Capitolo III

«Goodbye luck!»

Quando De Vincenzi si trovò di nuovo sulla piazza del Mercato, le grandi macchie colorate dei garofani erano scomparse sotto le larghe tele gialle e bianche, che coprivano i banchi per la notte.

La piazza cominciava a farsi deserta. Qualche ragazza dal corpo magro e vibrante passava in fretta, ravvolta nello scialle nero a frange corte, che usano tuttora le rivierasche, anche se portano ormai le calze di seta e si tingono di rosso le labbra sottili. Tornavano dal lavoro e lanciavano in giro occhiate lunghe, un po’ stanche e languide. Ma col capo eretto fieramente, il corpo guizzante, con quel loro stringere le labbra a un invisibile sorriso di sprezzo, negavano le occhiate, quasi volessero difendersi dal proprio stesso languore.

De Vincenzi scendeva verso la città nuova, le ville bianche, gli alberghi di lusso, verso il mare, camminando lentamente.

Si fermò davanti al portale gotico della chiesa di San Siro, così liscio e rossigno e così falso. Un rifacimento! Ma le porte romaniche dei lati attrassero la sua attenzione. Avrebbe voluto veder l’interno della chiesa, dopo quelle porte; ma era chiusa.

Se ne allontanò in fretta e discese la strada ripida, che lo portò in via Vittorio Emanuele, davanti al Casino e al suo albergo.

Passò oltre, senza fermarsi. Dai viali ghiaiati del Casino scendeva un gruppo di persone. Erano uomini e una donna. Camminavano senza parlare, con l’aria assorta, quasi allucinata.

Davanti alla porta dell’albergo vide il padrone. Questi lo riconobbe e fece un gesto, poi si trasse da parte, disponendosi a farlo entrare.

Ma lui proseguì, affrettando leggermente il passo. V0leva risalire la passeggiata a mare. Il sole stava per scomparire dietro Capo Nero. Il mare era tutto tinto di porpora luminosa.

De Vincenzi andava rasente al parapetto. Sotto di lui, la strada ferrata e al di là gli scogli e le onde, che s’increspavano appena. Poi tratti di spiaggia con la rena sottile. Un ragazzo bronzeo, arso, modellato come un giovane iddio greco, levava la sua nudità di statua sopra uno scoglio, pronto a tuffarsi. Gli ultimi raggi del sole davano una patina d’oro fulvo a quel corpo. Saettò in aria, ruppe l’acqua, che mandò uno spruzzo d’argento, inghiottendolo. Ricomparve a una diecina di metri, scuotendo violentemente la testa e battendo l’onda con le mani.

Accanto a De Vincenzi s’erano fermati i viandanti di quell’ora a guardarlo. Una signora inglese con l’occhialetto e il cane, una coppia di giovani, un vecchio vestito di grossa lana marrone col berretto a visiera.

De Vincenzi se ne allontanò. Guardava sempre la spiaggia. All’altezza del chiosco della musica, dove la scogliera saliva, vide il canotto tratto a secco e due carabinieri seduti sulla sponda di esso, con le gambe penzoloni. Un canotto lungo e slanciato, dipinto in rosso cupo. Il sole era scomparso. L’aria apparve immobile, diafana, traslucida. Fu un attimo. Subito l’ombra cominciò. Le lampade s’accesero di colpo lungo il corso Imperatrice e poi sul corso Matuzia, fino al Cimitero lontano, oltre il torrente della Foce.

Un gran senso di pace era sceso, palpabile, materiale, come un velo caduto sui palmizi.

De Vincenzi sedette su una panchina e dimenticò tutto. Sempre gli avveniva di perdere il senso del reale, davanti alla natura. Aveva disteso le gambe; il corpo appoggiato pesantemente allo schienale, il volto rovesciato verso il cielo, che le stelle cominciavano a trapungere.

Forse un’ora, rimase così. Dovevano essere le nove passate. Lo distolse dalla contemplazione il rumore di passi sull’asfalto duro del viale e di voci sonore. Un gruppo di giovani saliva, che ridevano e parlavano a contrasto, rimandandosi i frizzi e le celie.

Si levò e prese a ridiscendere. S’era completamente liberato dai sogni. Adesso, pensava con chiarezza alla realtà drammatica entro cui doveva muoversi.

Vide lontano, sul mare, una massa nera, sulla quale brillavano alcune luci ferme. A poco a poco ne distinse i contorni. Doveva essere lo yacht di cui gli aveva parlato Racheli. La casa ambulante di Kamir Pascià. Era oscuro e immobile. Soltanto i fanali di fonda ardevano dall’alto degli alberi e due fuochi, rosso e verde, a poppa e a prua.

De Vincenzi si fermò a guardar quella forma e quelle luci.

Un uomo massiccio e potente, quel Kamir Pascià. E che sguardo! Pungeva come i raggi del suo brillante, fissato a quella assurda cravatta amaranto. Ed era andato a trovare il Questore. Qualche permesso di navigazione o che altro?

Lo yacht era ancorato al largo, lontano. Perché tanto distante dalla spiaggia e dal porto?

Soltanto Kiergine col canotto poteva arrivare a suo piacere laggiù. E la donna con l’impermeabile rosso.

Che faceva Kiergine in quel momento?

Avevano portato via il cadavere, di Eduard Letang... Il corridoio bianco dell’albergo, con le otto porte numerate, quattro e quattro di fronte... La cameriera, che aveva scoperto il cadavere, s’era trovata dinanzi a un uomo seduto, con la testa reclina sul tavolo. Lo aveva certamente creduto addormentato. Poi aveva gridato... E intanto Kiergine, a San Fedele, chiuso con lui nella sua stanza, subiva con rassegnata tranquillità la tortura di un interrogatorio, che doveva durare sette ore...

Paulette Garat era scomparsa. Morta?

Diede ancora una lunga occhiata allo yacht, poi riprese a scendere.

Passò di nuovo davanti all’albergo e al Casino. Entrò nella prima trattoria che gli si offrì, e mangiò in fretta. La cameriera che lo serviva dovette crederlo uno dei soliti giocatori, arsi dalla loro passione, tormentati dalla segreta e roditrice angoscia delle speranze folli, che la pallina bianca, cadendo in una di quelle piccole bare rosse o nere, spezza di colpo, per riprendere subito il suo giro vorticoso. Mangiava macchinalmente. Quando si alzò e uscì, se gli avessero chiesto che cosa aveva mangiato non avrebbe saputo dirlo.

Si diresse con sicurezza verso il Casino. Salì i viali ghiaiati. Altre persone salivano con lui. Adesso gli sembrava di avere uno scopo preciso. Avrebbe condotto l’inchiesta a quel suo modo che gli era abituale. Vivendo l’ambiente nel quale avevano vissuto e vivevano le persone del dramma. «È voce generale che siano venuti a San Remo per giocare. Provenivano da Montecarlo». Tre persone. Il russo, Paulette Garat, il francese. Quali anelli saldavano assieme quei due uomini e quella donna, giovane e bella?

Nell’atrio si trovò immerso in una luce troppo bianca. Di fronte a lui, la lunga vetrata che dava sulla sala del teatro era chiusa e buia. Dalla sinistra, dietro pesanti tende di velluto, veniva il suono di un jazz.

Voltò a destra e andò agli sportelli dei permessi d’entrata. Come a un teatro o a una stazione ferroviaria. Soltanto qui gli spettatori erano attori e il viaggio portava chissà dove.

Si fece riconoscere, presentando la tessera.

L’impiegato, dietro il grande banco lucido, gli sorrise. Ma un’ombra gli era passata sul volto.

– Chiamerò il direttore, perché la presenti agli inservienti dell’ingresso. Lei ha entrata libera.

– No, mi dia una tessera come gli altri. Pagherò il dovuto. Non voglio che si sappia chi sono.

Un altro sorriso. Un’altra ombra più buia.

– Come vuole.

Si mise a riempire la tessera.

– Per un giorno, le basta?

– Faccia una settimana...

L’impiegato questa volta sussultò.

– È per quel delitto? – chiese con sforzo.

Lui sapeva che un’inchiesta poliziesca al Casino poteva voler dire tutto: l’esodo dei frequentatori, lo scandalo, la chiusura.

– Cerca qualcuno?

– Desidero tentare la sorte – rispose De Vincenzi, un poco ironicamente, ma sapendo di non mentire. Anche per scoprire l’assassino o gli assassini e per ritrovare il corpo di Paulette Garat, con l’anima o senza, non si affidava forse alla sorte, lui?

Prese la tessera e salì lentamente una rampa dello scalone, mentre l’impiegato confabulava col suo collega e tutti e due lo guardavano.

De Vincenzi traversò il primo atrio e si trovò in un lungo salone. A sinistra correva una fila di balconi e di terrazze. Pesantissime tende di velluto violaceo ne acciecavano le finestre; ma una di esse aveva le tende aperte e si vedeva la gran luce dei globi della facciata e in fondo l’oscurità luminosa del mare e del cielo.

Camminava lentamente sui tappeti soffici. Guardò con indifferenza quelle due o tre donnine dipinte, che mostravano occhi da bambola e gambe vestite di seta, dal profondo delle poltrone accoglienti, in cui erano sdraiate.

Uomini nessuno, tranne gli inservienti in polpe e marsina gallonata.

Varcò la soglia di una porta altissima e subito sentì crescere attorno a sé quel ronzio fitto metallico, un brusio di api d’oro, che già lo aveva colpito al sommo delle scale.

Passò davanti al bar e si trovò sotto l’arco del grande salone da giuoco. Qui il ronzio era alto, pieno e non aveva un istante di tregua. Avvolgeva e dava l’impressione trascinante di un risucchio. Ma a lasciarsi sommergere da esso non lo si sentiva più.

Due file di tavoli grandissimi, rettangolari, circondati da folti gruppi di persone.

Fasci di luce bianca piovevano su di essi.

La gente attorno a quei tavoli appariva silenziosa e irrequieta. Sciamava veramente come api al lavoro.

De Vincenzi vinse lo strano senso di malessere che lo aveva invaso, sottile come un turbamento d’anima, come l’oscuro presentimento d’un pericolo insfuggibile, e avanzò.

La reazione si operò in lui immediata, facendogli superare lo smarrimento. Vide il volto di ognuno, i particolari d’ogni oggetto, il fremito che faceva vibrare quei vasti coni di luce, sotto gli immensi paralumi verdi.

E scorse subito, al secondo tavolo della roulette, Ivan Kiergine.

Il giovane si teneva in piedi al primo posto vicino al croupier. Aveva il consueto aspetto ermetico e il volto non rispecchiava alcun sentimento. Ma quell’assenza di sentimento dava ai suoi occhi azzurrini una espressione immobile e fissa, che era tragica.

Aveva le braccia distese, e le sue mani affusolate, bianchissime, vibranti, toccavano il mucchio dei gettoni e delle placche, che gli stavano dinanzi, per muoversi poi rapide e precise sul tappeto, disponendo le puntate nei quadrati dei numeri neri, come se sfiorassero i tasti di un organo muto, del quale lui solo sentiva gli accenti.

Rien ne va plus!

Le mani rimasero sospese in aria un attimo, poi tornarono sul mucchietto dei gettoni e delle placche e le dita si agitarono tra quegli ossicini preziosi, sconvolgendoli.

La pallina girava ancora. Inceppò fra le lamette di ottone delle caselle, rimbalzò, toccò i numeri, aderì al sommo della superficie concava e liscia del piatto di legno lucido, continuando il giro. Era viva, fosforica.

De Vincenzi sentì l’ansimo brevissimo e represso di tutti quegli umani in ansia attorno a quel tavolo. Ognuno aveva gli occhi lucenti fissi sulla ruota luminosa.

Sempre le mani bianche di Kiergine vibravano fra i gettoni.

La pallina cadde di colpo.

Vingtneuf, noir, impair, passe.

I croupiers protesero i rastrelli rapaci, spazzarono le puntate; sul 29 rimase una placca, contornata da quattro altre. Davanti a Kiergine furono deposti nuovi mucchi di placche grandi, di gettoni, un pacco di biglietti azzurri.

Il russo vinceva.

Nessun muscolo del suo volto aveva sussultato.

E la corsa della pallina proseguiva implacabile, fosforica, viva.

De Vincenzi si era messo di fronte a Kiergine, dall’altra parte del tavolo. Lo osservava con intensità, voleva cogliere il segreto della sua anima.

Lui non sembrava lo avesse veduto. I suoi occhi erano sempre azzurrini, immobili nella loro espressione di completa indifferenza.

Le mani, ormai, si tuffavano nel mucchio dei gettoni sino a rimanerne coperte.

Quanto vinceva? Ignaro come era del giuoco e del valore delle fiches, De Vincenzi non poteva fare il calcolo; ma si chiedeva perché mai giocasse a quel modo, puntando a ogni colpo una somma folle.

Finì col capire che le placche grandi, turchinicce, pesanti, valevano mille lire e che lui ne metteva sei o sette ogni volta, sopra le combinazioni di ciascun numero che giuocava. E non giuocava mai meno di quattro o cinque numeri al colpo, secondo una condotta di giuoco prestabilita. Aveva un metodo? Era un maniaco oppure nient’altro che un avventuriero?

E vinceva!

Adesso, a quel tavolo, gli altri giuocatori, come paralizzati dalla fortuna insistente, ossessionante di quel loro vicino, non puntavano quasi più e lo guardavano con ammirazione invidiosa e livida. Altri giuocatori accorsi da ogni parte della sala, gli si addensavano attorno. Il croupier imprimeva alla pallina di volta in volta un movimento più rapido, disuguale, quasi volesse rompere uno strano sortilegio.

Tutti gli occhi erano fissi su Kiergine.

E lui continuava a giuocare, indifferente a tutto, meccanizzato nei movimenti, pallido soltanto, sino ad apparire esangue.

Più la sua vincita cresceva e più lui s’impietrava.

De Vincenzi, però, credette di scorgere un leggero fremito delle sue nari e delle labbra. Per un istante, vide un lievissimo sorriso di disprezzo aleggiargli rapidissimo sul volto. Gli occhi gli si erano accesi di un bagliore d’angoscia. Il russo diede un’occhiata al gran mucchio dei gettoni davanti a sé e in quell’occhiata De Vincenzi lesse una disperazione lacerante, un senso desolato di distacco e di abbandono, come se tutto quel denaro gli fosse inutile e accorresse verso di lui per beffarlo.

Il croupier si alzò dal seggiolone alto e fu sostituito da un altro, che sembrava il medesimo, tanto gli somigliava, anco se era biondo, mentre il primo aveva i capelli corvini.

La pallina non si fermò.

Kiergine ebbe un gesto. Fece per raccogliere i gettoni e le placche, come se avesse deciso di allontanarsi, di smettere.

Ma poi crollò il capo. Il sorriso di poco prima, rapido come lampo, tornò a passargli sul volto e lui rimase.

Da quel momento raddoppiò la posta, anzi.

E cominciò a perdere.

Con quella medesima regolarità ostinata, fatale e inspiegabile con cui fino allora i suoi numeri si facevano annunziare dalla voce monotona del croupier, adesso tacquero.

Il mucchio dei gettoni davanti a lui calò a ogni colpo. Rapidamente, disperse tutte le placche, disseminò senza ritorno quei dischi bianchi e neri, cominciò a deporre sui numeri i fogli azzurrini.

Attorno a lui, la gente sogghignava, fremeva, mandava esclamazioni mozze.

Qualcuno mormorò: «Imbecille!», abbastanza forte, perché De Vincenzi lo sentisse.

Una donna bionda platino, vestita di verde, esclamò con accento disperato: «Goodbye luck!», e l’ultima parola le si spense in un singhiozzo. Rideva convulsamente.

De Vincenzi ebbe un brivido.

Ma Kiergine restava impassibile.

Adesso, che non potevano più affondarsi nei gettoni, neppure le mani diafane vibravano.

L’ultimo foglio da mille fu sollevato dalla spatola del croupier, andò a cadere, attraverso la fessura, nella cassetta fissata sotto il piano del tavolo.

Per qualche istante ancora, il russo rimase diritto, immobile, al suo posto.

Faites vos jeux, messieurs!

La pallina girava.

Lui la guardò cadere.

Vingtneuf, noir, impair, passe.

Uno dei suoi numeri, che lui non aveva puntato, questa volta, perché senza più denaro.

Sorrise apertamente e alzò gli occhi, girando lo sguardo attorno.

Allora vide De Vincenzi e batté le ciglia, sorpreso.

Volse le spalle alla roulette e si allontanò, passando tra i giuocatori, che lo guardavano adesso con un misto di disprezzo e di compassione e si scostavano da lui per dargli il passo.

De Vincenzi si mosse per seguirlo e si avvide soltanto in quel momento che un uomo basso, muscoloso, con la nuca da lottatore e il volto apoplettico, stava appoggiato contro la parete e fissava Kiergine. Se ne avvide, perché il russo andava deliberatamente verso quell’uomo.

Quando gli fu vicino, quegli parlò. Muoveva appena le labbra. Gli occhi gli brillavano di una luce cattiva.

Kiergine lo ascoltava. Alzò leggermente le spalle. Prima di rispondere, si voltò a cercare con lo sguardo De Vincenzi. L’uomo seguì il suo sguardo e gli dovette rivolgere una domanda, perché il russo assentì col capo. Subito, l’altro lo afferrò per un braccio e lo trascinò verso il fondo della sala.

De Vincenzi fece mostra di non osservarli; ma li vide raggiungere i tavoli lontani dello chemin de fer e poi sparire all’angolo, che la sala faceva, aprendosi a destra in un’altra sala più piccola.

L’uomo basso era in smoking, come Kiergine. Come quasi tutti, lì dentro.

De Vincenzi, invece, era uno dei pochi uomini in giacca e in giacca chiara per di più. Lo si vedeva da lontano. Se avesse tentato di raggiungere quei due, essi avrebbero potuto sfuggirgli agevolmente, tornando sui loro passi. La folla, quella sera, era fitta. Una volta fuori dal Casino, il compagno del russo si sarebbe dileguato.

Uscì in fretta dalla sala da giuoco e andò a sedersi in una delle poltrone profonde, del primo salotto. Da lì poteva vedere tutti coloro che entravano e che uscivano. Kiergine e l’altro dovevano passargli dinanzi.

Chiamò con un cenno della mano un inserviente.

– Ci sono altre uscite, oltre questa, per i giuocatori?

– Per i giuocatori, no, signore. Debbono passar tutti di qui.

– E per gli impiegati?

– Gl’impiegati hanno la scala di servizio.

– Dov’è?

– In fondo, nell’ultimo braccio del salone, a destra. C’è una porta. Si scende e si va negli uffici. È lì che si depositano ogni notte le cassette con le fiches.

E poi?

– E poi... come, signore?

– Da quella parte si può uscire dal Casino?

– Certamente! Si scende dietro il teatro e si trova subito il giardino.

– Chi c’è negli uffici, a quest’ora?

– Il capo cassiere, soltanto.

De Vincenzi balzò in piedi.

– Venite con me! Conducetemi.

– Dove? – chiese l’inserviente, stupito.

– Presto! Sono un commissario di Polizia.

L’inserviente batté una mano contro l’altra: – Ah! – e lo seguì, in fretta.

De Vincenzi correva, quasi. Traversò la sala da giuoco, passando nel mezzo dove la via era libera, ché tutti si addensavano attorno alle tavole.

Raggiunse il fondo. Vide la porticina. L’aprì d’impeto e si precipitò per le scale. L’inserviente lo seguiva.

La scala era stretta e ripida, ma chiaramente illuminata. Sul primo pianerottolo, dove essa piegava ad angolo retto, De Vincenzi vide subito il corpo di Kiergine disteso in terra. Ostruiva il passaggio. Quando fu sull’ultimo gradino, scavalcò il corpo e gli si chinò sopra.

L’inserviente, atterrito, s’era fermato a mezza scala.

Il russo aveva gli occhi chiusi e giaceva inerte. Ma non presentava ferite e respirava. Doveva aver ricevuto un colpo violento sulla nuca oppure, forse, sotto il mento, perché le labbra gli sanguinavano leggermente.

De Vincenzi si drizzò.

– Non è nulla! Può aspettare. Seguitemi, voi!

E si gettò nuovamente giù pei gradini, senza curarsi se l’inserviente lo avesse compreso e lo seguisse.

Al fondo si trovò in un ampio ripiano, sul quale si aprivano due porte. Si vedevano le due stanze illuminate. Un’altra scala scendeva.

Diede un’occhiata attraverso le porte: le stanze gli apparvero deserte.

Si volse. L’uomo in marsina gallonata e polpacci bianchi arrivava.

– Doveva trovarsi qualcuno in queste camere?

– Sono gli uffici degli ispettori di sala, che prestano servizio di sopra, nel salone.

– Ho capito – e riprese a scendere.

Fece la scala in quattro salti. L’inserviente gli teneva dietro, oramai. Era un giovanotto e, da quando aveva compreso che si trattava di dar la caccia a qualcuno, s’interessava al giuoco e voleva mostrarsi ardito.

Discesi tutti i gradini, De Vincenzi si lanciò avanti. Si trovava in una stanza vasta, con cinque porte d’acciaio sulla parete di destra e una grande scrivania contro quella di sinistra. Di fronte alla scala una porta spalancata.

E quasi davanti alla porta, in terra, un uomo supino, con un pugnale piantato nel petto.

L’inserviente mandò un grido.

– Il signor Valeri!

De Vincenzi vide subito che l’uomo era morto. Aveva gli occhi sbarrati, vitrei, pieni di terrore.

Si fermò. Guardò la porta spalancata.

– Chiamate il direttore... qualche impiegato!... Ma non date l’allarme nella sala...

E lui scomparve oltre la porta, giù per un’ultima scala, che lo portò in un lungo corridoio buio, in fondo al quale si vedeva il chiarore del giardino.

La porta della vetriata era aperta.

L’assassino era passato da quella parte.

Quando fu sullo spiazzo. De Vincenzi si fermò. Pensare di raggiungere l’uomo sarebbe stata follia.

Contornò il fabbricato, raggiunse la facciata principale, entrò nel vestibolo, corse allo sportello delle tessere.

– Da dove si passa, per entrare qui da loro?

L’impiegato, con cui aveva parlato un’ora prima, ebbe la presenza di spirito di aprirgli subito la porticina nascosta dietro una colonna di legno.

De Vincenzi, quando si era fermato allo sportello, la prima volta, aveva veduto il telefono sopra un tavolo.

Ne afferrò il cornetto e pronunziò a voce bassa:

– La Questura... subito...

I due impiegati lo guardavano esterrefatti.