Capitolo VIII
Coincidenze!
De Vincenzi condusse le prime indagini per il furto dei brillanti in modo sommario e rapidissimo. Era troppo convinto, oramai, che tutti quegli avvenimenti fossero legati fra loro, per non pensare che, quando avesse trovato il bandolo di uno di essi, avrebbe in pari tempo sbrogliato tutta intera la matassa. E il furto compiuto ai danni di van Lie non era che uno degli anelli della catena e certamente non il più importante e il più significativo.
Compiuto con grande destrezza, indubbiamente! Preparato da lunga mano, curato in ogni particolare, e come!
In quale momento preciso del giorno prima o della notte, il ladro aveva potuto vuotare del suo contenuto prezioso la valigetta rossa e riempirla di giornali? Non doveva esser stato facile eludere la diffidente sorveglianza dell’olandese e a ogni modo sembrava impossibile che qualcuno avesse potuto introdursi di notte nella di lui camera, togliergli la valigetta di sotto il cuscino, vuotarla e rimetterla al suo posto. Per far questo avrebbe dovuto narcotizzare il gioielliere, il che era escluso.
E la nipote? Quella placida fanciulla dagli occhi azzurri e dai capelli di seta gialla, che s’era mantenuta estranea e lontana, quanto più lo sconvolgimento dello zio appariva profondo e angosciato, non avrebbe dovuto costituire un altro impedimento all’azione del ladro, dato che ella non si era mai allontanata dal fianco del gioielliere?
De Vincenzi aveva ricostruita tutta la precedente giornata di van Lie, s’era fatto tracciare l’itinerario percorso in San Remo e fuori, a Ospedaletti, a Bordighera, a Ventimiglia, aveva preso nota di tutti i clienti visitati, dei locali in cui sua nipote e lui s’erano fermati e non aveva trovato il più piccolo indizio capace di dirigere le sue ricerche.
Epaminonda Kristopoulos dormiva ancora e De Vincenzi non lo aveva svegliato. Voleva serbarsi il greco per ultimo.
Per lui, oramai, il punto centrale del mistero tornava a essere la scomparsa di Paulette Garat. Si rifaceva dal principio. Canotto insanguinato e cadavere di Eduard Letang. Quando avesse ritrovato, viva o morta, l’amante di Ivan Kiergine e quando avesse saputo chi aveva ucciso il giovane francese, si sarebbe trovato in grado di squarciare il mistero.
L’enigma di Ivan Kiergine l’ossessionava.
E sempre più si convinceva che a Nizza avrebbe avuto l’attesa rivelazione.
Ma quale rivelazione attendeva, lui?
Era presumibile che l’uomo dal collo taurino e dalle mani da strangolatore fosse fuggito in Francia?
Aveva terminato d’interrogare per la seconda volta van Lie, quando Racheli tornò.
– Credevo di non trovarti!
– Il tuo capo direbbe: la serie continua. Un altro milione s’è messo a ballare!
Racheli socchiuse le palpebre e fece una smorfia.
– In che modo?
De Vincenzi glielo disse.
– Tutta una banda! – esclamò a mo’ di conclusione il commissario di San Remo. – E doveva capitare proprio sulla Riviera!
Era preoccupato. La sua placida vita da qualche giorno era sconvolta. Fino allora tutto il suo lavoro s’era limitato a una blanda e burocratica sorveglianza sugli ospiti della città, ch’eran poi per la maggior parte frequentatori del Casino. Certo, alcuni d’essi apparivano poco raccomandabili. I disperati di ogni parte d’Europa piovevano lì. Ma davano un fastidio relativo e tutto si riduceva a farne rimpatriare qualcuno e ad arrestarne qualche altro di tanto in tanto, per conto di altre Questure o di Polizie straniere. E adesso proprio San Remo era diventato il teatro di assassinii misteriosi, di furti iperbolici, di rompicapi polizieschi, peggio di un romanzo di quelli che lui non leggeva mai!
De Vincenzi lo fissava, campiangendolo dentro di sé, poiché si rendeva perfettamente conto del suo smarrimento.
– Hai telefonato alle stazioni?
– Sì – grugnì l’altro. – Sono discese a Genova. Me lo hanno telefonato poco fa. Si sono allontanate dalla stazione, fra un treno e l’altro, e sono ripartite col diretto per Milano. Sapremo oggi il resto.
– A ogni modo, non dimostrano di avere un gran desiderio di arrivar presto dalla vecchia nonna, a Cavarzere! Non è il morto che le preoccupa.
– Tu sei sempre determinato di recarti a Nizza?
– Più che mai.
Parlavano nell’atrio dell’albergo. Kiergine era rimasto nella sala di lettura. Quell’uomo aveva la specialità delle soste interminabilmente immobili. S’era seduto in una poltrona, con la valigetta accanto e sembrava non vedere e non sentire nulla di quanto si svolgeva attorno a lui. Cruni stava sulla porta della sala. I camerieri, passando per salire ai piani, lo guardavano in modo strano, facendo il giro largo e, nel ristorante, mentre apparecchiavano le tavole, parlavano tra loro a bassa voce, si scambiavano occhiate, ogni tanto lanciavano una frase velatamente ironica.
Van Lie e la nipote eran rimasti nel loro angolo, dove avevano fatto colazione. Il gioielliere aveva deposto la valigetta vuota sul tavolo, al posto del vassoio. Accanto si vedeva il pacco dei giornali e delle riviste. Di tanto in tanto, picchiava un colpo con la mano su quegli innocenti complici del ladro. Parlava da solo, a frasi mozze, perché la nipote, rosea, sorridente, dorata, non faceva che fissare in lontananza il mare, dalla vetriata aperta, oltre l’edificio bianco e inespressivo della stazione.
A un tratto il gioielliere si alzò e corse fuori. Dal suo posto aveva potuto vedere De Vincenzi e si dirigeva verso di lui.
– Che cosa intendete fare? Bisogna muoversi! Io sono rovinato se non ritrovate tutti i miei brillanti.
Aveva afferrato il commissario per un braccio e lo stringeva, con la sua mano magra, ossuta, ch’era anch’essa grigia per la peluria biancastra che la copriva.
– Li ritroverete?... Ma se non fate nulla! Ja, mijnheer! Ik geloof dat het te laat is!
Parlava olandese e la sua voce sembrò di colpo meno dura, meno profonda, quasi musicale.
De Vincenzi lo guardò. Racheli borbottava fra i denti.
– Avete qualche trattativa ancora in sospeso? Quanto contavate fermarvi a San Remo?
– Che volete che faccia con la valigia vuota? Mi hanno portato via tutto, capite? Tutto!...
– Un momento, signor van Lie. Non ho guardato il vostro passaporto. Da dove venite direttamente, voi?
– Dalla Francia! – fissava il commissario con stupore. – E che c’entra questo? Se vi dico che ieri i brillanti c’erano tutti! Chiedetelo a coloro ai quali li ho mostrati.
– Non c’entra. Nessuno dubita che voi aveste i brillanti. Nessuno dubita neppure che ve li abbiano rubati. Ma voi vi siete fermato a Nizza?
– Naturalmente. Tutti i gioiellieri di Place Massena conoscono van Lie. I due solitari, che dovevo portare oggi a Kamir Pascià, sono stati esposti per un mese nella vetrina di Cartier... e in tutta la vetrina non c’erano che quei due brillanti sopra un cuscino... Zeker, mijnheer! Proprio così!
Dunque, veniva da Nizza anche lui.
De Vincenzi guardò l’orologio, non aveva che un quarto d’ora per prendere il treno.
– Signor van Lie, faremo tutto il possibile per ritrovare i vostri brillanti. Ma non illudetevi che possa essere per oggi o per domani. Non potete far altro che rimaner qui ad aspettare.
E gli voltò le spalle per rientrare nella sala di lettura.
Kiergine, quando lo vide, si alzò e afferrò la valigetta. Non ebbe bisogno di dirgli nulla. Si avviarono assieme. De Vincenzi si fermò e diede a Cruni, in fretta e a bassa voce, alcune istruzioni, poi prese la sua valigia che il brigadiere gli porgeva e raggiunse Kiergine.
Si allontanarono, mentre l’olandese continuava a parlare con Racheli, che lo ascoltava con quella sua attitudine immusonita e quel suo volto scolpito nel sasso, la testa incassata fra le spalle, il cappello duro sugli occhi.
***
Alla frontiera di Ventimiglia, discesero per cambiar treno.
Il commissario francese di servizio al controllo dei passaporti timbrò, senza quasi guardarlo, quello di Kiergine e si fermò col timbro in aria a quello di De Vincenzi.
– In missione?
– Sì e no...
Il commissario sorrise.
– Dove andate?
– A Nizza.
– Ah! Vi consiglio di recarvi a trovare il commissario Loret, alla sezione di via Gioffredo... Vi potrà essere molto utile...
De Vincenzi guardò dietro di sé. C’erano ancora una diecina di viaggiatori, che aspettavano pel visto.
– Quando avrete finito, venite a bere un aperitivo...
– Volentieri – fece il commissario e riprese a timbrar passaporti.
De Vincenzi si fermò poco distante. Erano nella grande sala dei bagagli, coperta da una tettoia a vetri. Si vedeva il trenino per Nizza e Cannes pronto sul binario, proprio davanti alle porte della sala. I viaggiatori passavano davanti al controllo e andavano a prender posto nei vagoni.
Una luce abbacinante, una luce da mezzogiorno africano, si diffondeva dovunque, in ogni angolo, tra le casse e i bauli, sulle banchine, avvolgeva il trenino, un locale Ventimiglia-Cannes, che serviva soprattutto Montecarlo, da Mentone a Cannes. Sotto la tettoia il caldo era da fornace.
Kiergine si teneva in mezzo alla sala, aveva deposto la valigia ai suoi piedi, fissava il vuoto davanti a sé.
– Ecco finito! Avete venticinque minuti prima che il treno parta. Andiamo fuori...
De Vincenzi fece segno al russo di seguirlo.
– Sta con voi? – chiese il commissario francese, con uno strano accento nella voce. – Quale affaire avete tra le mani? Se posso esservi utile...
Era soprattutto curiosità, la sua. Una curiosità morbosa da uomo abituato a sguazzar tra gli affaires criminali delle grandi città e che avevano relegato al confine, in una città dove la noia stagnava visibile e palpabile, tra le case, sui giardini, sulla lastra arroventata di quel mare di cobalto, da Capo Sant’Ampeglio a Capo Mortola.
Erano usciti sulla piazza. Il francese si diresse al caffè, ch’era di fronte alla stazione.
– Questo è il caffè dei pappagalli! Li vedete?
Erano lì in mostra. Una moltitudine di pappagalli di seta, di tutti i colori più violenti, appesi sopra ogni tavolo, e dentro, nelle tre sale.
– Di sera si accendono nell’interno della pancia e fanno luce... Questo è il luogo di ritrovo di Ventimiglia.
C’era tutta la sua amarezza in quelle parole. Era un giovanottino. Avrà avuto venticinque anni. I baffetti neri, i capelli lustri, gli occhi luminosi.
Una bella figliola, che stava, con le mani sui fianchi, tra i tavoli esterni del caffè, gli sorrise.
– Buon giorno, monsieur Charles!
– Adieu, Carmen!... Che prendete, voi? – s’era rivolto al collega. Fingeva d’ignorare la presenza di Kiergine, che li seguiva a neppure un passo di distanza. Col fiuto sicuro del poliziotto, lui aveva capito che il russo doveva essere un indiziato, un colpevole forse, e che De Vincenzi se lo trascinava dietro per cucinarlo.
– Qualunque cosa. Quel che prendete voi di solito.
– Due Martini con un po’ d’amaro, Carmen! Ma ben ghiacciati...
– Allora – intervenne De Vincenzi – tre Martini, signorina.
– Ah! – fece il francese e guardò Kiergine, che, appena raggiunta la linea dei tavoli, s’era seduto al primo che aveva trovato.
Loro due sedettero a una certa distanza.
– Sono molti coloro che passano il confine clandestinamente?
– Inseguite qualcuno?... Sì, sono molti. Per quanta vigilanza s’adoperi, non si riesce a chiuder tutti i buchi. Sforano dovunque. Guardate! Proprio ieri ne son fuggiti due, passando pel cornicione della tettoia... Lì in alto, vedete?, proprio davanti a noi...
E indicava l’edificio lungo e basso della stazione.
– Tutti li han visti. Correvano un po’ curvi e questo era il l0ro modo di nascondersi. Due giovanotti scamiciati. Piegarono là in fondo, verso il monte e scomparvero. Andate a prenderli!...
S’interruppe. Guardò De Vincenzi.
– Stanotte ho ricevuto la segnalazione di un individuo fuggito da San Remo... un certo Bernard Kauffmann... Aspettate... ricordo anche i dati del ritratto parlato...
– Sì... quello! Un nome falso, naturalmente...
– E credete sia passato di qui?
De Vincenzi si strinse nelle spalle.
– Saperlo!... Piccolo... meno di un metro e sessanta... tozzo... robusto... una faccia da boxeur e i bicipiti adatti a esserlo...
– Può essersi truccato, dite voi?
– Tutto è possibile. Ma non credo che abbia preso il treno. Se ha varcato il confine, deve avere un posto sicuro di passaggio, attraverso la montagna...
– Quando è fuggito?
– Iersera, dopo le dieci...
– Questa notte ero di servizio io. Poca gente sui treni. E certamente nessuno con quei connotati... Nessuno neppure che m’abbia dato sospetto... Sapete? Noi oramai sentiamo i passaporti falsi all’odore... Quanto basta, del resto, perché ce ne passi sotto il naso più di uno.
Era allegro. Guardava Kiergine, che beveva il suo Martini lentamente.
– E quello lì?... Lo debbo aver veduto altre volte... Aspettate!... È passato da Ventimiglia una quindicina di giorni fa... Non era solo...
De Vincenzi s’era fatto attento.
– E poi? Cercate di ricordarvi...
– È importante?
– Piuttosto...
– Di che si tratta?
– Non leggete i giornali?
– Io? No... Qui a Ventimiglia non li leggo più. A che scopo?
– Dunque, quindici giorni fa? Con chi era?... Si tratta di un assassinio... di due, anzi, e forse di tre, se la donna scomparsa non si fa ritrovar viva!...
– Con una donna, certo!... Del resto vi potrà dare qualche notizia l’albergatore... – e indicò la porta dell’albergo attigua al caffè, dove essi stavano seduti. – Hanno passato la notte a Ventimiglia...
De Vincenzi si alzò. Il francese finì di vuotare il bicchiere che aveva davanti. Mise una moneta sul tavolo.
Kiergine li vide muoversi e si levò. Anche lui aveva fatto suonare una moneta d’argento sul vassoio. De Vincenzi gli fece segno di rimanere e quell0 sedette di nuovo.
Il padrone dell’albergo mosse incontro al commissario francese, col sorriso sulle labbra e con tutta la velocità consentitagli dalla sua enorme mole.
– Vous êtes là, monsieur Charles! Qu’est-ce qu’il y a pour votre service?
– Mon cher ami! Il commissario De Vincenzi di Milano ha bisogno di qualche informazione da voi, monsieur Pasquale. Io gli ho detto che avete un’ottima memoria...
Il sorriso scomparve dalle labbra dell’uomo e il suo faccione di obeso cuor contento si fece scuro.
– Di che si tratta?
– Andate ad osservare quel signore che è seduto a un tavolo del caffè... qui di fuori... e ditemi se lo riconoscete...
L’albergatore fece una smorfia, spinse il suo pancione fino alla porta, diede un’occhiata scrutatrice verso il caffè. Poi uscì sulla piazza, per osservare meglio.
– Certo! – disse, tornando. – È stato qui forse una ventina di giorni fa... Era con altri due signori e una signora... Ne potete trovare i nomi sul registro... Tutto in regola da me!
I nomi erano: Ivan Kiergine, Eduard Letang, Paulette Garat...
– E il quarto? – chiese De Vincenzi, percorrendo febbrilmente con l’occhio le due pagine aperte del registro.
– Eccolo qui – e l’albergatore indicò un nome col dito; ma gli occhi di De Vincenzi erano fissi sull’altra pagina e per qualche istante egli non riuscì a scuotersi dallo stupore profondo in cui era caduto.
– Eccolo – fece l’omone, voltando il capo verso il commissario. – Bernard Kauffmann.
Ma De Vincenzi non lo ascoltava. Aveva letto un altro nome su quella pagina, un nome che non si sarebbe mai aspettato di trovar segnato in quel registro: Kamir Pascià!
Riuscì a vincersi, quando già il francese e l’albergatore cominciavano a fissarlo quasi con preoccupazione. Affettò indifferenza.
– Kauffmann... – ripeté. – Naturalmente... Ma ho letto anche il nome di Kamir Pascià...
– Oh! È questo che vi ha meravigliato? Ma nel mio albergo scendono personaggi d’ogni sorta!... Quasi tutti coloro che arrivano da Parigi coi treni della notte si fermano a Ventimiglia per riposarsi, prima di proseguire, e scendono qui... Non è un albergo di prim’ordine il mio, come categoria, ma non manca d’alcun confort...
– E Kamir Pascià si trovava qui la sera stessa in cui arrivò Kiergine e Paul... e i suoi amici?
– Sì, guardate la data. Sua Eccellenza era giunto nel pomeriggio, col treno da Genova. Veniva dall’Italia. Ricordo che andò all’apertura del mercato dei garofani alle cinque e tornò in albergo con due ceste di fiori... Il suo segretario mi annunziò che sarebbe partito il giorno dopo per Nizza... Invece...
– Invece? – chiese De Vincenzi, che riusciva a stento a dominare la propria ansia.
– Invece, ripartì all’improvviso per Genova... Almeno, credo che tornasse a Genova, perché i miei facchini andarono a portargli i bagagli e le ceste dei garofani fino al vagone...
– Partì col medesimo treno che presero il russo e i suoi compagni?
– Il treno seguente. Il russo era partito col diretto delle otto. Sua Eccellenza prese il direttissimo delle dieci...
– Ho capito... Grazie... E come si chiama il segretario di Kamir Pascià?
L’albergatore si chinò ancora sul registro.
– Ecco... Noel Godber...
– Noel Godber... Bene... Null’altro!...
– Mancano cinque minuti alla partenza – disse il commissario francese. – Avete appena il tempo...
– Appena il tempo – ripeté De Vincenzi, dirigendosi fuori dell’albergo.
Fece segno al russo, che li seguì.
Poco dopo si trovavano seduti nel vagone.
Kiergine taceva sempre. Davanti a lui, De Vincenzi meditava, profondamente assorto.
Il treno si mosse. La calura ristagnante fu subito mitigata dall’aria che entrò violentemente pei finestrini.
Il russo fumava. Quando il treno passò sopra il ponte del torrente Roia, il rumore assordante delle travi di ferro e delle ruote d’acciaio fece scuotere De Vincenzi dalla sua meditazione.
Alzò gli occhi e fissò Kiergine.
– Conoscete Kamir Pascià?
Il russo sussultò. Un fremito lo aveva percosso visibilmente.
– Come dite?
– Parlatemi un poco di Kamir Pascià, Kiergine. Chissà che non si riesca a vedere un po’ chiaro in fondo a tutto questo imbroglio, se voi mi parlate di lui!...
Kiergine lo fissava. Gli occhi gli si erano fatti duri, avevano lampi d’acciaio. L’acqua livida dei fiordi, quando la bufera di neve s’addensa e urge dalle nubi basse...
Una terribile bufera, infatti, doveva sconvolgergli il cuore e il cervello.
Muoveva le mani nervosamente.
– Perché volete che vi parli di lui? – chiese con voce acuta.
– Dove lo avete conosciuto?
– A Parigi... quattro anni fa...
– E poi...
– E poi basta...
Aveva gli occhi pieni di lacrime. Si morse le labbra.
Faceva uno sforzo atroce per non scoppiare in un pianto dirotto, infantile, in un pianto che lo avrebbe liberato. Ma riuscì a irrigidirsi.
– Basta – ripeté.
E tacque, fino al momento in cui il treno si fermò sotto la tettoia della stazione di Nizza.