piano. L’albergatore li conduceva.

Giunti sul pianerottolo, davanti all’ascensore e al quadro con le chiavi, Racheli indicò a De Vincenzi una porta chiusa, a destra, al principio del corridoio.

– Lì dentro c’è il cadavere... – annunziò, e con la mano, che aveva nella tasca dei pantaloni, fece le corna.

– Quando lo porterete via? – chiese subito il proprietario dell’albergo. – Si può lasciare un morto...

Il commissario lo interruppe.

– Stia buono, santo Dio! Facciamo quel che dobbiamo fare. E ringrazi ancora, se non le abbiamo fatto chiudere l’albergo!

– E perché lo dovevano chiudere? Che c’entro io!... De Vincenzi s’era fermato nel corridoio di destra.

– Quali sono le camere che volete darci? – disse all’albergatore, e intanto osservava Kiergine.

Il russo era sempre assorto. Rivedere quei luoghi non aveva prodotto in lui il minimo turbamento.

L’albergatore indicò le porte.

– Quella è la camera... ehm... del morto... Il numero 24. L’altra, subito accanto, era occupata dal signor Kiergine e dalla signora... Se le vogliono, ho libere il 26, il 27 e il 28... oppure saliremo ai piani superiori. Ho quante camere vogliono. Tra poco, se continua questa storia, non rimarrà neppure un cane in albergo!

De Vincenzi entrò nella camera 28, che fronteggiava le altre e dava sulla strada. Andò alla finestra e vide il Casino davanti a sé, bianco, alto, coi larghi viali a semicerchio che salivano, lo spiazzo ghiaiato, le aiuole verdi.

Tornò nel corridoio.

– Dia al signor Kiergine e al brigadiere il 26 e il 27...

L’albergatore sceglieva le chiavi, apriva le porte.

Kiergine entrò subito nella sua. Cruni andò a deporre la valigia nella camera di De Vincenzi.

– Bene, mi consegni le chiavi di quelle due camere chiuse e se ne vada.

L’ometto porse le chiavi e si allontanò, scuotendo la testa e borbottando parole incomprensibili. Parlava in dialetto rivierasco.

– Ivan Kiergine, rimanete nella vostra camera. Verrò io da voi.

– Se potessi avere un po’ di biancheria... qualche abito...

– Dopo... – troncò il commissario, e chiuse lui stesso la porta alle spalle del russo. – Tu, Cruni, rimani con me.

Si volse a Racheli, che era rimasto in mezzo al corridoio.

– Il giudice ha messo i suggelli?

– Non ancora. Che vuoi? Sono ventiquattr’ore, è vero, che la scoperta del canotto è stata fatta, ma il cadavere non è stato trovato che ieri sera... E poiché ancora nessuno ci capisce niente...

Nessuno doveva averci capito niente, infatti!

– Neppure sul modo con cui il francese è morto?

– Neppure. Non si tratta di suicidio, perché l’arma nella camera non c’era e poi perché è stato colpito alla schiena. Ma tutto il resto... uhm... mistero!...

De Vincenzi si diresse alla porta della prima camera, l’aprì ed entrò, seguito da Racheli e da Cruni.

Era una angusta cameretta ad un letto, stretta e lunga, dalle pareti chiare. Un letto di legno, un comodino, un armadio a specchio, un piccolo tavolo, due seggiole. In angolo, verso la finestra, il lavabo a muro coi rubinetti nichelati.

II cadavere giaceva sul letto.

– Dove è stato trovato?

– Lì, davanti al tavolo. Stava seduto e appoggiava la testa sul legno. È stato colpito alle spalle con una stilettata diritta e sicura.

– Scriveva, quando è stato colpito? – chiese De Vincenzi, che s’era avvicinato al tavolo e guardava. – Avete toccato nulla qui sopra?

– No! Ti pare? Il primo sopraluogo l’ho fatto io. Doveva stare in procinto di scrivere, evidentemente. Ho trovato la penna stilografica in terra, aperta... Eccola lì...

Sul tavolo c’era il sottomano dell’albergo con la carta asciugante e sopra qualche foglio di carta da lettera con l’intestazione: Hôtel Europa - San Remo.

Il primo foglio recava scritta a penna la data: 2 juin 1930 e due parole: Ma chérie... Poi una macchia. Il colpo di pugnale lo aveva colpito e fatto fermare a quel punto.

Null’altro sul tavolo, se non un pacchetto di sigarette Macedonia incominciato e il portacenere con tre mozziconi. Questo qui fumava le sigarette sino alla fine.

De Vincenzi si diresse verso il letto.

Passando, vide una valigia aperta sul portavaligie di ferro. Dentro biancheria stirata, qualche cravatta. La indicò a Racheli.

– Niente, lì dentro?

– Niente, nella valigia. Abbiamo frugato il corpo e in tasca aveva il portafogli con qualche biglietto di visita, il passaporto... lo vedrai dal Questore... e alcune cartoline illustrate, spedite dalla Francia... Ah, sì, aspetta. Un cartoncino con la roulette, di quelli che distribuiscono al Casino... e un gettone da cento...

– Denaro?

– Sì, qualche migliaio di lire.

De Vincenzi adesso guardava il morto. Cruni s’era fermato sulla porta e la ostruiva completamente col suo corpo largo e quadrato.

Disteso sul letto, colui che in vita portava il nome di Eduard Letang aveva il volto piccolo dall’ovale allungato, che la rigidezza della morte rendeva lucido, duro, d’avorio. Era giovane. Non poteva aver più di venticinque o ventisei anni. I lineamenti erano fini, i capelli neri. La bocca sinuosa, dalle labbra sottili, nella contrazione dell’ultimo spasimo, aveva ancor più accentuata la sua piega di crudeltà fredda. La crudeltà della gioventù, che vive per se stessa e pel piacere, con egoismo determinato e cosciente.

Gli avevano chiuso gli occhi e, sotto le palpebre ceree, essi dovevano celare il loro ultimo segreto.

Quale era? Perché lo avevano ucciso?

Non poteva esser stata che una persona amica, altrimenti avrebbe diffidato, si sarebbe guardate le spalle. Invece, lui s’era messo a scrivere e l’altro lo aveva colpito.

Scriveva a una donna: Ma chérie... Era stata un’altra donna, a colpirlo?

– Da quanto tempo si trovava a San Remo?

– Era arrivato con gli altri due otto giorni fa...

De Vincenzi osservò l’abito, le scarpe. Tessuto fine, taglio elegante; cuoio tenero.

– Avete osservato i vestiti? Avevano l’indicazione del sarto?

Racheli sorrise.

– Lo so! Non lo abbiamo fatto. C’era il passaporto!

– Non importa!

Ma il commissario di San Remo volle dimostrare che anche lui sapeva quelle cose.

– Già! E qui dentro avremmo dovuto far venire subito gli esperti a gettar polvere di zinco sui mobili, a osservare col microscopio, a rilevare le impronte. Una squadra di fotografi!... Dove li pigli, a San Remo, gli esperti?!

De Vincenzi alzò le spalle.

– Non è questo che conta. Ma avete preso i nomi di chi si trovava in albergo? Avete interrogato il personale? Nessuno si è allontanato da San Remo, vero?

– Sì. Fin lì ci siamo arrivati!

Decisamente Racheli era indispettito. Rispondeva di malagrazia, adesso.

Trasse dalla tasca un foglio piegato in quattro e lo porse a De Vincenzi.

– Eccoti i nomi. Tutti costoro sono stati invitati a non lasciare l’albergo per alcun motivo. E li abbiamo sorvegliati, naturalmente. Potrai averli tutti a tua disposizione.

– Grazie – fece De Vincenzi, che s’era messo il foglio in tasca.

Osservò ancora il cadavere. Voleva imprimersene nella memoria la fisionomia. Era un personaggio del dramma, che lui doveva tener presente.

E certo quel volto, anche con gli occhi spenti, immobile, aveva una sua personalità viva ancora.

«Nulla è più vivo della morte», pensò.

Dovette scuotersi. Sentiva lo sguardo ironico di Racheli pesare su di lui e anche Cruni lo guardava con leggera meraviglia.

– Il dottore, che cosa ha detto?

La sua voce suonò stranamente dura e argentina:

– Colpo diretto nel mezzo della regione sottoclavicolare. Il ferro, passando attraverso i muscoli e tagliandoli, ha reciso l’arteria ascellare. Si è prodotto l’aneurisma arterioso. La morte è stata quasi istantanea.

Racheli aveva ripetuto le parole come se le avesse imparate a memoria. Sorrise.

– Come vedi, m’hanno fatto la lezione. Il dottore ha aggiunto che potrà dirne di più, dopo l’autopsia.

– Naturalmente. Ma fatelo portar via!

– Vado a telefonare al Questore che tu sei arrivato e do ordine che lo vengano a prendere.

– Sì, grazie. Di’ al Questore che mi presenterò a lui tra poco. Qui non c’è più nulla da vedere.

Racheli era uscito pel corridoio e lo si sentiva scendere le scale.

– Fermati qui – disse De Vincenzi a Cruni, uscendo. – Quando verranno a prenderlo, fa’ attenzione che non tocchino nulla nella camera. Poi chiudi la porta a chiave e mettiti la chiave in tasca.

– Ho capito, dottore.

Il commissario entrò nella camera numero 25, ch’era quella occupata dal russo e dalla sua amante.

Un grande letto col risvolto del lenzuolo sulla coperta bianca di picchè.

Un vasto armadio a specchi. Una toletta con sopra in mostra il servizio d’argento della donna: le bottiglie di cristallo col tappo d’argento, piatte, a decrescere fino alla più piccola pel profumo, i pettini di tartaruga, le scatolette col coperchio lucente, arabescato.

Un baule chiuso. Tre valigie di pelle di porco. Appesi all’attaccapanni, un mantello da donna azzurro e un altro rosso, un gabardine da uomo, due giacche di cuoio giallo – per le passeggiate in canotto evidentemente – e due altre giacche a righe azzurre e rosse, da tennis.

Sopra uno dei due comodini, a destra del letto, un ritratto di donna in una cornice d’argento.

De Vincenzi vide subito il ritratto.

Avanzò nella camera.

Un odore forte di acqua di colonia e di tabacco lo avvolse. Ma non era questo soltanto. C’era anche un sentore penetrante di donna, un effluvio umano, ben caratterizzato.

Il giovane sentì il turbamento carnale che quell’odore produceva, dandogli alla testa come un vino inebriante.

Forse, il segreto di tutto il dramma stava in quell’odore!

Si avvicinò al ritratto. Lo prese. Lo contemplò. Non era indagine, la sua di quel momento.

La donna appariva seduta. Teneva strette e aderenti una all’altra le gambe fasciate da stivaletti alti fino al polpaccio. La sottana le arrivava al ginocchio. Si vedevano le ginocchia e il principio del polpaccio. Poi tutto il corpo nero. Doveva essere un abito di seta lucente. La vestiva come una casacca, molle e morbida.

Sul nero del vestito, le mani. Le teneva distese, una sull’altra, da un lato. Un grande anello rotondo all’anulare della destra, ch’era sovrapposta e che copriva quasi interamente l’altra.

Il volto proteso sotto la frangia dei capelli, che scendeva a coprire la fronte sino alle sopracciglia. Una gran massa di capelli chiari, pieni di riflessi.

Gli occhi fissi, quasi rotondi, luminosi, pieni di una strana espressione: paura, meraviglia, curiosità ansiosa. Le labbra sottili. Il mento rettangolare. L’abito aperto a triangolo sul petto.

De Vincenzi tolse il ritratto dalla cornice e se lo mise nella tasca interna della giacca.

Poi uscì da quella camera, con l’impressione di aver violato un segreto d’alcova, d’essere penetrato in un recinto vietato.

Andò alla porta della camera in cui aveva fatto entrare Kiergine e la spalancò di colpo.

Il russo stava seduto sulla sponda del letto e guardava fissamente davanti a sé. La valigetta gialla era chiusa accanto a lui.

– Kiergine, volete venire a prendere la biancheria e i vestiti, che avete chiesti?

Lui si alzò. Mormorò:

– Grazie.

Ma quando fu dinanzi alla porta della camera che aveva abitata con Paulette Garat, ebbe un’esitazione.

– Entrate!

Nell’interno, vacillò. Dovette afferrarsi alla spalliera del letto. Si volse a De Vincenzi e gli sorrise. Un sorriso pieno di umiltà e di pudore.

Guardò poi la cornice vuota sul comodino. Rimaneva immobile. Non doveva ricordare la ragione per la quale era entrato lì dentro.

– Quali sono le vostre valigie?

– Quello è suo – e indicò il baule chiuso.

– Prendete quanto vi occorre.

Afferrò la valigia più grande.

– Qui c’è tutto.

– Bene. Venite.

Tornarono nella camera a un letto. Kiergine depose la grande valigia accanto alla piccola gialla.

– Siete libero di fare quel che volete. Potete uscire. Ci rivedremo. Abbiamo molte cose da dirci.

– Grazie – rispose lui.

De Vincenzi dalla soglia lo guardava.

– Non volete dirmi perché siete partito improvvisamente per Milano?

Trasalì. Non s’aspettava quella domanda.

– Non mi sarei fermato a Milano.

– Dove volevate andare, allora?

– A Düsseldorf.

– A che fare?

– Ho... i miei parenti in quella città.

Mentiva. Ma non completamente. Quella poteva essere una parte della verità. Una piccola parte soltanto, alla quale lui si aggrappava, per nascondere il resto.

– Lasciate detto al portiere dove andate, se uscite. Può darsi che vi raggiunga.

Non attese la risposta e chiuse l’uscio.

Percorse il corridoio, guardando le porte. A destra, andando verso la scala, c’erano i numeri 27, 26, 25, 24. Il 24 era appartenuto a Eduard Letang, il 25 ai due amanti, al 26 sarebbe andato Cruni, al 27 c’era Kiergine.

Di fronte, altre quattro camere, che davano sulla strada verso il Casino, dal 28 al 31. Il 28 lo aveva preso lui. Avrebbe saputo tra poco da chi erano occupate le altre tre.

Si ricordò del foglio datogli da Racheli e se lo tolse di tasca. Lo aprì.

Una quindicina di nomi, in tutto.

Cercò i numeri delle camere. Il 29 era occupato dal barone Giorgio Milesia, il 30 dai coniugi Bertrand di Parigi, il 31 dalla Fraülein Agnes Staub.

Si rimise il foglio in tasca e scese in fretta le scale.

Incontrò una cameriera e un facchino, che salivano, i quali si trassero da parte per lasciarlo passare, osservandolo con curiosità.

Di colpo, si fermò davanti all’uomo.

– Chi ha scoperto il cadavere, nella camera?

– Ah! Lei! – e indicò la cameriera, che De Vincenzi aveva lasciata dietro sé di qualche scalino e che si fermò subito.

– Io, signore. Alle nove e mezzo, quando facevo il giro a preparare le camere per la notte.

– E fino a quell’ora dove eravate stata?

– Agli altri piani. Si comincia sempre dal terzo, che è l’ultimo, per scendere al primo. La camera numero 24 è la prima in cui si entra, di questo piano... – e indicò con la mano il pianerottolo da cui era disceso De Vincenzi.

– Avete gridato?

– Può crederlo!

– C’era nessuno nelle camere vicine?

– No, nessuno.

– E chi è accorso?

– Io – rispose il facchino. – Carlotta e io siamo sempre di servizio assieme. Ieri sera lo eravamo. Questa sera siamo liberi.

– E dove vi trovavate, voi?

– In basso. Davanti all’ascensore.

– Da quanto tempo?

– Qualche minuto. M’ero fermato al quadro dei campanelli.

– E prima?

– Col portiere, al suo banco.

– Avete veduto uscire qualcuno?

– L’ultimo a uscire è stato il barone Milesia, verso le nove. Aveva mangiato al ristorante, come il solito, e poi era salito in camera, per ridiscendere quasi subito. Va ogni sera al Casino.

De Vincenzi riprese a scendere.

– V’interrogherò ancora.

In basso, trovò Racheli in mezzo all’atrio. A destra uscendo, era il portiere alto sul suo pulpito nero, e a sinistra, dietro il lungo banco della direzione, si vedevano il padrone e due impiegati curvi sui registri.

– Hai finito?

– Sì. Andiamo. Tornerò poi a interrogare il personale e gli ospiti.

– Che allegria! – mormorò il portiere.

Il padrone aveva il volto scuro, imbizzito. Faceva il broncio agli avvenimenti. E si toccava i ciondoli d’oro sul ventre, per darsi un contegno.

Quando vide che i due stavano per varcare la soglia dell’albergo, trovò la voce:

– Signor commissario!

Macchinalmente, anche De Vincenzi si voltò. Racheli disse:

– Ebbene?

– Quando vengono a portar via il... quel... quel cadavere, insomma?

– Tra poco.

Uscirono. Presero a destra, per risalire via Vittorio Emanuele. Proprio in quel momento si sentì la tromba stridente e l’autolettiga apparve al fondo della strada, scendendo da via Corradi.

– Sai? – disse Racheli, a cui l’attesa nell’atrio aveva fatto diminuire se non cessare il malumore. – Domenica cominciano le regate degli yachts a vela. È una gara internazionale. Avremo la città piena di gente... di stranieri soprattutto. Si corre il match delle tre Nazioni, Italia, Francia e Inghilterra...

– Ah! – fece De Vincenzi.

La prospettiva non gli sorrideva.

– C’è molta gente qui, in questo momento?

– Poca. Quelli che vengono a giocare. Il Casino ha sempre il suo pubblico.

Avevano lasciato via Vittorio Emanuele, larga, bianca, coi suoi negozi di lusso da città che vive sul forestiero, per cominciare a salire verso la città vecchia. Passarono dinanzi alla cattedrale gotica di San Siro, attraversarono il mercato.

A quell’ora del pomeriggio avanzato, non c’erano più che i banchi dei fiorai.

Garofani d’ogni colore.

Ma la visione fu rapida.

Entrarono sotto l’atrio della Questura.

Racheli lo guidava.

Il Questore li ricevette subito. Era un uomo alto e forte, coi capelli grigi tagliati corti, a spazzola, duri. Gli occhi, sotto le ciglia folte, guardavano diritto, leali, pieni di bontà. Quasi di rassegnazione. E lui li spegneva, facendo filtrare lo sguardo tra le ciglia socchiuse.

– Ho piacere che lei sia venuto, commissario De Vincenzi.

Sorrise, gli tese la mano.

– La sua fama è tale da darmi la sicurezza che sbroglierà la matassa. Disponga di noi.

– Grazie – disse De Vincenzi. – Non potrei far nulla, senza l’aiuto suo e dei miei colleghi. Racheli mi ha già dato prova di quanto sia preziosa la sua collaborazione.

Il Questore guardò Racheli, che fece un gesto di protesta. Ma lo sguardo gli si era addolcito e il volto aveva perduto la sua durezza contratta.

Il Questore sedette.

– Un grazioso rompicapo – cominciò. – Vuole che riassumiamo brevemente i fatti? Segga, la prego.

De Vincenzi sedette.

– Dunque: un canotto con una pozza di sangue sul fondo; la donna, Paulette Garat, scomparsa; alle nove dello stesso giorno scoperta del cadavere di Eduard Letang. Abbiamo interrogato il personale dell’albergo. Non sanno nulla. Gli ospiti dell’albergo mostrano di saperne ancor meno e non sembra che avessero niente di comune col morto il quale faceva vita a sé e per unici amici aveva Kiergine e la sua amante. È voce generale che questi tre fossero venuti a San Remo per giocare. Provenivano, forse, da Montecarlo. Giocavano, infatti, tutti i giorni e facevano differenze rilevanti. Ma non hanno mai scarseggiato di denaro, almeno visibilmente. Il russo, poi, il giorno avanti a quello della sua fuga, aveva fatto una grossa vincita.

– Quanto? – chiese De Vincenzi.

– L’addetto alla cassa del salone centrale gli cambiò per trecentomila lire di placche. Il russo aveva giocato alla roulette, mettendo tutti en plein di mille lire. San Remo è il Casino d’Europa che accetta la più alta puntata. Con tutte le combinazioni accessorie, alla roulette si possono vincere oltre settantacinquemila lire in un sol colpo.

– E questo denaro dove è andato a finire? Kiergine non aveva in tasca, al momento del «fermo», che poche migliaia di lire.

– Un altro mistero! A meno che non lo avesse avuto con sé la donna scomparsa. C’è da pensare che sia stata uccisa per questo!

– Ma è stata uccisa, poi? Il cadavere...

– Mio caro! – interruppe il Questore. – A San Remo, un cadavere può anche scomparire. Basta portarlo con una barca al largo, legargli ai piedi con fil di ferro galvanizzato qualche decina di chili di pietre, e poi gettarlo in mare. Si ferma sul fondo tutto il tempo che occorre ai pesci per divorarlo. E dopo qualche giorno non ci sono più che le pietre e il fil di ferro!...

De Vincenzi vide davanti a sé la donna del ritratto, con quei suoi grandi occhi fissi a guardare forse un pericolo!

Istintivamente, si toccò la tasca del petto, dove aveva la fotografia.

– E quelli lì avevano un canotto automobile, che poteva portare il cadavere dove volevano! – concluse il Questore.

– Ma perché ricondurlo poi alla spiaggia e lasciarvelo, con la pozza di sangue? E la borsetta e l’impermeabile rosso?

– Mah! – il Questore si strinse nelle spalle. – E perché fuggire a quel modo, ch’era proprio il migliore, per farsi prendere subito?

– Lei crede, dunque, che a ucciderla sia stato il russo?

– E chi se non lui? Ma tutte queste ipotesi non servono a nulla! Bisogna trovar qualcosa di preciso. Prove ci vogliono! Certo, l’uccisione di quel giovane Letang viene a complicare maledettamente il problema.

Il Questore tacque. Fissava De Vincenzi.

– Adesso, mio caro, tocca a lei!...

Aprì un cassetto e ne trasse il passaporto, le cartoline, il portafogli, rinvenuti nelle tasche di Letang. C’era anche il cartoncino della roulette e la placca da cento lire. Spinse gli oggetti verso il commissario.

– E questa è la borsetta di Paulette Garat. L’impermeabile è là dentro, in quell’armadio.

La borsetta scintillava con la sua cerniera di platino e le gemme rosse e bianche.

De Vincenzi l’aprì e ne trasse alcuni oggettini luminosi, d’oro giallo. La scatoletta della cipria, il rouge. Il piccolo specchio. Un portamonete di pelle. Un altro cartoncino con la roulette. Un fazzoletto ricamato.

Li rimise al loro posto – tranne il cartoncino rosso e nero – e fece scattare la cerniera.

Tese la mano verso l’altro cartoncino, quello di Letang.

– Se permette, prendo questi...

Ma prese anche le cartoline dirette al morto. Mise tutto in tasca.

– Ha bisogno di altro?

– Grazie.

– Racheli verrà con lei.

– Mi accorderò con Racheli. Non è vero? – e si volse al collega. – Basterà ch’io sappia dove trovarti.

Uscirono assieme dalla camera e si fermarono nel corridoio.

In quel momento, sbucando dalle scale, avanzò verso di loro un signore imponente. Alto, ventruto, molto elegante nel vestito blu chiaro, con un feltro grigio a larghe tese in testa.

De Vincenzi vide lo scintillio di un enorme brillante sul rosso amaranto della cravatta, e un volto abbronzato, dallo sguardo non meno acceso e pungente del brillante.

Si dirigeva con sicurezza verso la porta dell’ufficio del Questore, alla quale picchiò.

Quando fu entrato, Racheli si volse a De Vincenzi.

– È Kamir Pascià – disse e nella sua voce era molta ammirazione. – Abita sul suo yacht, ancorato al largo.

De Vincenzi aveva negli occhi i raggi del brillante, a cui il rosso amaranto della cravatta dava un alone di sangue.