Capitolo VII

La «vamp»

– Preghi la signora Staub di ricevermi.

E fece segno a Cruni, appoggiato al banco del portiere, di seguirlo.

Il portiere se l’aspettava. Aveva ripreso servizio da dieci minuti. Stava aprendo i cassetti del suo banco, per trarne la cartella coi francobolli, il pacco della carta e delle cartoline, tutto quanto vendeva agli ospiti durante il giorno e che alla sera chiudeva a chiave come un bene proprio. Da dodici anni faceva gli stessi movimenti ogni mattina. Da quando, cioè, ferito in guerra, aveva avuto quel posto di portiere. Ma quella mattina, se i movimenti erano gli stessi, il suo cervello pensava all’arrivo del commissario avvenuto la vigilia e a tutto quello che sarebbe accaduto nell’albergo. Aveva scambiata qualche frase con Cruni, che gli si era avvicinato, e stava cercando di farlo parlare, quando De Vincenzi era entrato.

Passò il cameriere, che veniva dal ristorante con due vassoi carichi di tazze e di bricchi, le colazioni pei viaggiatori mattinieri, e gridò rivolto verso il banco della direzione, dove i due impiegati erano già curvi sui registri:

– Un completo al 29 e due neri al 30.

– Di’ alla signora del numero 31 che un signore desidera parlarle.

Il cameriere si fermò.

– Ma a che ora ha messo la sveglia la signora?

– Non t’occupare della sveglia – rispose il portiere, alzando le spalle. – La sveglia gliela darà lui!

E diede un’occhiata a De Vincenzi, che stava entrando nel primo salotto col brigadiere.

Il cameriere seguì lo sguardo e capì. «Ah!», fece e prese a salire le scale. Così, Agnes Staub avrebbe saputo subito chi era il visitatore, che la faceva svegliare alle otto del mattino.

De Vincenzi s’era seduto in una poltrona sul davanti e da lì vedeva l’atrio e l’ingresso.

– Nessuno si è mosso, dottore...

– E chi volevi che si muovesse, a quest’ora?

Di dover affrontare la tedesca non era lieto. Sapeva di toccare un punto del mistero, uno di quei punti nevralgici, che fanno soffrire. Non sperava neppure di ottenere qualche risultato. Andava letteralmente incontro all’ignoto, muovendosi da quella parte. Nulla e nessuno gli aveva detto che Agnes Staub avesse un legame qualsiasi con gli uomini e con gli avvenimenti di cui si stava occupando. Niente provava che quella donna conoscesse Ivan Kiergine o l’uomo che aveva assassinato Valeri, che avesse conosciuto Eduard Letang o Paulette Garat. Qual nesso poteva correre tra essi? L’apparenza li escludeva tutti. Forse, anche la logica. Eppure, De Vincenzi aveva la sensazione precisa che quella donna sapesse molte cose e che forse avesse partecipato e partecipasse al dramma come attrice.

Ma da qual parte cominciare, per indurla a tradirsi?

Entrarono nel salotto un uomo e una giovinetta. Venivano dalle scale. L’uomo indossava un soprabito grigio chiaro e portava in mano una piccolissima valigia di cuoio rosso. In testa aveva un cappello grigio. Il grigio era il colore caratteristico di quell’individuo, che aveva una barbetta a punta d’un biondo cenere e gli occhi chiari affondati nelle orbite, sotto due sopracciglia quasi bianche. Anche la pelle del volto aveva quel malsano colore grigiastro dei biliosi o dei dispeptici.

La ragazza aveva la testina bionda, liscia e lustra come un uovo d’oro. Le gote rosee, le labbra rosse e carnose; gli occhi azzurri, smisuratamente aperti, avevano la luminosità di un giardino di tulipani e di ortensie sotto il sole. Il corpo, già tutte curve femminee, appariva rivelato e messo in risalto da una camicetta di seta bianca e da una sottana corta al ginocchio. Non portava cappello sopra i capelli lisci e tirati, che finivano in due trecce raccolte e strette alla nuca.

L’uomo andò a sedersi in un angolo e la fanciulla lo seguì. Passando davanti a De Vincenzi, ella lo aveva guardato appena un istante, ma curiosamente, con quei suoi occhi limpidamente ingenui e pur avidi.

De Vincenzi non dubitò neppure che fossero Conrad van Lie e la nipote Anny Ribens. Il gioielliere di Amsterdam aveva dichiarato di provenire da Parigi. Da Parigi o da Nizza? si chiese e il suo fu un pensiero vago, fugace, uno di quei pensieri in secondo piano, che non si afferrano se non in seguito. Ma perché proprio da Nizza? Ormai sentiva in sé il bisogno di considerare quella città come il centro di tutta l’azione, soltanto per il fatto che gli avevano dato un libretto di assegni allo scoperto e che Eduard Letang si faceva arrivare la posta «chez Fantasio»!

Ma, infatti, come mai quel giovanotto non aveva trovato, in tutta Nizza, un recapito migliore? Non aveva un albergo? E Anne Marie gl’inviava le cartoline illustrate presso un music-hall, che era anche e soprattutto una bisca, un tripot da gente in smoking e in décolleté, una sale boîte a ogni modo!

De Vincenzi ci aveva messo piede una volta, proprio per curiosità, quando era stato a Nizza in missione di tre giorni presso il Consolato italiano. La missione era puramente amministrativa – alcuni dati da raccogliere sui registri del protocollo consolare – e lui aveva avuto tutto il tempo, in tre giorni, di visitare la città da piazza Massena alla Californie, da Saint-Etienne al Castello. Alla notte aveva girato in compagnia del suo collega addetto al Consolato i locali di divertimento nizzardi e li aveva trovati semplicemente infernali, con quel loro ossessionante «baccarà».

I due olandesi avevano ordinato la colazione. Il cameriere s’era fermato davanti a De Vincenzi per dirgli:

– La signora la riceverà a minuti.

Ma i minuti erano lunghi. Una bella pretesa, però, la sua, di far alzare dal letto una donna che si era coricata alle due e che aveva conversato fino alle cinque! Purché la tedesca non volesse curare i particolari della toletta, per apparirgli donna fatale! Gli avrebbe fatto perdere il treno per Nizza.

Cruni se n’era andato a fumare sul marciapiede, davanti alla porta dell’albergo.

De Vincenzi si alzò e andò a sfogliare le riviste sul tavolo di centro.

Osservava il gioielliere e sua nipote. Mangiavano sempre. Tanta marmellata, tanto burro, le tazze colme di caffelatte. L’uomo lanciava di continuo occhiate all’intorno. Due o tre volte guardò De Vincenzi.

Il cameriere tornò.

– La signora l’attende.

Lo aspettava, infatti, ritta in mezzo alla camera. Aveva indossato un pigiama nero, tutto chiuso, con la casacca liscia da cui uscivano le brache molli strette alle caviglie, come l’abito di un cinese, con in mezzo al petto un cerchio rosso racchiudente strani geroglifici d’oro. Ma, forse, era proprio un abito cinese, quello che indossava Agnes Staub. Non s’era truccato il volto – se non le labbra, che apparivano laccate di corallo – e la sua pelle aveva una bianchezza lattea, densa, con due segni violacei sotto gli occhi, che erano leggermente fissi, con le pupille dilatate, enormi. Doveva aver dedicato tutte le sue cure di quei dieci minuti che aveva fatto attendere il visitatore ai capelli, perché li aveva lisci, meravigliosamente ondulati, più che mai perfette ali d’oro dalle tempie al collo, che cingevano in un cerchio aperto al mento.

Sul letto era gettata una stoffa di seta grigia pesantemente ricamata in argento e oro, che tutto lo copriva, come una coltre funebre. Sempre più cinema! Una messa in iscena assurda e irritante. E i mobili attorno eran quelli dell’albergo di legno giallo, lucidi, squadrati, con l’armadio, ch’era anche cassettone e aveva per metà lo specchio lungo e per metà i cassetti, e il piccolo tavolo con le gambe troppo sottili e un vetro doppio per ripiano... Una grande valigia scura, chiusa... Un servizio da toletta di argento sul tavolo.

E appena dentro, un odore forte, strano, che prendeva insensibilmente alla gola, producendo la nausea. La finestra era spalancata e quell’odore non s’era ancora tutto disperso.

La donna aveva detto: «Entrez!» con voce sonora e adesso attendeva, fissandolo con quelle sue pupille impressionanti.

De Vincenzi dovette fare uno sforzo per parlare.

– Dove si trovava lei, signora, la sera del due giugno, mercoledì?...

Bitte?... Prego...

– Parla italiano?

– Meglio il francese.

Non era vero. Anche l’italiano lo doveva parlare bene, forse con meno accento anche.

Le parlò francese.

– Perché vi trovate a San Remo?

Dal momento che aveva elusa la prima domanda, occorreva rifarsi da un’altra parte.

– Ma voi chi siete?

– Un commissario di Polizia!

La donna sorrise.

– Molta sorveglianza in Italia, sugli stranieri...

– Non molta, mi sembra, se ne assassinano uno nella propria camera!

– Ho saputo! Sono stata anche pregata di rimanere qui. Sarei rimasta ugualmente, del resto.

– Perché siete venuta a San Remo?

Era idiota! Sentiva che quel colloquio non lo avrebbe fatto avanzare d’un passo. E poi quel letto che sembrava un catafalco! E quel cerchio di sangue luminoso in mezzo al petto...

– Mi piace molto giuocare! Adoro il rischio... l’avventura...

Lo diceva con voce interrotta dallo sforzo di cercar le parole, ma fredda, monotona. Una frase del suo repertorio di donna fatale!

Che fatica! De Vincenzi sentiva l’impulso di strappar via dal letto la grottesca coperta. Gli sembrava che le lenzuola disfatte, l’impressione del corpo – o dei corpi? – sul materasso lo avrebbero aiutato a veder l’anima di quella donna, a disperdere l’impressione di commedia mascherata, che dominava là dentro.

L’odore acre, irritante, diminuiva.

Cominciò a prevalere il profumo della donna, più dolce, ma non meno penetrante. Un profumo di carne trattata con gli unguenti e le creme. Di donna bionda; animalesco, naturale, rivelatore.

Si sarebbe detto che lei pure se ne fosse accorta perché le nari larghe, arcuate, le avevano palpitato e il labbro superiore s’era proteso.

– Quando siete giunta a San Remo?

– Sul registro dell’albergo deve esservi scritto...

– Quanto denaro avevate con voi?

– Dalla Germania non si possono portare via più di trecento marchi.

– Quanti ve ne restano?

La interrogava, adesso, di proposito come se si fosse trattato di una donna da strada. Voleva farle capire che non s’era lasciato ingannare dalla messa in iscena. Ma sentiva d’andar troppo oltre, di trovarsi dalla parte del torto: non gli mancava che di frugar nella valigia e di chiamar la sorvegliante che la perquisisse sulla persona.

Lei capì che l’esagerazione passava i limiti.

Lo guardò, senza rispondere. Le labbra le fremevano impercettibilmente. Di sdegno o di spavento?

De Vincenzi non aveva ancora trovato il punto di minor difesa. Una porta chiusa. Una spada senz’elsa.

– Siete stata a Nizza?

Un piccolissimo sussulto.

– Naturalmente. E anche a Montecarlo.

– A San Remo siete venuta da Nizza?

Lo avrebbe potuto leggere sul passaporto. Andava sempre più brancolando.

– Sì.

– Avete conosciuto Eduard Letang?

– Veduto! L’ho veduto qualche volta in albergo...

– E Ivan Kiergine?

– Chi è? Il russo? Ho parlato anche con lui... Al Casino si parla con tutti!

– E Paulette Garat?

– Una bella Fraülein...

E Valeri, il cassiere del Casino?

Rise. Sembrava divertirsi a quel rosario di nomi.

– Lo conoscevate? – insisté De Vincenzi.

– No.

A che scopo continuare? Alle nove lui doveva partire per Nizza!

– Epaminonda Kristopoulos è vostro amico?

– Oh! Sì... buon amico... per quanto... Sono due giorni che ha voluto essermi presentato!

– Da chi?

Alzò le spalle, meravigliata che un funzionario italiano perdesse il suo tempo a far domande simili. Non sapeva come avvenivano quelle presentazioni? Già! Ma era poi una presentazione di quelle?

De Vincenzi avrebbe pagato qualcosa per saperlo. Anche quel greco coi suoi sguardi da attossicato – l’odore! L’odore di prima nella camera non era etere o qualcosa di simile? – poteva avere una parte un po’ diversa da quella apparente! Tutta una banda. E il capo – alto un metro e cinquantacinque e forte come un torello – era fuggito... Ma quale consistenza aveva una simile teoria?

– La notte scorsa... prima che voi scendeste al dancing...

La donna si fece attenta.

– ... hanno ucciso il cassiere del Casino...

– Un altro morto!

Questa volta un lampo di terrore gli era passato negli occhi.

– Già, un altro morto. E non sarà l’ultimo, se non s’interviene a tempo!... L’uomo di Fantasio...

Tirava colpi a casaccio. Ma lei a quella parola s’era fatta ancor più bianca.

– Anche voi avevate il vostro recapito «chez Fantasio», a Nizza?

– Non è vero.

De Vincenzi sorrise: aveva soltanto domandato e lei negava a quel modo ch’era una confessione. Tutta una banda!

Guardò l’orologio. Mancavano venti minuti alle nove. E doveva condurre con sé Kiergine.

– Vi prego di non muovervi da San Remo...

– Lo so!

– E poi non lo potreste, perché siete sorvegliata.

– Durerà molto?

– Fin quando abbia saputo chi ha ucciso Letang e dove si trova Paulette Garat.

– Bene. Cercate di fare in fretta. Se dovesse durare a lungo, mi vedrei costretta a ricorrere al mio Console.

– Naturalmente!

Ma un’altra caratteristica di quella storia era che, pur essendo tutti stranieri, nessuno ancora aveva fatto ricorso al proprio Consolato!

S’inchinò e uscì.

Si fermò qualche istante ad ascoltare dietro all’uscio, che aveva chiuso, ma non sentì nulla. Neppure che la donna si muovesse.

Trovò Kiergine disteso sul letto della sua camera. Fumava. Si volse, vide De Vincenzi e saltò dal letto.

– Realmente volete condurmi a Nizza?

– Certo!

– No!

– Perché?

– Non potete! Nessuno ve ne dà il diritto. Uscireste dai confini del vostro Stato. Potrei invocare la protezione della Sûreté francese...

– Fatelo!

– Certo che lo farò! Ma voi non m’obbligherete a seguirvi! Sarebbe mostruoso! Sarebbe contrario al diritto internazionale.

Non aveva detto mai tante parole. Era in preda a un vero orgasmo. Non si poteva capire di che cosa avesse paura.

De Vincenzi gli si avvicinò.

– Ascoltatemi, Kiergine. Voi lo sapete; tutte le apparenze sono contro di voi, dal fatto che il canotto insanguinato vi apparteneva, alla vostra fuga da San Remo. Se non potete aver ucciso materialmente Eduard Letang, è certo che l’ucciso era vostro amico e che voi non volete dir nulla di lui. Ieri sera, al Casino, avete agito nel più strano e nel più compromettente dei modi, fino a farvi quasi accoppare con un pugno da un uomo, col quale eravate in evidente relazione di amicizia e di... complicità, e quell’uomo ha ucciso il cassiere del Casino. Non è finito! Dalle casseforti del Casino sono stati rubati due milioni... Volete di più?

Kiergine lo ascoltava. S’era improvvisamente placato. Tutta la sua agitazione sembrava livellata, come le onde in tempesta, quando vi si versa sopra l’olio a barili. Quell’enumerazione lo lasciava indifferente. Si sarebbe detto che tutti quei fatti non lo riguardassero neppure.

De Vincenzi capì che a quel modo non avrebbe ottenuto nulla. O si sentiva davvero innocente oppure il fatalismo della sua razza gli faceva considerare come già avulsa da sé ogni azione compiuta, perché irrimediabilmente compiuta.

– E Paulette Garat? Voi amate Paulette Garat! Perché non volete aiutarmi a ritrovarla?

Alzò una mano e la lasciò ricadere per dire: che posso fare? Ma si riferiva a qualcosa di più profondo, di più terribile, che non le contingenze materiali, la volontà degli uomini. Come si fa a lottare contro il Fato?

Era stata la donna ad abbandonarlo? Lui sapeva che la lotta per riprenderla sarebbe stata inutile? Oppure la riteneva davvero morta?

– Perché non volete venire a Nizza? Che cosa temete laggiù?

– Voi stesso non andateci!

– Chi è l’uomo che vi guardava giuocare e contro gli ordini del quale avete perduto tutto il danaro vinto?

Il russo lo fissò, alzando le sopracciglia con stupore sincero. La sua era piuttosto ammirazione, anzi.

– Perché pensate questo? Al giuoco si può vincere, ma si può perdere con assai maggior probabilità...

– Quanto avete vinto?

– Non conto mai il danaro che ho davanti, quando giuoco. Porta malheur!

– Trecentomila, come la sera prima che Paulette Garat scomparisse?

– Può darsi.

– Dove avete messo quelle trecentomila lire?

– Perdute di nuovo.

De Vincenzi sapeva che non era vero. Aveva cambiato i gettoni e le placche alla cassa ed era uscito con Paulette. Le aveva date alla donna? Costei era stata uccisa da qualcuno, che aveva voluto togliergliele? O più semplicemente ella era fuggita, quando s’era trovata in possesso della somma?

– Dunque, voi non volete che ritroviamo la vostra amante?

Ancora uno di quegli sguardi pieni di rassegnazione dolce e melanconica. Sembrava chiedere pietà. Lui avrebbe voluto ritrovarla! Avrebbe voluto che tornasse sua!... Ma era poi questo quel che diceva quello sguardo?... De Vincenzi combatteva contro un enigma vivente, tanto più incomprensibile quanto più lontano da lui per sentimento, abitudini, sangue.

– Mettetevi il cappello e prendete la valigia... se volete. Non c’è più tempo da perdere – e si diresse alla porta.

La voce del russo suonò questa volta stridente, assai più alta del consueto. Era lacerata dalla commozione e forse dall’ira.

– Badate, commissario! È un assassinio quello che state per commettere!

De Vincenzi si voltò.

– Ci sarò io a proteggervi!

– No!.. no!... – gridò l’altro. – Non è per me!... Non capite. Non potete capire!... Non tenteranno di uccidere me!...

– E chi, allora?

Esitò. Stava per parlare. Fece anche un passo verso De Vincenzi. Si trattenne. Crollò violentemente il capo. Girò su se stesso, afferrò la valigetta gialla e disse:

– Andiamo!

Ma era destino che il treno delle nove per Ventimiglia non dovessero prenderlo.

Erano giunti appena in fondo alle scale, il commissario avanti e Kiergine dietro, tranquillo ormai, soltanto ancora più pallido del consueto, quando il proprietario dell’albergo corse loro incontro. Dietro di lui De Vincenzi vide Cruni, il portiere, i volti curiosi dei camerieri. E infine Conrad van Lie, le cui guance da grigie s’eran fatte cianotiche.

– Venga qui commissario!...

L’albergatore appariva sconvolto. Afferrò De Vincenzi per un braccio e lo condusse nel salotto. Anny Ribens stava ancora seduta davanti al vassoio della colazione. Si voltò appena. Lo zio camminava al fianco del commissario.

Cruni era rimasto sulla soglia del primo salotto e impediva ai camerieri di entrare.

Con la sua valigetta in mano, Kiergine non s’era mosso di dove si trovava, al termine delle scale, presso l’ascensore.

L’albergatore entrò nella sala di lettura, seguito da De Vincenzi e dall’olandese.

– Il signore – e indicò van Lie – aveva quella valigia piena di brillanti... Guardi adesso!...

Non poteva dir altro. Tendeva la mano verso la piccolissima valigia rossa, che l’olandese aveva sotto il braccio. Certo doveva essere più che altro ira quella che lo sconvolgeva. Fremeva tutto.

De Vincenzi guardò il gioielliere. Questi corse verso il tavolo centrale, vi depose la valigetta, l’aprì. Si voltò anche lui verso De Vincenzi e indicò l’interno di quella specie di scatola rettangolare di pesante cuoio rosso.

Non si vedevano che giornali. Lui rovesciò la scatola; sul tavolo rimase un pacco di giornali e di riviste. Il commissario ne toccò qualcuno: giornali italiani, tedeschi, inglesi, riviste d’ogni genere, la maggior parte di turismo.

– E il signore dice che era piena di brillanti. Gli faccia capire che la sostituzione non può essere stata operata nel mio albergo! Ieri il signore è stato assente tutto il giorno e aveva con sé la valigetta!... Come vuole che...

S’interruppe perché De Vincenzi lo fissava.

– Parlate francese? – chiese il commissario, voltandosi verso van Lie, dopo una pausa.

– Italiano... Parlo anche l’italiano!

Che strana voce! Calda, musicale, sonora. Una voce di petto. Non sembrava neppure che uscisse da quel corpo, magro e miserello, da quella bocca dalle labbra sottili, esangui. E la barbetta grigia gli si agitava appuntita, irrequieta, mentre parlava.

– Quando vi siete accorto della sparizione?

– Dieci minuti fa... Ho voluto aprire la valigia per assicurarmi di non aver dimenticato la cartina dei solitari rosa... Dovevo andare stamane sullo yacht di Kamir Pascià, per concludere l’affare... I solitari si trovavano sul fondo, perché ieri ho visitato clienti di minore importanza... Adesso volevo metterli per primi... Ho aperto la valigia!...

Guardò il pacco dei giornali e delle riviste, la valigetta rossa, che giaceva vuota sul tavolo. Aveva lo sguardo smarrito, agitava le mani con un movimento convulso.

E la nipote, nella stanza accanto, se ne stava ancora seduta davanti alla colazione.

– Che valore?

– Oltre centomila fiorini!

Qualcosa come un milione di lire e più. Era l’inchiesta dei milioni! De Vincenzi non s’era mai dovuto occupare di furti simili. E neppure di un susseguirsi così serrato di casi delittuosi. Si sarebbe detto che il ritmo degli assassinii e dei furti fosse aumentato, fino a divenire frenetico, da quando lui era giunto a San Remo. Da neppure venti ore, vale a dire!

– Ieri sera avevate verificato il contenuto della valigia?

– No. Perché avrei dovuto farlo? Non l’ho abbandonata un solo istante.

– Ecco! Vede? – gridò il padrone.

– Non vedo nulla! – fece De Vincenzi. – E questa notte la valigia dove è rimasta?

– Non la consegna neppure al bureau! – borbottò l’albergatore.

– Sotto il mio cuscino – affermò l’olandese. – Come sempre.

De Vincenzi trasse di tasca il foglio con l’elenco degli ospiti dell’albergo e lo consultò rapidamente. Il gioielliere aveva la camera 63, al terzo piano. Al 62 c’era la nipote.

Il 64 era la camera di Epaminonda Kristopoulos...

Si rimise il foglio in tasca. Diede un’occhiata ai due uomini.

– Sta bene, signor van Lie; non si muova dall’albergo. Avrò ancora bisogno di lei.

E uscì nell’atrio.

Kiergine stava sempre in piedi, con la valigia in mano. De Vincenzi si avvicinò all’orario ferroviario appeso al muro, presso il banco del portiere.

Per Ventimiglia c’era un altro treno alle undici.

– Se volete, tornate pure nella vostra camera, Ivan Kiergine... Partiremo alle undici...

Il russo si diresse verso la sala di lettura.

De Vincenzi salì al primo piano e picchiò alla porta di Agnes Staub.

– Entrez!

La donna era distesa sul letto, dal quale aveva tolto, rovesciandolo sulla spalliera, il broccato grigio e argento. Indossava ancora il pigiama cinese.

Non si voltò neppure e chiese:

– Che cosa c’è, Giovanni?

Credeva fosse il cameriere.

– A che ora Epaminonda Kristopoulus è venuto nella vostra camera questa notte?

Balzò a sedere sul letto. Portò subito le mani alla testa, comprimendosi le bande dei capelli contro le tempie, per il timore di mostrarsi spettinata.

– Che cosa dite?

– Questa notte hanno rubato i brillanti di van Lie... Scoppiò in una risata.

– Ma rubano tutto, a San Remo!

– Già. E voi ve ne meravigliate!

– Io? No. Ma chi è van Lie?

– Un gioielliere olandese, che ha la sua camera accanto a quella di Kristopoulos.

– Ah!

E rise ancora.

– In ogni caso i brillanti non li ha dati a me!