Capitolo XIV

«Chi pon mente al vento non seminerà»

De Vincenzi aveva avuto il suo primo contatto col dramma la sera del 2 giugno, mercoledì, quando gli avevano condotto nell’ufficio Ivan Andrejevich Kiergine, incolpato di assassinio nella persona – che del resto si manifestava introvabile – della sua amante Paulette Garat. Era partito per San Remo alle dodici del giovedì e da San Remo per Nizza il venerdì.

Meno di ventiquattr’ore di fermata a San Remo erano state sufficienti perché egli assistesse, quasi di persona, all’assassinio di Valeri, perché gli venisse comunicata la scomparsa di due milioni dalle casse del Casino e perché Conrad van Lie denunciasse, con alti ma dignitosi lamenti, il furto dei brillanti.

Se le vicende della sua inchiesta avessero continuato a procedere con un tal ritmo selvaggio di assassinii e di furti, egli non avrebbe potuto dubitare di trovarsi alle prese con una banda organizzata! D’essere a Chicago, piuttosto che in Italia.

Ma no. Era venuto a Nizza e, se c’era stato un morto, questo apparteneva al campo avverso, era anzi molto probabilmente proprio il capo di quella tal banda, della quale del resto lui non aveva ragione alcuna per supporre la reale esistenza organizzata.

Tutto questo non lo avrebbe, però, interessato eccessivamente. Sarebbe stata una inchiesta comune, né più appassionante, né più pericolosa e complicata di tante altre. Un certo numero di malandrini internazionali, disceso in Italia, aveva scelto San Remo per teatro delle proprie gesta, vi aveva compiuto alcuni furti rilevanti, un omicidio forse tra complici... Nulla di nuovo e di straordinario e del resto De Vincenzi s’era trovato in grado di identificare subito il più importante di quei malandrini, lo aveva inseguito – servendosi d’un calcolo di probabilità risultato esatto – lo aveva raggiunto, gli aveva dato un colpo di sgabello sulla testa, costringendolo a fuggire di nuovo e ad andarsi a gettare contro lo sbarramento dei gendarmi di Barcellonette...

Tutto semplice! Un fatto di cronaca volgare. Una serie di delitti senza immaginazione.

Ma no! Tutto questo non contava. Era cornice. Doveva servire di sfondo al dramma reale, al delitto o ai delitti enigmatici.

Il dramma era la scomparsa di Paulette Garat, l’assassinio di Eduard Letang e soprattutto esso si trovava racchiuso e impersonato in un uomo, in un essere vivente, che De Vincenzi teneva, che poteva osservare a suo agio, che stava dormendo nella camera accanto alla sua, gettato nell’incoscienza più completa dell’alcool, e che pure – così visibile, tangibile, di carne e ossa com’era – racchiudeva in sé un vero enigma psicologico, un reale mistero umano.

Qui era il dramma! Un dramma senza eroina! Ecco che cos’era. Fin quando la vera protagonista di quella vicenda non si fosse ritrovata, il mistero sarebbe rimasto impenetrabile e tutti avrebbero potuto girarci attorno come cavalli ciechi alla macina.

E De Vincenzi seduto sul suo letto, in cui s’era trovato desto dopo appena un paio d’ore di sonno agitato e pieno d’incubi, si diceva appunto – riepilogando gli avvenimenti di quei quattro giorni – che quel dramma era ben lungi dall’aver raggiunto l’acme della propria intensità. Ne avrebbe dovuto vedere di ben altre!

Poche ore prima aveva varcato la soglia del bac di Fantasio, ch’egli credeva pieno di pericoli, e nulla era avvenuto! Victor gli parlava con tranquillità, gli dimostrava che nulla aveva da rimproverarsi, che la Polizia non poteva prendere alcuna misura contro di lui, bianco come neve, e per tutta conclusione gli consegnava il russo, ubriaco.

Che cosa poteva fare, adesso?

Tornarsene a San Remo col magro bottino di un cadavere di più e di una informazione – Paulette Garat era Paulette Delfosse! – che metteva bensì la figura della scomparsa in una luce nuova, più cruda, ma che non spiegava gran cosa.

Scese dal letto e spalancò la finestra.

Dalla stazione scendevano viaggiatori a frotte. Quasi tutti senza valigia, erano famigliole vestite a festa, coppie d’innamorati. La provincia, che scendeva in città per la domenica piena di sole.

Si ritrasse e si vestì. Dalla camera di Kiergine non veniva alcun rumore. Quando fu pronto ed ebbe chiusa la valigia – quello doveva essere l’ultimo suo giorno di Nizza – aprì la porta di comunicazione.

Il russo era già vestito. Aveva spinto la poltrona verso la finestra aperta e vi si era seduto. Col capo sulla spalliera, le braccia abbandonate lungo la persona, guardava il cielo.

Sul letto c’era la valigetta gialla, chiusa. Anche lui voleva partire!

De Vincenzi gli si avvicinò.

– Oggi torneremo in Italia, Kiergine.

Si voltò a fissarlo con lo sguardo limpido. Gli occhi avevan ripreso quel loro fulgore di gemma azzurrina. Sul volto non recava traccia del troppo whisky assorbito.

– Lo immaginavo – disse. – Vi avevo detto di non venire a Nizza!...

La voce, pur sempre eguale, incolore, aveva più forte l’accento consueto di una rassegnazione preparata a tutto, che nulla può scuotere e sconvolgere. Anche quella sua frase non suonava rimprovero.

E aveva vissuto quattro anni, forse, con la donna che amava, senza toccarla!

E voleva sposarla. E quando ella spariva – o gliel’avevano uccisa? – lui, per primo movimento, fuggiva verso Milano e poi assisteva all’incalzar furibondo degli avvenimenti, ubriacandosi per tutta consolazione!

– Kiergine, vi avevo detto che entro otto giorni volevo arrivare in fondo a tutto quel che è accaduto a San Remo. Ebbene, debbo chiudere l’inchiesta. Anche a Nizza essa ha proceduto. Oggi io so chi sia Paulette Garat...

Il russo levò verso di lui gli occhi, che aveva abbassati.

– Perché è la figlia di un tenutario di bisca?...

– Quali amanti ha avuti, prima d’incontrar voi, Kiergine? Io conosco il nome di quegli amanti...

Alzò le spalle.

– Il passato!... – mormorò.

– Voi perché siete tornato nella Russia dei Sovieti?

– Anche questo è il passato!

– No! Questo è il presente, se voi viaggiate con un passaporto regolare dei Sovieti che altrimenti non avreste avuto.

– Sono russo...

– Quali risorse di denaro avete per vivere?

– La roulette e il baccarà...

De Vincenzi lo fissava. Non s’era proposto di sottoporlo a un interrogatorio proprio in quel momento. Sentiva che da esso non avrebbe ricavato nulla... Ma aveva cominciato...

– Sotto la guida di Kauffmann?

Kiergine ebbe un fremito.

– È vero che partiremo tra poco, commissario?

Il tedesco costituiva, dunque, per lui la vera minaccia? Era per Kauffmann che non avrebbe voluto seguirlo a Nizza?

– Lo sapete, Kiergine, che i gendarmi hanno ucciso Kauffmann?

Sbarrò gli occhi. Fu preso da un fremito, che cercò di vincere, stringendo i denti e i pugni.

Dopo qualche istante, chiese:

– È vero?

– È vero.

Si passò la mano sulla fronte, con un movimento stanco. Quella notizia gli aveva portato forse la liberazione ed egli si doveva sentir stremato, come quando si vede di colpo che l’avversario è abbattuto e che si può cessare dalla lotta. Allora, si manifesta il collasso.

Poi un’idea improvvisa l’assalì, che sembrò frustarlo.

– Ma se lui è morto!...

– Ebbene?

De Vincenzi attendeva finalmente la rivelazione.

– Ma se lui è morto... – ripeté – Paulette...

– Che volete dire?

Ebbe un atto di decisione.

– Commissario! Bisogna ritrovare Paulette!

Gli occhi gli brillavano, duri, freddi. Fu la prima volta che De Vincenzi lo vide animato da un’energia positiva, da una volontà d’azione. Fino allora tutta la sua energia si era spiegata nella resistenza inerte.

– E voi credete che sia stato Kauffmann a farla scomparire?

Eluse la domanda, ripetendo per la terza volta:

– Lui è morto!

Guardava il vuoto davanti a sé. Ancora ebbe quel movimento della mano sulla fronte, ma più deciso, più rapido, come se volesse liberarsi dalle ultime nebbie che l’ottenebravano. Il morto doveva esser più che mai vivo per lui, in quel momento.

Andò alla finestra e guardò il cielo.

De Vincenzi lo lasciò fare. Aspettava. Sentiva che l’uomo era allo stremo della sua forza di dominio. Ancora un istante e sarebbe scoppiato in lacrime. Vedeva le sue spalle sussultare. L’impeto dei singhiozzi doveva premergli alla gola, irrefrenabile. Era andato apposta alla finestra: per nascondere la commozione.

Invece, riuscì ancora a dominarsi.

Fu una specie di miracolo.

Si volse e apparve calmo. Fissò De Vincenzi.

– Dovreste lasciarmi libero per un giorno! Vi do la mia parola d’onore che fra ventiquattr’ore tornerò.

Che cosa voleva fare? Conosceva davvero il luogo dove poter ritrovare la donna? Fino a quel momento si era astenuto dal cercarla, perché terrorizzato da Kauffman? Dopo tutto, sarebbe stato un mezzo... Ma lui non avrebbe arrischiato troppo? Non aveva con sé neppure Cruni, per farlo seguire di nascosto. Avrebbe dovuto seguirlo lui...

– Dovete credere alla mia parola d’onore!

Guardò attorno per la stanza, ma subito distolse lo sguardo dalle pareti.

– Se qui ci fossero le icone, vi giurerei sulle Sacre Immagini di tornare... Allora dovreste credermi.

– E voi siete sicuro di poter ritrovare Paulette Garat?

– Non so... Io credo...

– Ma perché Kauffmann l’avrebbe fatta scomparire?...

– Non chiedetemelo!... Non chiedetemi nulla! Abbiate soltanto fiducia in me...

– Come potrei aver fiducia, Ivan Kiergine? Voi dimenticate che c’è anche il cadavere di Eduard Letang... Chi era Letang?...

– Ah!

Si prese la testa fra le mani con un movimento disperato. Fece qualche passo. Cadde a sedere sulla poltrona. Appariva di nuovo accasciato. Non chiedeva più nulla. Doveva sentirsi stretto ancora da mille lacci.

– Ebbene, vi lascio libero di andare dove volete, Kiergine! Debbo attendere il vostro ritorno a Nizza?

Arrischiava grosso. Non aveva ancora un piano. Non avrebbe saputo come riprenderlo, se gli fosse sfuggito. Eppure aveva parlato e non se ne pentiva. Che cos’altro poteva fare?

Il russo sollevò lo sguardo. Un gran bagliore di speranza vi ardeva.

– Grazie!... – disse. – Ma io debbo passare la frontiera. Vi ho chiesto un giorno. Non basterebbe!... Dovreste accompagnarmi fino a Strasburgo... Là mi attendereste... A meno che...

– Niente! Vi accompagno...

De Vincenzi era febbrile. Sentiva che appena a Milano avrebbe dovuto dare le dimissioni. E ancora non era il peggio che potesse accadergli. Ma tant’è! Ormai s’era impegnato. E poi non poteva far nulla di diverso. Soltanto, avrebbe giocato la partita a modo suo, sino alla fine.

– Vi farò avvertire in tempo per il treno... Non mi ringraziate. Non lo faccio per voi!... E neppure per Paulette Delfosse!...

E uscì, senza voltarsi, perché se avesse guardato ancora il volto di Kiergine e lo avesse veduto illuminato di gioia, lo avrebbe schiaffeggiato.

C’era un treno per Parigi alle undici e venti. Avrebbero preso quello. Non potevano essere a Strasburgo che nel pomeriggio del giorno dopo. E poi Kiergine gli aveva chiesto ventiquattr’ore... Quando avrebbero potuto tornare a Milano? A Milano o a San Remo?

Otto giorni! Entro otto giorni voglio arrivare in fondo alla verità! Ne erano passati quattro di quegli otto e altri tre ne accorrevano, ad andare bene, prima di poter tornare in Italia!

– Il conto! E le valigie subito alla stazione. Avvertite il mio compagno e fatelo scendere.

Andò al telefono. Era indeciso se telefonare o meno a San Remo. Per un momento pensò di far partire Cruni per Strasburgo. Troppo complicato! Il brigadiere non doveva avere neppure i denari pel viaggio...

Chiamò il Commissariato di via Gioffredo.

– Il signor Loret!... Sì, sono io... Nulla! Non è accaduto nulla... Parto tra venti minuti... Naturalmente! Non c’è nessun treno per Ventimiglia; ma io non vado in Italia... A Parigi e poi a Strasburgo... Se io stesso lo sapessi ve lo direi, amico mio! Ma non lo so... È un tentativo, che per ora non ha alcun senso!... Come dite?... La salma a Nizza? Benissimo!... Forse, ci rivedremo. Forse, avrò molto bisogno di voi, ancora. Intanto, vi ringrazio... Prezioso! Mi avete dato un aiuto prezioso... Sentite! Se volete, avvertite Strasburgo, che, nel caso, mi aiutino... Grazie! A rivederci!

La sua valigia era nel vestibolo. E Kiergine anche, che portava da sé la valigetta gialla. Il russo aveva ritrovato tutta la sua calma. Il volto impenetrabile. Lo sguardo spento.

– Andiamo!

Appena nel vagone, De Vincenzi chiuse gli occhi. E il russo si mise a guardare fuori del finestrino il mare, che si vedeva a tratti, attraverso visioni rapide, e che appariva azzurro cupo sotto il sole.

Guardava come un bimbo: con meraviglia gioiosa. E aveva il volto quasi sorridente.

De Vincenzi aveva chiuso gli occhi per non veder lui e quella sua incosciente felicità.

***

Arrivarono a Strasburgo alle diciotto del lunedì.

Durante tutto il viaggio non avevano scambiato che le parole indispensabili. A Parigi De Vincenzi aveva comperato a un chiosco nella stazione la guida Hachette di Strasburgo e il Baedeker, Les bords du Rhin. Quando li aveva messi accanto a sé, sul sedile, Kiergine aveva fissato il Baedeker.

– Non mi avete detto che dovete passare la frontiera? – aveva chiesto De Vincenzi, in risposta a quello sguardo.

E il russo a esclamare:

– Mi avete promesso di lasciarmi libero!...

– Da Milano, si può andare sul Reno, passando per Zurigo...

– Non vi ho detto che ho i miei parenti a Düsseldorf?

De Vincenzi aveva preso il Baedeker e s’era messo a scorrerlo.

Verso l’ignoto! Ma non era sempre verso l’ignoto che lui era costretto ad andare, da quando s’era dato a quel suo mestiere, che adorava e odiava?

Sulla banchina della stazione di Strasburgo, si volse a Kiergine:

– In che albergo andiamo?

Meravigliato di quella domanda, che non si aspettava, l’altro rispose:

– Io non conosco che l’Hôtel de la Maison Rouge, in piazza Kléber...

E fu il passaggio sul ponte, davanti alle due torri massicce, la visione dei pinnacoli fioriti della Cattedrale, l’arrivo sulla grande piazza.

De Vincenzi ebbe la sensazione di trovarsi in un’altra epoca, in un mondo del quale soltanto i libri gli avevano parlato. Perché pensò all’arrivo di Maria Antonietta, infantile Delfina di Francia, a cui il volto del marito era ancora ignoto? E al discorso che l’abate di Rohan le fece sulla soglia della Cattedrale, contro lo sfondo dei portali, aureolato dalle luci lontane dell’altare stellato di ceri?

«Chi sa se avrò il tempo di andare a vedere almeno la Cattedrale!» pensò De Vincenzi.

Osservava il compagno. Neppure un’ombra d’impazienza era in lui adesso, che pure doveva sentirsi vicino a quella ch’egli stesso aveva fissato come meta e forse a colei che amava. Che cosa avrebbe fatto? Dove sarebbe andato a cercarla?

Involontariamente, De Vincenzi pensava a un riparo di banditi, a un triste luogo dove la giovane fosse tenuta prigioniera... Perché Kauffmann, se era stato lui, e Kiergine certo lo credeva, aveva voluto allontanarla dal russo, strappargliela brutalmente, con la violenza, come il canotto insanguinato e la borsetta e l’impermeabile rosso potevano far supporre?

E lui come avrebbe fatto a trovar quel riparo, a seguire Kiergine fino a quel luogo, che evidentemente doveva trovarsi in Germania, se il russo aveva parlato di un confine da attraversare?

Appena giù dal tassì, un lift tutto rosso corse a togliere la valigia di mano al commissario, mentre uno chasseur fiorito di galloni d’oro sulla tunica verde con gesto maestoso si toglieva il bicorno.

De Vincenzi si fece dare le due solite camere comunicanti e un bagno. Non osava neppure confessare a se stesso che avrebbe avuto il bisogno estremo di riposare, di stendersi in un letto per dodici ore di seguito, dopo essersi immerso in un bagno caldo. Quante ore aveva dormito in quattro giorni? E nella cuccetta del rapido per Parigi, dopo Avignone, non era riuscito a chiuder occhio.

Fece salire Kiergine e le valigie e lui entrò nella cabina telefonica. La conversazione che dovette fare fu breve, perché il commissario di Strasburgo aveva già ricevuto comunicazione da Loret di quanto concerneva quel commissario italiano, che andava percorrendo la Francia, con un russo al guinzaglio, dietro il sottil filo della propria induzione personale, per risolvere un rompicapo poliziesco irto di incognite quanto di delitti e di reati.

– Ben lieto di potervi essere utile. Io mi chiamo Ernwein. Se voi non potete venir da me, verrò subito io in albergo...

– Non v’incomodate personalmente, vi prego! Ho piuttosto bisogno del vostro aiuto in una forma altrimenti immediata. La persona che mi accompagna uscirà tra breve dall’albergo, per recarsi forse alla stazione... forse altrove... Non so! E se lo sapessi non incomoderei voi. Io ho bisogno che quella persona sia seguita e non venga perduta di vista un solo istante... Molto probabilmente varcherà il confine... Anche in questo caso è necessario seguirla... Naturalmente, occorre una filatura discreta... L’uomo del quale si tratta non deve accorgersi d’esser seguito. A me preme conoscere il luogo dove si reca... le persone che avvicina...

La grossa voce del commissario alsaziano lo interruppe:

– Ho capito! Datemi i connotati e non fate uscire l’individuo dall’albergo, se non tra venti minuti almeno...

De Vincenzi, fuori della cabina telefonica, si trattenne qualche istante nel vestibolo. Si fermò nella sala di lettura. Non si fece accompagnare in camera se non quando almeno dieci di quei venti minuti erano trascorsi.

Era appena entrato, che Kiergine apparve sulla soglia.

De Vincenzi si finse intento ad aprir la valigia e a disporre i suoi indumenti nell’armadio.

Il russo lo guardava. Non dava alcun segno d’impazienza, ma era facile indovinare che era fremente. E come galvanizzato. Aveva persino perduto quel suo aspetto ascetico e sognante. De Vincenzi si ostinava a ignorarne la presenza e lui fece qualche passo nella camera, avanzando. Anche sembrò che volesse parlare, ma si trattenne.

I minuti passavano. De Vincenzi si augurava che entrasse un cameriere, che il commissario Ernwein lo facesse chiamare di nuovo al telefono, che un incidente qualsiasi venisse a offrirgli il modo di guadagnare il tempo che occorreva, perché Kiergine uscisse dall’albergo, quando già l’uomo che doveva seguirlo era al suo posto.

Il silenzio pesava, tutto pieno delle vibrazioni intense che si sprigionavano materiali dai nervi tesi di Kiergine.

Non avrebbe potuto durare.

De Vincenzi si volse e fissò il russo.

– E così? Eccoci a Strasburgo...

– Vi ho chiesto ventiquattr’ore di libertà... Forse, basteranno assai meno...

– Non intendo accompagnarvi, Kiergine, e non ritorno su quanto vi ho promesso. Ma non vorrei che voi vi esponeste a un pericolo inutile...

L’altro sorrise. Fece un gesto.

– Chi pon mente al vento non seminerà e chi guarda le nuvole non mieterà...

Per quanta fosse la sua ansia, egli citava ancora i versetti della Bibbia!

– Si tratta di trovare Paulette Garat, Kiergine!

Si strinse nelle spalle; ma gli occhi ebbero un lampo.

– E di trovarla... viva!...

Non si turbò. Doveva non aver creduto in cuor suo neppure un istante che la donna potesse essere morta.

– Voi sapete che anche se potrete ritrovarla e condurla qui, dovrete venire entrambi con me a San Remo. Ci sono ancora troppe incognite, che neppure la riapparizione della donna varrebbe a spiegare... Lo sapete!

Vi ho detto che tornerò!

– Ci conto.

Di nuovo fu il silenzio.

Kiergine fece qualche passo verso la porta.

– Vado... – disse.

De Vincenzi non poteva trattenerlo. I venti minuti dovevano esser trascorsi. A ogni modo lui non aveva alcun mezzo per prolungare quell’attesa senza rovinar tutto. Se il russo dubitava d’esser seguito, tutto il suo piano cadeva.

– Buona fortuna!

L’altro mormorò qualche parola in russo. Esitò. Ebbe il suo primo scatto sincero. Si voltò, tornò verso De Vincenzi, gli strinse la mano, poi fuggì, quasi.

De Vincenzi aveva sentito la mano di lui umida di sudore e gelida.

Rimase per qualche istante a guardare la porta per la quale era uscito, poi si scosse e corse alla finestra.

Attese qualche minuto brevissimo. Kiergine uscì.

Dietro di lui camminava un uomo tarchiato, dal collo taurino e dal volto acceso, che De Vincenzi aveva veduto a un tratto staccarsi dal monumento a Kléber.

Allora, De Vincenzi si tolse dalla finestra, che chiuse, e si gettò tutto vestito sul letto.