Capitolo V
... Venti nomi per chiamare il diavolo...
De Vincenzi s’era gettato vestito sul letto.
Erano le tre e mezza circa e lui poteva disporre di due o tre ore di sonno, al massimo. Se pure lo avessero lasciato dormire. Cruni poteva venirlo a chiamare da un momento all’altro.
Dal Casino era andato all’albergo. Gli aveva aperto il portiere di notte. Sdraiato in una poltrona della sala di lettura, al buio, aveva trovato Cruni. Il brigadiere lo aspettava, sonnecchiando.
De Vincenzi aveva acceso la luce della saletta e gli si era seduto accanto.
– Adesso, parleremo. Prima va’ a chiedere a quell’uomo se può darci una bottiglia di birra.
Cruni era tornato con la bottiglia.
– Ladri! – borbottava. – Otto lire una bottiglia di birra...
– Non è cara... – lui sapeva di trovarsi in un paese dove si potevano rubare due milioni! – ma i bicchieri dovevi farteli dare!...
– Li porta quell’uomo, dottore... Il servizio è compreso nel prezzo!
Cruni non era ironico, indignato piuttosto.
Quando il portiere aveva deposto i bicchieri sul tavolo, davanti al commissario, questi gli aveva detto:
– Rimaniamo qui a discorrere... Non fate entrare nessuno... Un momento... Leggete questo elenco... Sono i nomi dei clienti che avete nell’albergo... Andate di là e cercate di ricordarvi l’ora in cui ognuno di essi è rientrato, questa notte...
Il portiere aveva preso la nota e l’aveva letta.
– Ci sono due nuovi arrivi...
– Ah! E l’albergatore si lagnava di non aver clienti...
Segnate i loro nomi, le generalità, la provenienza, in fondo a quel foglio. E mettete l’ora che vi ho chiesta accanto a ciascun nome degli altri.
– Ma come faccio a ricordarmi? Non pretenderà che io le dica esattamente!...
– Non vi ho chiesto i minuti esatti... Cercate di ricordarvi approssimativamente... A che ora entrate in servizio, voi?
– Alle dieci...
– Bene. Se non altro, saprò chi è rientrato dopo le dieci.
– Tutti! Soltanto la signora Stefani, il numero 40, è rimasta chiusa nella sua camera da ieri, perché indisposta. Mi ha chiamato già due volte, questa notte. Gli altri non rientrano mai prima della mezzanotte.
– Il signor Kiergine, per esempio, non può essere rientrato neppure adesso...
– Ma sì... Un’ora fa. Era accompagnato da un agente, che l’ha aiutato a mettersi a letto...
Dunque, il russo, appena riprese le forze, aveva voluto tornare in albergo! Durante la sua sosta al dancing, senza dubbio, mentre Agnes Staub danzava...
– Gliel’avrei riferito io, dottore... L’agente lo ha consegnato a me...
– Meglio così. Nient’altro, allora. Fate quel che vi ho detto...
Il portiere si era allontanato col foglio in mano. Bevvero la birra.
– Adesso, Cruni, io vado a gettarmi sul letto. Domattina dovrò essere in movimento all’alba. Ma tu no, amico mio, tu devi vegliare...
– Sì, dottore...
– Fa’ salire l’ascensore al primo piano... avverti il portiere, naturalmente... e chiuditici dentro. Ci starai comodissimo, nessuno ti potrà vedere e tu sentirai ogni rumore... Devi sorvegliare tutti e tre i piani, ma specialmente il primo... Se accade qualcosa, se qualcuno esce... se ti accorgi di qualche movimento sospetto, regolati secondo il tuo criterio, ma fa’ in modo di venirmi ad avvertire subito...
– Sta bene...
– Hai la rivoltella?
Cruni s’era toccata la tasca dei pantaloni.
– Lei crede?...
– No. Anzi, credo proprio che la serie dei morti sia finita... o quasi... Ma non si sa mai...
E poco dopo il brigadiere si chiudeva nell’ascensore e lui nella sua camera.
***
Non dormiva. Non gli riusciva di prender sonno.
Come sempre, cercava di mettere un po’ d’ordine nei fatti, di liberarsi del superfluo, di togliere dal quadro tutti coloro che ingombravano.
Fece passare una a una le persone che fino a quel momento gli si erano presentate.
E chissà perché cominciò proprio da Agnes Staub, che era l’ultima in ordine di tempo e che nulla dimostrava potesse aver qualcosa di comune con la scomparsa di Paulette Garat e con l’assassinio di Letang!
Forse gli avvenne, perché aveva l’oscuro senso che quella donna, troppo teatralmente fatale nell’apparenza, e quindi virtualmente innocua, doveva nascondere in sé qualcosa di più consistente e di più pericoloso di quella sua bellezza artefatta e di quel suo abbigliamento cinematografico.
Era intuizione e null’altro la sua. Come sempre.
E quel greco o turco o levantino che fosse come aveva fatto a entrare nel quadro?
De Vincenzi s’era disteso sul letto, senza spegnere la lampada del comodino, che spandeva un cono di luce su parte dei cuscini e delle lenzuola e sul tappeto. Tese la mano e prese il foglio coi nomi dei clienti, che il portiere gli aveva restituito, quando lo aveva veduto salire.
Epaminonda Kristopoulos. Doveva essere lui, l’uomo dallo smoking coi risvolti lucidi quasi fossero di latta verniciata a fuoco e dal bottone con l’acquamarina e i brillantini. Camera 38. Secondo piano.
Agnes Staub aveva il numero 31, al primo, la terza dopo la sua, la più vicina alle scale.
Erano rientrati assieme alle due circa, secondo il portiere, a cui lui aveva imposto quell’esercizio mnemonico. Infatti, erano usciti dal dancing all’una e mezza. Diritti in albergo dovevano essere andati, perché le ore due indicate dal portiere potevano esser l’una e trentacinque.
E poi?
Tese l’orecchio. Il silenzio più assoluto. Per la strada sentì il passo affrettato d’un nottambulo, che con tutta probabilità usciva dal Casino. Poi silenzio di nuovo; Cruni faceva la sua fazione dentro l’ascensore.
E Kristopoulos? Si trovava al secondo piano o al primo?
Possibile che fosse soltanto un merlo, come aveva detto il cameriere?
A ogni modo, era la prima volta che metteva piede al Casino. Era stata la tedesca a trascinarvelo?
E il boxeur? L’assassino di Valeri, che era fuggito appena aveva saputo da Kiergine che lui era un commissario di Polizia... Perché aveva ucciso il capo cassiere? Soltanto perché gli lasciasse il passo libero, no di sicuro. Per rubare i due milioni in quel momento, neppure. Non ne avrebbe avuto il tempo, chiusi come erano in una cassaforte blindata. Li aveva rubati prima? Con la complicità del cassiere, allora?
L’ipotesi poteva reggere; ma il fatto che quell’uomo s’era fermato nella sala da giuoco a sorvegliare il russo che giuocava e vinceva, non la smentiva?
Le figure passavano davanti alla mente di De Vincenzi, sovrapponendosi, senza tregua. Il volto livido di Eduard Letang, ch’era stato ucciso anche lui da una stilettata... Si poteva credere che a colpirlo fosse stato l’uccisore di Valeri? Ma come aveva potuto entrare e uscire dall’albergo, senza che nessuno lo vedesse?
Sporgendosi dal letto, De Vincenzi trasse dalla tasca della giacca, che aveva messa sulla seggiola, a piè del letto, i due cartoncini con le roulettes e le cartoline illustrate dirette a Mr. Eduard Letang, chez Fantasio, Nice. Non le aveva ancora osservate. Portavano tutte quell’indirizzo. E dall’altra parte un nome di donna: Anne Marie. Niente altro. Una calligrafia sottile, malsicura. In partenza, il timbro di Avignone. Erano cartoline di fiori, di quelle che si mandano all’innamorato, al reggimento.
Osservò anche i due cart0ncini. Qualche segno sui numeri. Su tutti e due i cartoncini – quello trovato nelle tasche del giovane e quello rimasto nella borsetta di Paulette Garat – erano segnati i medesimi numeri. E quei numeri – De Vincenzi lo ricordava senza possibilità di errore, perché aveva seguito il giuoco di Kiergine con attenzione – erano quelli che a un certo momento facevano vincere al russo più di duecentomila lire.
Si sollevò a sedere sul letto.
Guardava fisso davanti a sé, tenendo sempre i cartoncini e le cartoline in mano.
Un filo gli si era presentato e lui lo seguiva col suo cervello sempre pronto a correre. Dove lo avrebbe condotto?
Il canotto insanguinato... La massa oscura dello yacht di Kamir Pascià sul mare, al largo...
Che c’entrava quel Kamir Pascià, con la cravatta amaranto e il ventre potente e gli occhi accesi come carbonchi?
Lo aveva saputo dal Questore: il turco rappresentava il proprio paese a Ginevra. Era un esperto tecnico per la questione dei debiti della Grecia verso la Turchia. Era giunto a San Remo da Ginevra e il suo yacht, ve lo attendeva. Quella sera s’era recato in Questura, per farsi prolungare il permesso di stazionare in acque italiane. Una pura formalità, per lui che godeva l’immunità diplomatica.
Anche costui perché mai doveva presentarglisi allo spirito come coinvolto in quella faccenda?
Guardò l’orologio. Erano le cinque e mezzo. Dagli spiragli delle persiane chiuse, veniva il primo chiarore dell’alba. Per la strada si sentiva il rumore delle pompe, che inaffiavano l’asfalto.
E dentro l’albergo, silenzio. Tra poco sarebbero discesi i facchini. Sarebbe cominciata la pulizia dei corridoi e delle sale. Si sarebbe sentito lo sfregamento della spazzola sulle scarpe messe dai clienti fuori della porta.
Si lasciò ricadere sul cuscino; ma poi si alzò. Così senza giacca com’era, andò all’uscio, lo aprì lentamente, e si inoltrò pel corridoio.
Dentro l’ascensore, trovò Cruni. Il brigadiere lo vide subito e si alzò.
– Esci...
Sul pianerottolo, gli mormorò:
– Va’ nella tua camera. Riposati fino alle sette. Alle sette in punto scendi ad aspettarmi nel vestibolo.
Cruni indicò col capo la porta della prima camera, quella della tedesca.
– Lì dentro hanno parlato fino a poco fa...
De Vincenzi ebbe un sorriso. Immaginava che razza di colloquio fosse stato.
– Lo so... Va’, ché è già tardi.
Cruni andò a chiudersi nella sua stanza.
Così, il merlo s’era fermato al primo piano. Tra poco – sperando che nessuno lo vedesse – sarebbe andato nella sua camera al secondo... Avrebbe sgattaiolato per le scale e pei corridoi, in pigiama o in mutande con quel suo ineffabile smoking sul braccio...
De Vincenzi ebbe l’impulso di correre su, di entrare in quella camera ancora vuota, di frugar nelle valigie del greco. Troppo pericoloso. Se ve lo avesse sorpreso, avrebbe fatto un baccano d’inferno. Uno straniero! Chi sa quanti Consoli si sarebbero agitati e forse persino il Ministro di Grecia a Roma! E poi? Se non avesse trovato nulla o soltanto qualche scatola di sigarette di contrabbando? No! Certamente avrebbe trovato anche cartine di coca o fiale di eroina e di morfina, con la loro brava siringa di Pravaz. Gli occhi stupefatti di quell’uomo parlavano da soli e chiaramente. Ma a che scopo trovarle?
Tornò nella propria camera.
Si spogliò, immerse la testa nell’acqua fredda, si rase. Aveva spalancato le persiane e la frescura salmastra del primo venticello marino gli dava un senso di benessere come se tutte le cellule del suo corpo si rinnovassero.
Ritto davanti alla finestra, respirò largamente, cacciò nei polmoni quanto ossigeno puro poté.
Il sole batteva sul Casino, radendolo di fianco, dal basso. Le finestre erano tutte chiuse.
Chi aveva portato via due milioni dal tempio della Fortuna bendata?
De Vincenzi finì di vestirsi, poi uscì nel corridoio, andò alla porta del russo, girò il saliscendi ed entrò.
La stanza era vuota!
La sorpresa di De Vincenzi fu forte, ma brevissima.
Kiergine non era fuggito. Non poteva esser fuggito. Quell’assenza doveva avere una spiegazione consona all’anima di quell’uomo oppure tutte le sue conoscenze psicologiche erano errate e le sue teorie fallaci.
E, ad ogni modo, il russo come avrebbe fatto a uscire dall’albergo con Cruni nell’ascensore e il portiere in basso, che aveva le chiavi della porta?
In albergo, doveva trovarsi ancora. Ma dove?
Il letto, non disfatto, recava chiaramente visibile la impronta di un corpo umano sulla coperta. L’agente, che aveva accompagnato Kiergine in albergo e poi nella sua camera, doveva averlo veduto distendersi sul letto e se ne era andato, avvertendo Cruni, sicuro che quello si addormentasse.
La valigetta gialla era sempre chiusa. Quella grande, invece, che De Vincenzi gli aveva permesso di prendere nel pomeriggio dalla camera in cui aveva abitato con la sua amante, era aperta e vi si vedevano abiti e biancheria. Era da lì dentro che aveva tratto lo smoking, che indossava al Casino.
De Vincenzi guardò attornò, sollevò qualche vestito. Lo smoking non c’era. Il russo non si era cambiato. Se avesse realmente voluto fuggire, lo avrebbe fatto. Non si fugge in quel costume, se non ci si è costretti. E lui avrebbe potuto benissimo indossare un altro abito.
Ma, pur rimanendo in albergo, dove s’era cacciato?
Nella camera di Agnes Staub? Era lui che Cruni aveva sentito discorrere con la tedesca?
La cosa era possibile, ma non probabile. Non quadrava con tutto il resto. Se Agnes Staub entrava nel dramma, non era a quel modo.
Eppure...
De Vincenzi uscì nel corridoio e si avvicinò alla porta della donna.
Sentì nettamente il respiro di una persona, che dormiva. Un respiro regolare, dolce, per quanto pieno. Ma era una sola persona a respirare là dentro.
Dunque, colui che vi si trovava fino a poco prima – e che per andarsene doveva aver approfittato del tempo in cui De Vincenzi era rimasto nella sua camera a far toletta – non c’era più. Se fosse stato Kiergine, sarebbe tornato nella propria camera.
Era perplesso. Scrutò le varie porte del corridoio. La camera del morto, di fronte a quella della tedesca. Subito accanto, la camera di Kiergine e di Paulette Garat...
– Imbecille! – mormorò De Vincenzi a se stesso.
Aveva veduto la chiave nella toppa. Lui il giorno prima non l’aveva richiusa.
Dopo un secondo era dentro.
Kiergine, inginocchiato in terra, col busto curvo sul letto, la testa fra le mani, il volto cacciato contro il cuscino di destra, si teneva immobile, come se piangesse o pregasse.
Forse pregava e piangeva assieme, perché, al rumore che aveva fatto De Vincenzi nell’entrare, si sollevò e mostrò il volto supplice e disfatto di chi è stato sorpreso in un’estasi di dolore e di smarrimento.
***
Per qualche minuto, nessuno dei due proferì parola.
Lentamente, l’inginocchiato si rizzò, allontanandosi dal letto.
De Vincenzi vide sul cuscino la cornice d’argento, che fino al giorno prima aveva contenuto il ritratto di Paulette Garat, che lui s’era messo in tasca.
Kiergine seguì il suo sguardo e una vampata di rossore gli colorì le gote.
– Credete anche voi, adesso, che l’abbiano uccisa?
– Perché dovrei crederlo?
– Neppure io lo credo. Non dovreste disperarvi, allora...
– Pregavo... È stato un momento di debolezza... Mi hanno dato da bere troppo cognac...
– Perché vi ha colpito a quel modo?
Si strinse nelle spalle.
– Perché avete voluto perdere tutto quello che avevate guadagnato alla roulette?
Mormorò qualche parola in russo, poi sorrise.
– Fatalità!
– Chi è quell’uomo che vi ha costretto a seguirlo e che poi vi ha colpito?
Gli occhi gli si accesero. Forse, era terrore il suo.
– C’è un solo nome per chiamare Iddio; ce ne sono venti per nominare il diavolo.
Un fanatico. Ma la risposta poteva essere soltanto abile.
– Kiergine, io posso esorcizzare il demonio, se voi mi aiutate. Ditemi chi è quell’uomo e lo farò.
Un altro pallido sorriso.
– Non si farà trovare! Ma guardatevene!
– È lui che ha ucciso Eduard Letang?
Un gesto di meraviglia.
– Perché?
Si capiva che rifletteva a quella possibilità per la prima volta. Scosse il capo.
– Non credo.
– Eppure è stato lui a uccidere il cassiere del Casino!
Questa volta gli occhi del russo si erano riempiti di terrore.
– Lo ha ucciso! Questa notte?
– Dopo aver tolto di mezzo voi.
Di nuovo proferì parole russe, che De Vincenzi non capì.
Era sconvolto. Per la prima volta non riusciva a dominare il proprio turbamento, a nascondere i sentimenti che lo agitavano. Ma quali erano? Certo, quella notizia lo aveva colpito ancor più violentemente dell’uppercut di cui aveva parlato il dottore. Neppure all’annunzio dell’assassinio di Eduard Letang i suoi nervi avevano reagito a quel modo. Allora, aveva citato una frase letteraria, un pensiero da poeta. «Se fossimo abbastanza forti, non penseremmo all’amore». Ma, forse, chi aveva ucciso il giovane francese aveva reso un servizio a Ivan Kiergine, togliendogli dal cammino un rivale.
Questa volta era un’altra cosa. E lui aveva avuto paura.
– Kiergine, è vero che i vostri parenti risiedono a Düsseldorf?
– Non ho più parenti io.
Mentiva.
– E perché vi recavate a Düsseldorf?
Si andava riprendendo. Ritrovava i suoi mezzi di difesa. L’interrogatorio minacciava di assumere il ritmo di quello di Milano, che s’era chiuso con la disfatta del commissario.
De Vincenzi s’irrigidì.
– Ivan Kiergine, oggi siamo a venerdì. Prima di venerdì prossimo voglio aver finito. Per quel giorno avrò conosciuto tutta la verità. Anche la vostra verità. Ricordatevelo!
Neppure un gesto di rassegnazione o di sfida o d’indifferenza. Nulla. L’immobilità. Si sarebbe detto che non avesse udito.
Le pupille, che prima attraverso qualche lampo rivelatore avevano espresso i sentimenti, adesso si eran fatte di nuovo dure come due gemme, fredde come l’azzurro dei mari nordici di cui avevano il colore.
– Tornate nella vostra camera e preparatevi. Alle nove partiremo per Nizza.
Lui si era voltato e De Vincenzi non riuscì a vederlo in volto. Ma le spalle avevano avuto un movimento, che poteva anche essere un sussulto.
Perché poi De Vincenzi aveva deciso di andare a Nizza e di condurlo con sé?
Per quelle cartoline, che aveva in tasca e che recavano l’indirizzo di Eduard Letang, chez Fantasio?
Lui stesso non avrebbe saputo dirlo. Forse, aveva sentito il bisogno di aver l’ultima parola. Forse, quella idea si agitava da un paio d’ore nel suo subcosciente, senza ch’egli l’avesse concretata in modo chiaro.
Forse, il caso gliel’aveva suggerita.
Il fatto è che, quando – dopo aver ricondotto Kiergine in camera sua – De Vincenzi scese nel vestibolo, egli sapeva che sarebbe partito per Nizza.