Capitolo XI

Odette

Loret attendeva De Vincenzi all’angolo di via Gioffredo. Piazza Massena era invasa dai getti d’acqua delle pompe, che lavavano l’asfalto e la squadra degli spazzini cominciava a discendere per l’Avenue de la Victoire.

Quando vide il tassì che stava per voltare, il commissario francese fece segno e De Vincenzi saltò a terra.

– Che cosa vi è accaduto? Com’è andata la visita a quel tripot della malora?

De Vincenzi lo prese per un braccio e lo condusse verso il Commissariato.

– Ha un’ora e più di vantaggio – disse. – Non lo prenderemo!

– Ma chi? – chiese Loret.

– Kauffmann!

E De Vincenzi gli raccontò rapidamente gli avvenimenti del baccarà di Fantasio. Loret lo guardava con quei suoi occhi pieni di malizia.

– Ve la siete cavata a buon mercato! E nessuno è più felice di me a cui sarebbero capitate addosso grane d’ogni genere, se vi fosse accaduto qualcosa!... Ma adesso?... Sicuro che quello se ne è andato!

Salì le scale strette e ripide del Commissariato, facendo i gradini a due per volta, e corse al telefono. Diede anzitutto la segnalazione di Kauffmann alla frontiera di Ventimiglia, poi a tutti i posti di gendarmeria della Corniche e dell’interno, fino a Marsiglia. Un lavoro del diavolo. Si asciugò la fronte madida e chiamò un ispettore per fargli continuare la serie delle telefonate.

– Qui dentro si crepa!

Si soffocava, infatti. Di fuori l’alba recava il vento fresco marino, ma lì dentro, da quella specie d’imbuto del cortile, non penetrava quasi neppure la luce.

– E adesso andiamo – disse rivolto a De Vincenzi, che lo guardava fare. – Qui abbiamo finito!

Si volse all’ispettore:

– Avverti anche Parigi e tutte le stazioni del P. L. M.

Cominciò a scendere la scala.

– Venite!

Correva quasi. S’era trasformato. Non era più il Loret del caffè di via Pastorelli, placido, leggermente ironico, che beveva il pernot con aria stanca e dava le informazioni col contagocce. Voleva dimostrare al collega italiano che sapeva agire. Ci metteva una punta d’amor proprio a riparar lui all’errore commesso da De Vincenzi. Poiché lui stimava follia essersi fatto scappare Kauffmann a quel modo.

– Appena riconosciuto l’uomo, dovevate correr fuori e attaccarvi a un telefono. Avremmo circondato il bac e non ci sfuggiva!

De Vincenzi non aveva protestato. A che scopo stargli a spiegare che lui aveva i suoi metodi e che gli premeva molto di più poter osservare le reazioni di Kiergine, che non acciuffare subito Kauffmann, il quale non avrebbe rivelato nulla, neppure ad ammazzarlo?

Avrebbero tenuto l’assassino di Valeri, che con tutta probabilità era anche il capo di una banda di ladri e di banditi, ma poi? E Paulette Garat? E l’autore dell’uccisione di Eduard Letang? E il fitto mistero che circondava la figura del russo?

Non sarebbe stato certamente Kauffmann, anche messo alla tortura, che avrebbe fornito la spiegazione di tutti quegli enigmi allucinanti. E De Vincenzi era proprio quella spiegazione che cercava e null’altro.

Poteva aver sbagliato! Riconosceva d’aver sbagliato e lo aveva dimostrato soprattutto a se stesso col tornare in via Gioffredo alle tre del mattino e col far ricorso all’opera di Loret e all’aiuto della Polizia francese; ma pure qualcosa da Kiergine aveva potuto spremere, che in altro modo non gli sarebbe riuscito. Intanto, aveva veduto il russo mettersi nella condizione di farsi bruciare dai complici di Kauffmann per salvarlo e poi il colloquio che aveva avuto con lui nel corridoio dell’albergo era stato tutt’altro che privo di significazione... fino al punto da indurlo adesso a dubitare che Paulette Garat fosse stata l’amante di Kiergine!... Non sapeva ancora nulla!... Non ci si ritrovava ancora... Eppure sentiva oscuramente d’aver fatto un primo passo verso la verità e che tale verità, quando si fosse rivelata, sarebbe apparsa assai più complessa e terribile d’ogni immaginazione.

Loret continuava a camminare quasi correndo. Avevano cercato un tassì sulla piazza e non lo avevano trovato. Adesso andavano per l’Avenue de la Victoire verso la stazione e quella loro era una vera corsa.

Al quadrivio dell’avenue coi boulevards trovarono una carrozza e ci saltarono dentro. Il cocchiere dormiva e dovette prima cominciare a capir qualcosa, poi scendere a toglier la coperta di dosso al cavallo e rimettergli i finimenti e il morso, da cui lo aveva liberato per incappucciargli il muso dentro il sacchetto della biada.

Finalmente, a schiocchi di frusta, la bestia si mosse e prese a trottare sull’asfalto, sfiancata e tutta d’ambio da quella povera rozza che era.

Non giunsero certo più presto alla stazione di quello che avrebbero fatto ad andare a piedi; ma, se non altro, ripresero fiato.

– Che cosa sperate di trovare alla stazione?

Loret alzò le spalle.

– Non si può dire! Il fatto è che dall’una alle quattro non passano treni. Il primo è quello delle quattro da Mentone a Marsiglia. Poi cominciano i locali che servono agli operai... L’espresso e il lusso passano alle sette e alle sette e quindici...

Guardò il quadrante luminoso di uno degli orologi dell’avenue e disse:

– Mancano dieci minuti alle quattro. A visitare il treno di Marsiglia facciamo a tempo di sicuro, se questa bestia dell’Apocalisse non si siede in terra.

Allò! Cocotte! Allò! – fece in quel punto la voce arrochita del cocchiere e i due nella carrozza tacquero, perché quello lì sulla serpa s’era svegliato completamente e li ascoltava.

Pel viale si vedevano radi nottambuli e gli spazzini. L’aria s’era fatta così fresca da dare brividi di gelo. In fondo al viale, oltre l’ammasso dei ponti della ferrovia e dei grandi fabbricati operai, il sole illuminava la cima degli alberi del Parc Chambrun e le colline.

De Vincenzi e Loret 0sservavano ogni persona che passava. Insensibilmente De Vincenzi s’era lasciato invadere dalla febbre che agitava il compagno. Adesso, avrebbe voluto prendere Kauffmann. Sarebbe stato sempre uno di meno da combattere!

Quando la carrozza fu al termine dell’Avenue de la Victoire e il cavallo piegò a sinistra e rallentò il trotto, perché cominciava la salita dell’Avenue Thiers, con un movimento simultaneo Loret e De Vincenzi si lanciarono e saltarono uno da una parte e uno dall’altra della carrozza.

Avevano veduto un uomo camminare sul marciapiede del Terminus a un centinaio di passi da loro. Era monsieur Victor. Ancora in smoking, il tenutario del bac di Fantasio sembrava non aver fretta. Camminava con le mani in tasca come se aspettasse qualcuno.

Loret afferrò De Vincenzi.

– Aspettate! – e si gettò con lui dietro l’angolo che il fabbricato dell’albergo fa con Rue d’Angleterre.

Il cocchiere s’era fermato e li guardava con comica ironia. Aveva capito che si trattava di gente della Police e mormorava alla cavalla: «Rallegrati, Cocotte! Ti sei scomodata per due tipi della rousse!».

Da lontano Loret gli fece cenno di piegare per Rue d’Angleterre e quello obbedì. Fu De Vincenzi che lo pagò, mentre Loret si sporgeva col capo dall’angolo per osservare monsieur Victor, che continuava ad andare avanti e indietro, placidamente.

– Deve dare la caccia a Kiergine! – osservò De Vincenzi. – O crede che non sia ancora tornato in albergo o aspetta che esca...

– E allora?

– E allora non vorrei che ci fosse un cadavere di più in questa storia! E proprio quello, poi!... Vero è che, a giudicare da quanto è accaduto fino ad ora, avrebbero potuto toglierlo di mezzo cento volte e non l’hanno fatto. Anche Kauffmann, quando s’è trattato di liberarsene, lo ha stordito soltanto!...

– Dite di affrontarlo? Sapete, mon cher, tutta questa storia, come la chiamate voi, vi appartiene. Voi potete condurre le cose come volete. Io mi trovo qui, per aiutarvi soltanto.

– Vi ringrazio, Loret!

Era perplesso. Se si fosse trovato in Italia, si sarebbe sentite le mani libere. Non avrebbe certo esitato ad assumere tutte le responsabilità necessarie. Ma lì... Erano tanti gli interessi che non conosceva, tanti i fili occulti contro i quali poteva urtare!

Si decise.

– Vado io solo – disse. – Entrerò in albergo e ne uscirò subito. Voi, se credete, aspettatemi sulla piazza. Andremo alla stazione assieme.

– Come intendete comportarvi con monsieur Victor?

Secondo le circostanze. A ogni modo eviterò che s’incontri con Kiergine.

– Se volete, lo faccio mettere al Deposito. Una ragione si trova sempre, salvo a fargli le scuse, dopo una quindicina di giorni di carcere... ingiustificato!...

– No, ve ne prego. Se togliete di mezzo lui, dovete anche chiudere Fantasio... o per lo meno tutti i suoi amici si guarderanno bene dall’andarvi... E invece quel baccarà è l’unico luogo dove possiamo aver la speranza di raccogliere qualche informazione. Non dimenticate ch’era lì che Eduard Letang si faceva arrivare la posta.

– Come volete.

De Vincenzi scese per Rue d’Angleterre, girò per la Avenue de la Victoire e imboccò l’Avenue Thiers con l’aria di chi rincasa dopo una notte di veglia. Portava le mani in tasca e camminava lentamente.

Monsieur Victor lo vide da lontano e come primo impulso si voltò e fece per allontanarsi dall’albergo. Ma poi cambiò idea e tornò indietro, andandogli incontro.

Quando furono uno di fronte all’altro, sul marciapiedi, il tenutario del bac si fece da parte e lo salutò, toccandosi il cappello. De Vincenzi gli rispose con un cenno. Quello avanzò d’un passo.

– Sono dolente, signore, di quanto questa notte vi è accaduto nel mio locale... Se avessi immaginato...

– Che cosa?

– Che quell’uomo avrebbe osato...

– Non capisco! Se mai, a osare sono stato io, perché non credo di avervelo lasciato proprio intero!...

L’altro rise.

– No! Anzi, ne avrà per qualche giorno. Io l’ho fatto mettere in un tassì e gli ho detto di andarsene al diavolo... Non voglio storie, io! E di simili clienti faccio volentieri a meno... È un locale onorato il mio! E spero che voi vorrete tornarvi! Potete esser sicuro che non v’incontrerete davvero quel tedesco...

– Ne sono sicuro – fece De Vincenzi e proseguì verso il Terminus.

Monsieur Victor lo guardò allontanarsi e, quando lo vide entrare nell’albergo, riprese a scendere pel viale e voltò a sinistra, scomparendo sotto il ponte della ferrovia.

De Vincenzi prese l’ascensore e salì al suo piano. Aprì con ogni cautela la porta di Kiergine e guardò dentro. Il russo s’era messo a letto e s’era addormentato, lasciando la luce accesa. Dormiva come un bimbo, con un respiro breve e leggerissimo, e De Vincenzi fu colpito dal suo pallore, ch’era cereo, a toni azzurrini sotto il biondo chiaro dei capelli.

Richiuse la porta e ridiscese.

Trovò Loret in mezzo alla piazza.

– E così? Ho veduto che vi ha fermato.

De Vincenzi gli riferì il breve colloquio.

– Tornerete laggiù? – gli chiese il commissario francese.

– Questa sera.

– Avete fatto bene a dirmelo... Prenderò qualche precauzione...

– Per esempio?

– Ci troverete alcuni giuocatori, che potranno aiutarvi, se sarà necessario.

De Vincenzi si strinse nelle spalle.

– Non posso impedirvi e neppure chiedervi di non farlo, giacché anche voi avete le vostre responsabilità...

Erano nell’atrio.

– Volete davvero visitare il treno?

– Quello di Marsiglia? Sono le quattro e dieci! A quest’ora è già lontano. Ma ho fatto a tempo a farvi salire un mio agente... Se l’uomo c’è, lo sapremo. Vi dico però che anch’io non credo che vi sia!... Adesso, vado a dare istruzioni agli ispettori di servizio e poi vi raggiungo... Aspettatemi al caffè!...

Il caffè aveva appena aperto le sue tre porte a vetri, che danno nell’atrio dei biglietti. C’erano ancora le seggiole rovesciate sui tavoli. Tutte le porte sulla facciata erano chiuse e le lampade accese, per quanto fosse giorno chiaro oramai. I camerieri in maniche di camicia e grembiule bianco guardarono De Vincenzi, che entrava, mentre continuavano a scopare e a passare lo straccio bagnato sul marmo dei tavolini.

Il commissario sedette accanto alla porta, al primo tavolo che trovò libero dalle seggiole.

– Dovete aspettare ancora qualche minuto pel caffè e latte... Oppure volete una colazione fredda da portar via?

In fondo, dalla cucina, venne una voce:

– Puoi servire, Pierre!...

Entrarono altri viaggiatori. Le seggiole eran quasi tutte a terra, attorno ai tavoli. Due camerieri s’eran messi le giacche bianche, sopra il grembiule.

– Un caffelatte – ordinò De Vincenzi.

– Come al signore – disse una voce e De Vincenzi si volse.

Al tavolo accanto al suo s’era seduta una donna. Non c’era da sbagliare. L’abito di seta nera, la mezza scollatura, il cappellino di lustrini dorati e la borsetta deposta sul tavolo. Labbra rosse, pomelli accesi, occhi allucinati, enormi – color dell’acqua livida di uno stagno – in mezzo al cerchio violaceo del bistro.

Un sorriso animalesco delle labbra tirate sui denti, con due segni profondi dalla radice del naso agli angoli della bocca. Uno di quei sorrisi che sembrano da teschio, anche quando la donna è giovane e bene in carne com’era quella.

– Avete perduto?

De Vincenzi sussultò. Il primo istinto era stato di alzarsi e cambiar tavolo. Invece, girò la sedia verso di lei. Fu più forte d’ogni repugnanza. Aveva sentito dentro di sé quel piccolo fremito, che sempre gli annunciava l’imprevisto.

– E voi?

– Vi ho veduto al bac di Fantasio. Poi siete scomparso. Vi ho cercato, sapete? M’avevate colpito, perché eravate certo un novellino. Così evidente! Avrei voluto consigliarvi. Se siedevate alla terza tavola... quella dove conducono i polli... eravate fatto! C’è il sabot avvelenato a quella tavola! Quando capita in mano a qualcuno di loro dà fino a tredici colpi di seguito! La chiamano la serie!

Il cameriere aveva portato i vassoi col caffelatte.

I croissants, Pierre.

Si voltò di nuovo a De Vincenzi.

– Avete girato le altre bische fino a quest’ora?... Scusatemi, ma ve lo domando per sapere... Se avete fatto la tournée, siete fauché... e io non mangio i croissants, perché non ho che due franchi nella borsetta...

– Voi andate sempre da Fantasio?

Sempre! È la mia galera! Mi pagano per andarvi. Questo non evita che qualche notte mi veda ridotta con due franchi, perché mi metto a giuocare anch’io e i cento franchi che mi dà Victor se li pigliano gli altri...

– Non ci sono ancora croissants, signorina!...

Il cameriere era tornato, portando due panini duri in una cestina di metallo.

Fu un’ispirazione improvvisa quella di De Vincenzi. Pensava che sarebbe tornato Loret. Si alzò e gettò una moneta da cinque franchi sul marmo.

– Pagatevi anche per la signorina. Venite! Andiamo alla Brasserie Royale, dev’essere aperta.

Lui, passando in carrozza per l’Avenue de la Victoire, aveva veduto che era aperta.

La donna si alzò subito.

– Sei un angelo!

Prese le zollette di zucchero dal vassoio e se le mise nella borsetta.

– Tanto è pagato!

Uscirono. De Vincenzi affrettava il passo, per paura che Loret li vedesse. Appena fuori, cacciò la donna in un tassì.

– Alla Brasserie Royale!...

Sei un angelo! – ripeté la donna e, quando gli fu seduta accanto, l’osservò attentamente. – Non sei francese, tu! Hai vinto, stanotte? Perché stavi alla stazione? Devi partire? Se rimani a Nizza, fidati di me! Ti guido io. Conosco la città come la mia camicia... Le bische poi!...

Aveva posato una mano sul ginocchio di De Vincenzi e lo accarezzava. Non gli toglieva dal volto gli occhi allucinati, che adesso volevano avere lampi di tenerezza riconoscente. Sentiva l’amico, sebbene non fosse ancora riuscita a catalogarlo. Passa gente d’ogni sorta per la Costa Azzurra e a Nizza si dà convegno la feccia dell’umanità...

Il tassì aveva fatto la volata per l’avenue deserta e bloccò i freni davanti alla Brasserie.

Entrarono e De Vincenzi andò diritto verso il fondo, nell’ultima saletta. Il locale era deserto. Il cameriere li vide entrare in quella specie di camera segreta, li guardò maliziosamente. Appena seduta sul divano, la donna si tolse il cappello e scosse i riccioli castani. Non era brutta. Piuttosto bella, anzi, se non avesse avuto le pupille dilatate, fisse, striate di riflessi verde palude. Il terribile cancro del giuoco e le nottate e tutto il resto avevano segnato il suo volto giovane.

– Quanti anni avete?

Rise.

– Mi credi minorenne? Ho ventitré anni! Son quattro anni che sto a Nizza. Ero venuta per quindici giorni, per curarmi... Il dottore m’aveva ordinato la Riviera... facevo la vendeuse al Louvre... Una volta qui, sono rimasta!

Il cameriere aspettava ritto davanti a loro.

– C’è la cioccolata?

– Certo, signorina!

– Per me una cioccolata e tanti croissants...

De Vincenzi ordinò un pernot. Aveva bisogno di eccitarsi. Si sentiva travolto in una vita che non era la sua, che non conosceva, che non immaginava neppure! In un lampo rivide Milano, il suo appartamentino al Sempione con la vecchia Antonietta... La mamma nella lontana Ossola, aggirarsi per la casetta e l’orticello, con le galline, il cane e la domestica... Se Antonietta l’avesse veduto là dentro, alle cinque del mattino, con quella donna accanto!... Per vincere il turbamento, pensò a Kiergine, che in albergo dormiva come un bimbo, con un respiro che non si sentiva neppure!...

– Sei triste?... Un po’ stanco, vero?

Intingeva i croissants tutti interi nella tazza e mangiava voracemente.

Il primo sorso d’assenzio opalino diede come una frustata al cervello di De Vincenzi. Dunque, quella ragazza era una allumeuse di Fantasio. Che cosa sapeva lei di quella bisca? E di Victor e del tedesco e di tutti gli altri? Forse, niente. Lui aveva seguito un’ispirazione.

– Come ti chiami?

– Odette!

– Perché hai detto che da Fantasio barano?

Lo guardò con ironia.

– Si vede che sei arrivato da poco! Ascoltami! Non andare a quel bac. Se vuoi giuocare, vai al Casino, vai a Montecarlo. Quelli son luoghi puliti!... Sei ancora una persona per bene, tu! L’ho capito subito e non mi sbaglio, io!... Se ti metti a frequentare Fantasio ti succhiano vivo!... È tutta una banda!... Io non parlo, ma ne ho viste là dentro!...

Ebbe un brivido. Aveva finito di mangiare. Si lasciò ricadere sul divano e appoggiò la testa alla spalliera di velluto rosso. Non era brutta! Aveva il corpicino sottile, il collo perfetto, piccoli seni ancora sodi e diritti.

– Non uccideranno mica, là dentro!...

Aveva proferito la frase con leggerezza e ne spiò l’effetto sulla donna. Lei lo guardò. Strinse le labbra.

– Chi t’ha detto che uccidono? Io no, in ogni caso... Ma qualcuno è entrato lì dentro, per non uscirne...

Si pentì subito. Scrutò il compagno.

– Sei proprio forestiero? Sì, questo si vede. Italiano?

De Vincenzi annuì col capo.

– Di passaggio? Perché sei venuto a Nizza?

– Affari!...

– Mise la mano nella tasca del petto e trasse la fotografia di Paulette Garat, che aveva presa nella camera di Kiergine, all’Hôtel Europa.

– Hai mai veduto questa donna?...

– Chi è? La tua fidanzata?...

Voleva ridere, ma appena ebbe presa la fotografia e l’ebbe guardata, si fece seria. Aggrottò le ciglia. Fissava il compagno con diffidenza, più che con stupore.

– Chi sei tu?

La voce le si era fatta dura, vibrante.

– Che t’importa? Dimmi se la conosci. Sono venuto a Nizza per trovarla...

Si rasserenò.

– Anche tu!...

Ebbe un riso breve, nervoso, quasi di dispetto.

– Il fascino, eh! Li prende tutti! Sì, che la conosco. Ma non c’è nulla da fare, piccino mio! Oppure finirai come gli altri! Dà retta a un altro consiglio di Odette. Non la cercare!...

– Dimmi quel che sai di lei!...

La voce di De Vincenzi s’era fatta dura. Lei lo guardò di nuovo, quasi con spavento. Poi diede un colpo di testa all’indietro, per sfidarlo.

– Non faccio l’informatrice, io! Cercatela!...

– Ti do duecento franchi, se mi dici tutto quello che sai.

– Ah! – gli occhi le avevano brillato. – Ho proprio da pagare la pensione. Due settimane. Mi tengono perché ho i bagagli che valgono... Due settimane fanno duecento ottanta franchi. Dammene trecento e ti dico quel che so...

Lui trasse tre biglietti dal portafogli e glieli diede.

– Parla!

– Ti fidi a darmeli prima?... Sei carino!... Sicuro che parlerò. Per quanto, non credere d’imparare nulla che ti faccia piacere.

– Non importa. Quando l’hai conosciuta?

– Il primo anno ch’ero qui... Capitai subito al bac di Fantasio, te l’ho detto. Lei ci veniva ogni notte. Era accompagnata da un turco... un omone alto e grosso, con due occhi bovini e certi brillanti alla camicia e alle dita da far spavento... Lei non giocava... ma lui sì. Un giuoco d’inferno. Ogni notte erano pacchi di biglietti azzurri che ci lasciava... Poi scomparvero... Si vede che il turco aveva mangiato la foglia e se n’era andato. Io allora non sapevo ancora quel che si faceva lì dentro... Quando interrogai Louis... sai? il barman... mi rispose: «Per questa volta il colpo al padrone non è riuscito»...

Che colpo?...

Gli diede un’occhiata.

– Proprio niente sai! Tutta una banda, ti dico! Tutti! Victor... Louis... il tedesco... tutti...

– E Paulette Garat?

– Come?... Ah! Già... Tu la conosci col nome che s’è messo...

– E come si chiama, veramente?

Esitò. Rise. Mangiò un altro croissant, asciutto, perché aveva vuotato la tazza.

– Cameriere! Un’altra cioccolata.

– Come si chiama?

– M’hai pagata per parlare! Questo non vuol dire che io non arrischio grosso a mettermi a tavola c0n te! Se lo sapesse Victor, sarei fatta anch’io!

– Di che hai paura?

– Perché vuoi trovare quella donna? L’ami?

De Vincenzi non ebbe esitazioni. Doveva andare sino in fondo. E poi l’assenzio, l’atmosfera irreale, attossicata, vibrante, in cui viveva da quando era giunto a Nizza, da prima, anzi, dal momento in cui s’era trovato di fronte a Ivan Kiergine, lo avevano messo in uno stato di eccitazione che non aveva mai conosciuto. Gli sembrava di essere lui stesso diverso, irreale; poteva fare molte cose che normalmente non si sarebbe neppur sognato di concepire. Insensibilmente, era entrato nella sua parte. Si sentiva attore.

– L’ho nel sangue! – mormorò e l’accento doveva essere giusto, perché Odette lo guardò con interesse nuovo.

– Una donna di temperamento, eh!

– Chi è, realmente?

– È la figlia di monsieur Victor...

Arrivò il cameriere con la cioccolata.

De Vincenzi quasi se l’aspettava, quella risposta.

– E poi?... Mi hai detto che scomparve col turco...

– Sì. Si vede che quell’uomo sapeva difendere i suoi brillanti e teneva alla vita... Per qualche anno non s’è vista più... Nessuno se ne ricordava neppure... io no di certo, per lo meno... Quando è ricomparsa, un mese fa... Ma tu, questo lo sai, se sei venuto a cercarla a Nizza...

– Quando l’hai veduta per l’ultima volta?

– Un paio di settimane fa... E stasera, quando ho riconosciuto il russo che entrava, credevo proprio di vedere anche lei!... Invece, no!...

Il russo?

– Oh! Quello... Un altro pazzo!... Viveva con lei e sembra che non l’abbia mai neppure toccata... Vuol sposarla!... Te l’ho detto. Non c’è da far nulla per te, con quella lì... Dà retta a me... Contentati delle altre...

Gli fece una carezza sulla guancia. C’era molta tenerezza nelle sue parole.

– Sei un bel ragazzo, tu!...

De Vincenzi non si ritrasse neppure. Pensava. Stette in silenzio qualche minuto, e la donna, occupata a bere la cioccolata, non lo disturbò.

– Ebbene? Non dici più niente? Che vuoi fare, adesso? Aspettami un momento.

Si alzò e scomparve nell’altra sala con quel suo passo molle e saltellante.

De Vincenzi chiamò il cameriere e pagò.

Che cosa sapeva ancora quella ragazza? Fino a che punto avrebbe potuto aiutarlo? Più che mai, adesso, era determinato a tornar quella sera stessa al bac di Fantasio. Per la prima volta, nel corso d’una inchiesta, si sentiva trascinato dall’avventura. Il canotto insanguinato... il cadavere di Eduard Letang... Ivan Kiergine, che voleva sposare quella donna e che non l’aveva mai neppure toccata! Per questo, s’era quasi ribellato, quando gli aveva detto che era la sua amante... Ma perché avevano ucciso Eduard Letang?

Odette tornava. Si doveva esser lavata il viso, perché non aveva quasi più traccia di trucco sotto gli occhi. E anche gli sguardi le si erano fatti meno lucidi, le pupille cominciavano a impicciolirsi, a tornar normali. Aveva i capelli luminosi, con riflessi d’oro. Soltanto le labbra si mostravano ancora rosse, come una ferita. Ma era bella, adesso.

Andò a sederglisi vicino, al posto di prima, e lo fece con una grazia nuova, senza sfrontatezza, quasi con pudore.

– E così?

– Hai conosciuto Eduard Letang?

– Chi è? Ne ho conosciuti tanti, lì dentro!

De Vincenzi si provò a descriverglielo.

– Era un amico del russo, credo!

– Che faceva?

– Giuocava. Che volevi che facesse? Ma nessuno si occupava di lui!

– Neppure Paulette Garat?

– Non so. Sai? Quest’ultima volta sono stati qui pochi giorni. E venivano un’ora o due e qualche volta non venivano neppure. Sembra che Kiergine col tedesco facessero il gran giuoco. Andavano ad Antibes, a Cannes, tagliavano i grossi banchi...

De Vincenzi si alzò.

– Andiamo.

– Dove? – chiese lei con ansia.

– Ti riaccompagno a casa. Dove sta la tua pensione?

– In via Déroulède. Qui vicino.

Per la strada non parlarono. Ogni tanto Odette gli dava un’occhiata. Lui camminava assorto.

– Eccoci arrivati.

S’era fermato davanti al cancello di un piccolo giardino. Era aperto e lei lo spinse ed entrò.

– Vieni su? – chiese, e nella voce c’era quasi una preghiera.

– Ci vedremo stasera al bac di Fantasio. Ma tu fa’ mostra di non conoscermi. A che ora esci... da lì dentro?

– Alle tre e mezza... alle quattro... Quando è finito il giuoco.

– Uscirò con te...

E si allontanò in fretta, mentre Odette s’era fermata dietro il cancello e lo guardava.