Capitolo X

Il «bac» di «Fantasio»

Si respirava un’aria di cantina. Non bastavano le stoffe di seta appese alle pareti, i tappeti soffici in terra, i divani e le poltrone della prima saletta, la luce dei lampadari di cristallo, a togliere quell’impressione, che subito si riceveva da quelle stanze quadrangolari, messe in fila, una dentro l’altra a scatola giapponese, ché la prima era la più grande e l’ultima quasi un gabinetto.

I soffitti eran bassi, bianchi e granulosi di calce, sicché c’era un distacco netto tra la cornice dorata che reggeva le stoffe e quel biancore crudo, scabro, grigiastro.

Una cantina truccata!

Anche per l’atmosfera che vi regnava. Torbida, piena di fumo, di odori forti, di creme rancide. S’indovinava che alla mattina l’uomo che entrava per la pulizia doveva correre alle finestre a spalancarle.

Ma dove s’aprivano le finestre? Non ve n’era traccia. De Vincenzi finì per capire che dovevano trovarsi tutte sulla parete di destra, entrando, e che eran coperte dalle stoffe pendenti mollemente da quella cornice alta un palmo, d’oro lucente, che sembrava il bordo di una cassa mortuaria di gran lusso.

Dall’atrio del teatro si entrava subito nell’anticamera di quella specie di lunghissimo corridoio diviso a scomparti. Dietro una scrivania di mogano intagliato, un uom0 d’età indefinibile, col volto glabro in tal modo da sembrare depilato, gli occhietti acquosi, i movimenti secchi e distaccati d’un automa, aspettava i clienti nuovi, esaminava i documenti d’identità, rilasciava le tessere, dopo aver preso ed esaminato il denaro della tassa di frequentazione.

Di fronte, una grande tenda di velluto violaceo, che un cameriere in frac sollevava per far passare i giuocatori. E poi la sfilata delle stanze.

Un salotto coi divani e le poltrone di seta gialla appoggiati contro le pareti e null’altro, se non qualche piccolo tavolo portatile.

Quattro stanze da giuoco, con due tavoli ognuna per lo chemin de fer. In quella di fondo, ch’era tanto piccola da lasciare appena il posto per le seggiole attorno al tavolo che l’occupava tutta, si giocava il baccarà a due tableaux, il baccarà all’italiana. E nella stanza più grande, in mezzo alla parete di sinistra, s’apriva una porta che dava nel bar, dove si vedevano le tovaglie bianche di alcune piccole tavole.

Quando entrò De Vincenzi nel primo salotto, una giovane in décolleté stava parlando a bassa voce, con calore, a un uomo in smoking. Erano in piedi in un angolo. L’uomo l’ascoltava, fissandola, e scuoteva il capo, stringendo le labbra a una smorfia. Vide il nuovo cliente e trasse da parte la ragazza con una mano, per corrergli incontro. Gli s’inchinò con un sorriso umido. Aveva il corpo magro e muscoloso, ma non privo di linea e d’eleganza. Il volto ossuto, dai tratti volgari, era tutto illuminato da quel sorriso umile e malizioso nello stesso tempo, un sorriso da complice.

De Vincenzi evitò di sembrare novizio a quel genere di luoghi, affettò l’indifferenza del giuocatore indurito, che quanto più è agitato dalla febbre interiore, tanto più si mostra impassibile, leggermente altero, ironico persino. Rispose con un cenno. Tirò innanzi diritto. Non voleva fermarsi a parlare con monsieur Victor; aveva bisogno che il padrone di quella sale boîte, come l’aveva chiamata Loret, lo notasse il meno possibile e non si occupasse particolarmente di lui.

Le altre stanze erano piene di giuocatori. Ma non v’era traccia di quella animazione, di quella febbre, di quel movimento disordinato e come ansimante, che caratterizza le grandi bische. Anzitutto, qui mancava il rumore delle roulette. E poi i giocatori se ne stavano compostamente seduti attorno i tavoli e soltanto di rado qualcuno si alzava, cambiava posto, si muoveva da un tavolo all’altro, da una stanza all’altra.

Lentamente, De Vincenzi cominciò ad avvicinarsi ai tavoli, facendo mostra d’interessarsi alle vicende di quella scatola rettangolare, dalla quale scivolavan fuori le carte, e che girava da un giocatore all’altro, afferrata, tenuta, respinta, riafferrata.

Quatre louis de banque... A vous, monsieur... Pas de carte... Neuf à la banque... Huit louis de banque... Faites vos jeux... La main passe...

Era il piccolo giuoco. Quando il banco raggiungeva gli otto luigi, nessuno lo chiamava più.

De Vincenzi osservava i giocatori uno a uno. I soliti tipi. Molte donne. La maggior parte dovevano trovarsi sui libri della Polizia. Avevano tutte lo stesso volto, il medesimo atteggiamento impertinente e umile, quei modi carezzevoli e volgari che caratterizzano le donne abituate a strofinarsi ai maschi e che pure, nella loro generalità, in quanto uomini, li odiano. E tutte avevano lo sguardo lucido, allucinato, le palpebre arrossate, i pomelli accesi. Gli uomini le trattavano con familiarità persino scortese. Non eran più donne per loro. Le allontanavano a colpi di gomito, se si facevano troppo vicine e insistenti. C’era da aspettarsi di vederli difendere i gettoni che avevano dinanzi con l’accanimento e il disgusto con cui si difende un dolce dagli assalti delle mosche, a manate in aria.

De Vincenzi si sentiva invadere da un senso doloroso di nausea. Se non avesse avuto il fermo convincimento che lì dentro si nascondeva almeno una delle chiavi del mistero, sarebbe fuggito.

Entrò nella stanza centrale, la più grande.

Aveva appena dato un’occhiata al bar, che trasalì. Seduto sopra uno sgabello altissimo, davanti al banco, Kiergine stringeva con una mano un bicchiere e con l’altra si teneva afferrato al bastone d’ottone lucido, che correva tutto attorno al banco. Lo sguardo gli brillava stranamente acceso, sicché gli occhi azzurrini avevano perduto quella loro luminosità di gemma pura, per sembrare due focherelli fosforici. Aveva il volto esangue, le labbra livide.

Era solo nel bar. Solo col barman, che stava seduto in un angolo, dietro il banco, occupato a far conti su di un taccuino.

De Vincenzi si mise a osservarlo da lontano.

Il russo beveva. Quando ebbe vuotato il bicchiere, picchiò col fondo di esso sulla lastra e il barman glielo empì di nuovo.

Era evidente che voleva ubriacarsi, perché se lo accostò immediatamente alle labbra e vuotò anche quello. Il barman gli era rimasto davanti e lo guardava. Teneva sempre la bottiglia del whisky, pronto a mescergliene ancora. Kiergine tese il bicchiere. Ma il barman si fermò con la bottiglia in aria e si volse verso il fondo del bar. Parlava con qualcuno, che De Vincenzi non poteva vedere. Faceva il gesto di chi si scusa. Indicava il russo col capo. Finì per voltarsi a rimettere la bottiglia al suo posto, dietro di sé, sulla scansia.

Kiergine s’impazientì. Riprese a picchiare col bicchiere sul marmo. Il barman si strinse nelle spalle. Lui fece per sollevarsi dallo sgabello e si appoggiò pesantemente col corpo al banco. Allora, dal fondo del bar avanzò un uomo e De Vincenzi trasalì. Era l’uomo del Casino di San Remo! La nuca da lottatore, il volto apoplettico... Sempre in smoking, con quelle sue spalle quadrate e potenti, il corpo tozzo sulle gambe corte ed ercoline. L’assassino del cassiere!...

Il sedicente Bernard Kauffmann si avvicinò a Kiergine, lo afferrò per un braccio, lo trasse giù dallo sgabello. Il russo non opponeva resistenza.

L’uomo lo prese per le spalle e lo scrollò violentemente. Proferiva parole a bassa voce, con gli occhi sfavillanti di collera, il volto che da rosso gli si era fatto paonazzo per l’ira. Kiergine taceva. L’altro finì per spingerlo verso il fondo e De Vincenzi non lo vide più.

Mentre osservava Kiergine, lui s’era fermato davanti a un tavolo da giuoco ed era lì che aveva seguìto la scena. Adesso, si allontanò lentamente, andò a cacciarsi in un angolo della stanza, si appoggiò al muro. Nessuno gli aveva badato. Nascondendosi la mano dietro la schiena, trasse la rivoltella dalla tasca dei pantaloni e la portò in quella della giacca. Poi, tenendola sempre stretta nel pugno, si diresse verso il bar e vi entrò, avvicinandosi al banco. Non aveva guardato verso il fondo, ma sentì nettamente che il suo ingresso aveva prodotto un movimento violento dell’uomo di San Remo. Doveva averlo riconosciuto subito.

De Vincenzi sedette sullo sgabello di Kiergine. Ostentava di leggere le etichette delle bottiglie allineate sullo scaffale, come se volesse scegliere. Il barman gli si teneva davanti, pronto a servirlo.

– Volete un cocktail rose? È una specialità di Fantasio!

– Vada per il cocktail...

Adesso, di dentro allo specchio infisso nella scansia, dietro la teoria delle bottiglie, De Vincenzi vedeva i due uomini. Kiergine era caduto a sedere in una poltrona di cuoio, bassa, e vi rimaneva disteso, col capo appoggiato allo schienale, gli occhi al soffitto. Doveva non averlo riconosciuto e forse non si era neppure accorto che qualcuno fosse entrato lì dentro.

Kauffmann stava in piedi. Lo fissava. Aveva vinto la sorpresa del primo momento ed era chiaro che adesso lavorava febbrilmente col cervello per prendere una decisione.

Sempre dallo specchio, De Vincenzi vide che il bar non aveva altre uscite o per lo meno che, se anche vi fosse stata qualche porta nascosta dietro le tende, questa non doveva essere destinata ai clienti. Senza dubbio una porta doveva esservi, là nel fondo, perché si sentiva il rumore di stoviglie agitate e anche l’indistinto mormorìo di due voci. Forse, era la cucina.

Pensò che Kauffmann assai probabilmente era della casa e avrebbe potuto andarsene per di lì.

Anche l’uomo doveva aver avuto quell’idea, perché De Vincenzi vide che fissava la tenda. Ma fu breve. Mise le mani nelle tasche dello smoking, cacciò il petto in fuori, diede un’occhiata a Kiergine che non si muoveva e poi si avvicinò al banco. Si mise di fianco al commissario, ordinò al barman:

– Un cocktail rose, Louis...

Louis assentì col capo, continuando ad agitare lo shaker d’argento, che aprì di colpo, versandone il contenuto nel bicchiere preparato per De Vincenzi. Poi si mise a preparare un altro cocktail.

De Vincenzi si volse lentamente e fissò l’uomo, che sostenne lo sguardo con apparente tranquillità.

– È un maestro Louis, per i cocktails...

Il tono voleva essere cordiale, ma la voce era aspra, roca, con un fortissimo accento tedesco. Che si chiamasse realmente Kauffmann?

De Vincenzi si sentiva fuorviato. Non capiva ancora quale potesse essere il piano di quell’uomo. Che lo avesse riconosciuto non era possibile dubitare. Che credesse di non essere stato alla sua volta riconosciuto era egualmente assurdo. In qual modo intendeva agire? Se avesse voluto fuggire, non gli si sarebbe andato a mettere accanto. E d’altra parte, se meditava un attacco, nulla di più facile che far mostra di allontanarsi per indurre lui a seguirlo fuori della bisca. Lì dentro, qualunque cosa avesse fatto, sarebbe stato preso come un topo, con le sale piene di gente e tutte le porte chiuse.

– Siete arrivato da poco a Nizza?

Si era rivolto al commissario, girandosi con tutta la persona, e lo fissava, sorridendo. Aveva un sorriso che sembrava un ghigno e gli occhi gli lucevano freddi e cattivi.

De Vincenzi, che stava per portare il bicchiere alle labbra, lo posò e fece per mettersi la mano in tasca.

Senza abbassare la voce, sempre sorridendo, l’altro disse nettamente:

– Fermo! – e volse lo sguardo verso la propria tasca sinistra. Sotto la stoffa, De Vincenzi vide la forma di una rivoltella. – Se sparassi, nessuno qui dentro farebbe mostra di aver sentito e voi uscireste da quella porta coi piedi avanti...

De Vincenzi ne era convinto. Il barman si era già allontanato, fingendo di rispondere alla chiamata di un immaginario cliente della sala.

– E poi? – chiese con indifferenza il commissario, riprendendo il gesto interrotto e portando il bicchiere alla bocca.

– Si potrebbe parlare tranquillamente... se voi vi lasciaste prendere quel gingillo, che vi deforma la linea dello smoking... e mi seguiste di là... – e indicò il fondo, di dove veniva l’acciottolìo delle stoviglie.

De Vincenzi dentro lo specchio vide Kiergine, che aveva sollevata la testa e li guardava. Batteva le palpebre e contraeva convulsamente il volto, quasi cercasse di vincere l’ebrezza e di comprendere. Negli occhi gli si leggeva un profondo terrore.

Ma che cosa poteva fare il russo anche se avesse voluto difenderlo?

– Non rispondete? Vi do un minuto... – e senza togliere la sinistra dalla tasca, con la destra trasse l’orologio.

De Vincenzi cercava febbrilmente nel cervello il modo di cavarsela senza lasciarci la pelle, e non lo trovava. Se si fosse lasciato disarmare e avesse seguìto Kauffmann, non sarebbe certamente uscito vivo. L’uomo era troppo sicuro di se stesso e senza dubbio al di là della tenda e del muro doveva esservi, oltre la cucina, qualche nascondiglio sicuro, in cui un cadavere poteva restare tranquillamente celato fino a quando avessero trovato il modo di sbarazzarsene indisturbati.

D’altra parte, a farsi uccidere nel bar, i vantaggi non erano molti. Le cose sarebbero andate un poco diversamente, ma tanto Kauffmann, quanto i suoi complici – dacché adesso gli appariva manifesto che per lo meno monsieur Victor era della partita – avrebbero avuto tutto il tempo di fuggire. E Kauffmann non era davvero un principiante in fatto di fughe, dato il modo con cui aveva saputo scomparire dal Casino e da San Remo, dopo avere ucciso il cassiere.

– Ancora venti secondi...

Fu rapido. Il bicchiere di De Vincenzi colpì il bandito in mezzo alla fronte e il volto gli si rigò di sangue. L’uomo lanciò una bestemmia e si portò le mani agli occhi. Allora fu lo sgabello del commissario che gli si abbatté sul cranio, facendolo stramazzare a terra.

De Vincenzi fece per chinarsi su di lui, ma si sentì afferrare per un braccio.

– Venite via!...

Kiergine lo trascinava.

– Presto! Se capiscono, non vi lasciano uscire...

Traversarono le sale in fretta, prima che alcuno si fosse accorto di quel che era avvenuto nel bar.

Una volta all’ingresso del salotto giallo, De Vincenzi rattenne il passo. Monsieur Victor lo vide arrivare e atteggiò il volto a quella sua servilità untuosa. Era solo e mosse verso il commissario. Vide Kiergine e fece un gesto di meraviglia.

Il russo gli disse:

– È un mio amico. Torneremo fra poco...

E prima che il padrone potesse rispondere, aveva sollevato la tenda e spingeva fuori De Vincenzi.

Appena nel vestibolo del teatro, che era buio, con tutte le porte sulla strada chiuse, tranne una piccola, che serviva appunto ai giuocatori, gli gridò con orgasmo:

– Presto! Correte!...

Fecero via Garnier al galoppo e soltanto sull’avenue rallentarono il passo.

De Vincenzi guardò il compagno. Aveva ripreso tutta la sua impassibilità.

– Perché lo avete fatto, Kiergine?

Sorrise tristemente.

– Non sareste uscito vivo da lì dentro, se si fossero accorti che eravate un nemico di Kauffmann...

– Lo so, ma voi perché avete voluto salvarmi?

Alzò le spalle e non rispose.

Dopo una pausa chiese:

– Che cosa contate di fare, adesso?

De Vincenzi si dirigeva verso via Gioffredo. Se avesse potuto disporre subito una squadra di agenti, avrebbe invaso il baccarà di Fantasio. Questo avrebbe fatto! Kiergine capì il suo proposito, perché gli mise una mano sul braccio e lo trattenne.

– A quest’ora hanno fatto sparire Kauffmann... Ad andare là dentro con le guardie, non potreste far nulla. Diranno di non conoscerlo. E voi non otterreste che di dar l’allarme...

De Vincenzi assentì col capo. Era l’evidenza.

– Andiamocene a dormire, Ivan Kiergine...

E discesero l’Avenue de la Victoire, lentamente, come due buoni amici.

***

Quando furono nel corridoio del loro piano, davanti alla porta della camera del russo, De Vincenzi proferì lentamente:

– Non credete che sia giunto il momento di parlare, Ivan Kiergine?

– Sul conto di Kauffmann...

– Qual è il suo vero nome?

– Io non gliene conosco altri...

Parlava a bassa voce. Nelle altre camere dovevano dormire. Lungo il corridoio illuminato si vedevano due file di scarpe d’ogni forma, davanti alle porte chiuse.

– Ebbene?

– Sul conto di Kauffmann farete presto a sapere quel che vi occorre...

– E sul conto degli altri?

– Non so chi siano... gli altri...

– E sul vostro, Kiergine?

– Oh! sul mio!...

Fece una pausa. Si guardò attorno. Fissò la lampadina accesa in mezzo al corridoio, quasi davanti alla sua porta.

– Io non ho ucciso Paulette Garat...

– Lo so...

– Io non posso avere ucciso Eduard Letang...

– Chi era Letang?

– Un conoscente...

– Un innamorato di Paulette Garat! – sussurrò De Vincenzi.

Trasalì. Fu quasi con fierezza che rispose:

– Tutti erano innamorati di lei!...

De Vincenzi avrebbe voluto farlo entrare nella camera, seguirlo; non era quello il luogo per una conversazione lunga; ma capiva che, se avesse mostrato di dare importanza al colloquio, lui si sarebbe chiuso di nuovo nel suo mutismo o avrebbe lanciato qualcuna di quelle sue enunciazioni sibilline, gravi di fatalismo mistico.

– Potete supporre dove si trovi ora la vostra amante?

– La mia?...

Era l’accento di un uomo che quella supposizione offendeva.

– Paulette Garat non era la vostra amante?

– Sì – mormorò subito e gli si vide il pomo d’Adamo sollevarsi e abbassarsi, come se avesse fatto uno sforzo per inghiottire un boccone amaro.

– Non volete salvarla?

– Ve l’ho già detto... – e non finì la frase, quasi gli sembrasse inutile di confessare ancora la propria impotenza contro l’ineluttabile. – Buona notte, commissario!...

Girò la chiave nella toppa, aprì la porta e scomparve nell’interno, richiudendola.

De Vincenzi andò nella sua camera.

Sentiva una profonda amarezza chiudergli la gola. Aveva ritrovato Kauffmann ed era stato costretto a lasciarselo sfuggire. «Vi sarà facile sapere sul suo conto quanto v’occorre»! E poi? Non era quello il punto più grave del mistero. Fino a quel momento, da tre giorni che stava combattendo contro l’ignoto, non era che con fantasmi che s’incontrava! E doveva confessare a se stesso di non aver trovato ancora neppure un solo filo conduttore, una traccia sicura.

La sua intuizione non l’assisteva. Non sapeva trovare una spiegazione logica a quel che era accaduto e che accadeva, neanche una!

Il canotto insanguinato, la stranissima partenza da San Remo di Kiergine, l’assassinio di Eduard Letang, la scomparsa dei due milioni, l’uccisione di Valeri, il furto dei brillanti... Una ridda da sabba infernale!

Eran tutti fatti concatenati, dipendenti, o soltanto il Caso li aveva riuniti?

E le persone di quel dramma o di quei drammi! Ognuna, proiettata nel vuoto, faceva da sola e pure tutte avevano legami nascosti, tenaci tra loro!

Ipotesi se ne potevano fare a diecine, ma a che scopo farle? Nessuna d’esse valeva più delle altre e tutte mancavano del più piccolo sostegno d’un fatto sicuro, di un indizio accertato!

De Vincenzi s’era tolto lo smoking e aveva cominciato a disfarsi la cravatta.

Quella notte stessa Kauffmann sarebbe fuggito da Nizza. Dove andarlo a riprendere?

Lui s’era lasciato convincere dalle parole di Kiergine e, sperando di cogliere il russo in un momento di debolezza, lo aveva condotto in albergo per farlo parlare, invece di avvertire subito la Polizia, che avrebbe potuto ricercare Kauffmann e arrestarlo!

Non era supponibile anche che Kiergine avesse voluto di proposito salvare colui che l’evidenza stessa indicava come suo complice?

La mattina seguente sarebbe stato troppo tardi!... Da Fantasio non avrebbero trovato più nulla e monsieur Victor avrebbe avuto ottimo giuoco a dichiarare di non aver mai né visto né conosciuto Kauffmann... Anche monsieur Victor apparteneva alla banda. Non c’era da dubitarne, se non altro per il modo con cui si era comportato Kiergine verso di lui, quando aveva voluto far uscire De Vincenzi dalla bisca.

Finì di togliersi lo smoking in fretta e indossò l’abito con cui aveva viaggiato.

Quando fu pronto, andò ad ascoltare alla porta di comunicazione. Sentì il respiro regolare del russo. Forse, dormiva.

Allora, camminando sulla punta dei piedi, uscì dalla stanza e scese nel vestibolo.

Trovò il portiere di notte e un facchino, che facevano la pulizia delle sale terrene.

Si chiuse nella cabina telefonica e chiamò il Commissariato di via Gioffredo.

Loret era appena tornato dalla sua spedizione alla Californie e lo prese al volo, proprio per miracolo, ché il commissario stava per andarsene a casa.

– Ho bisogno assoluto di voi! Salto in un tassì e vi raggiungo...

Bon... – grugnì il commissario francese nel microfono. – È proprio necessario a quest’ora?

Ma De Vincenzi aveva già riappeso il cornetto e correva in istrada.